PASQUALE COSTANZO
Organizzazioni internazionali e
sovranazionali in Europa
(dalla “guerra fredda” al “confronto”
per la crisi georgiana)*
Sommario: 1. Premessa. – 2 Caratteri del multilateralismo
europeo dopo la seconda guerra mondiale. – 3.
Prove europee di autodifesa tra UEO e UE (alla ricerca di un’identità europea
di sicurezza e difesa). – 4.
“Decessi e nascite” in materia di sicurezza in dipendenza della caduta del muro
di Berlino (il Patto di Varsavia e l’OSCE). – 5. Il Consiglio d’Europa e il “ modello europeo” di protezione dei
diritti umani. – 6. La cooperazione
economica in Europa: dai “diritti del mercato” ai “diritti nel mercato”. – 7. Le organizzazioni europee come
“ponte” tra vecchio e nuovo costituzionalismo in Europa. – 8. Bibliografia essenziale.
1. Premessa.
Nel
tentare di offrire un affresco della situazione in atto e dei precedenti più
significativi in ordine alle organizzazioni di Stati in Europa, la prospettiva qui
adottata è legata prevalentemente alla storia e al censimento dei fenomeni
trattati. Solo in questo senso, dunque, la relazione ha scopi ricostruttivi,
anche se i materiali collazionati si prestano ad una pluralità di letture vuoi
sul piano dell’evoluzione del ruolo dello Stato, così come tradizionalmente
inteso, in un mondo sempre più globalizzato, vuoi su quello delle relazioni tra
Stati collegati da vincoli di cooperazione e tra organizzazione complessiva e
singole entità statali, vuoi ancora per il fatto che la tensione in atto oggi
in Europa verso la costituzionalizzazione dell’Unione europea mi pare stia
avvenendo, pur tra ripensamenti, timori e contraddizioni, non semplicemente a
partire dall’acquis communautaire maturato
nell’ambito della vicenda evolutiva avviata con la nascita a Parigi il 18
aprile 1951 della CECA (Comunità europea del carbone e dell'acciaio) e il 25
marzo
2. Caratteri del multilateralismo
europeo dopo la seconda guerra mondiale.
Comunque
sia, anche se l’idea di Europa ha ascendenze medievali ed è stata oggetto della
speculazione di molti pensatori tra ’700 e ’800, è a far data dalla fine della
prima guerra mondiale che essa incomincia a vivere come progetto politico,
assumendo però caratteri di operatività soltanto nella fase che coincide con le
ultime battute della seconda guerra mondiale e quella immediatamente
successiva.
In
particolare, se al tavolo del Trattato di pace, che, il 10 febbraio
Le
novità salienti erano infatti costituite, questa volta, dalla perdita della
centralità internazionale dell’Europa dal punto di vista sia economico, sia
politico, e dalla vistosa frattura del continente europeo in due blocchi
contrapposti sul piano politico-militare, quale conseguenza annunciata della
divisione in sfere d’influenza decisa a Yalta ancor prima della fine del
conflitto.
Tale
situazione insieme al clima di “guerra fredda,” subito instauratosi tra le due
grandi Potenze vincitrici, protrarrà i suoi effetti, sull’assetto geopolitico
europeo fino alla scomparsa dell’Unione Sovietica nel 1991.
2.1. In questo quadro, giocò un ruolo di
decisivo rilievo la grande perspicacia dell’ex
segretario aggiunto della Società delle Nazioni, il francese Jean Monnet, che,
già in piena guerra mondiale aveva espresso l’opinione che non ci sarebbe mai
stata pace in Europa se gli Stati si fossero ricostituiti “su una base di
sovranità nazionale”, invece che orientarsi verso “una federazione o una entità
europea che ne [facesse] una comune unità economica”.
A
quest’ordine di idee fece eco la Dichiarazione di Robert Schuman del 9 maggio
1950, nella quale si prospettava quel progetto di un’Europa unita, che, per
vero, era già stato al fondo delle intuizioni quasi visionarie degli italiani
Ernesto Rossi e Altiero Spinelli.
Si
cercava così di mettere da parte, patrocinatori gli Stati Uniti, sia pure in
prevalente funzione antisovietica e malgrado la resistenza della Gran Bretagna,
ancora fortemente legata agli interessi del suo impero coloniale (Winston
Churchill si proclamava favorevole alla formazione degli Stati Uniti d’Europa,
ma senza la Gran Bretagna), la secolare conflittualità tra gli Stati europei,
nella convinzione che qualsiasi scontro futuro sul territorio europeo sarebbe
assomigliato ad una sorta di guerra civile, oltre che ad una guerra tra poveri.
Anzi
proprio l’idea della stretta connessione tra risorgimento economico e
promozione della pace e del buon vicinato tra le Nazioni europee motivava che
si mettesse mano ad un multilateralismo economico all’insegna peraltro di
principi liberistici opposti ai sistemi autarchici e ai nazionalismi economici
ritenuti tra i fattori responsabili della crisi del sistema economico
internazionale tra le due guerre e dello stesso conflitto armato.
Il
proposito appariva per altro verso coerente con analoghe iniziative di livello
mondiale: a Bretton Woods, avevano infatti visto la luce nel luglio del 1944 il
Fondo Monetario Internazionale e il Gruppo della Banca
Mondiale, mentre era ancora recente la firma, il 30 ottobre
1947 a Ginevra, del GATT (Accordo Generale sulle
Tariffe ed il Commercio).
Più in
controtendenza poteva apparire la dimensione regionale dell’intesa che avrebbe
sostenuto la nascita di organizzazioni di tipo economico in Europa. In
precedenza, infatti, la stipula di accordi su scala geograficamente limitata
era stata anch’essa giudicata foriera di dissidi internazionali a motivo della
frammentazione di interessi politici, economici e militari che comportava. È
noto, del resto, come il Covenant della
Società delle Nazioni, animato invece da ispirazioni universalistiche, avesse
richiesto l’impegno degli Stati membri ad abrogare qualsiasi obbligazione o
accordo di carattere settoriale intervenuto tra gli stessi Stati.
Tuttavia,
l’universalismo, che ancora nel 1945 aveva permeato l’Organizzazione delle
Nazioni Unite, avrebbe trovato da lì a poco una plateale smentita nel Patto
Atlantico, stipulato il 4 aprile
3. Prove europee
di autodifesa tra UEO e UE (alla ricerca di un’identità europea di sicurezza e
difesa). – La collaborazione sul piano economico che, come meglio vedremo
nelle battute conclusive di questo discorso, si avviò in Europa col Trattato di
Parigi del 1948, istitutivo del l’Organizzazione europea per la Cooperazione
economica (OECE), si surrogò per certi versi a quel confronto marcato verso
Est, che numerose ragioni sconsigliavano di trasformare in un multilateralismo
militare esclusivamente europeo (tra questi, l’oggettiva debolezza delle forze
armate disponibili, la contiguità territoriale con la zona critica egemonizzata
dall’URSS, la presenza di forti Partiti comunisti ligi alla linea dettata da
Mosca, e, non ultimo, l’ostilità degli Stati Uniti a che si potesse sviluppare
un sistema militare-difensivo europeo al di fuori della Nato).
3.1. È vero che, col Trattato di
Bruxelles del 17 marzo del medesimo anno, s’era dato vita ad un Patto di
autodifesa collettiva tra alcuni Stati europei (Belgio, Francia, Gran Bretagna,
Lussemburgo e Paesi Bassi), ma il suo scopo era quello d’impedire la rinascita
militare della Germania, assicurandosi che questa non potesse violare gli
impegni assunti in tal senso. Era invece sul precitato Patto Atlantico che
l’Europa occidentale avrebbe fatto affidamento per la sua sicurezza nei
confronti della strategia di espansione sovietica culminato nella creazione
delle due Germanie.
A tal
proposito, occorre avvertire che non si parlerà qui della NATO, per la semplice
ragione che non si tratta di un’organizzazione esclusivamente europea. È, del
resto, noto che la sua nascita fu resa possibile dall’abbandono della dottrina
Monroe in base alla famosa risoluzione Vanderberg approvata dal Senato
americano l’11 giugno 1948, che assicurò il necessario sostegno alla politica
di Truman tesa a contenere l’imperialismo sovietico sul continente europeo.
Va
letta in questo senso anche l’adesione alla NATO della Grecia e della Turchia
nel 1952.
3.2. Tornando al Patto di autodifesa
collettiva del 1948, può osservarsi come la sua storia assomigli alla mitica
araba fenice in grado di rinascere dalle proprie ceneri, portando impresso il
segno delle accennate difficoltà ad organizzare una difesa europea autonoma ed
emancipata dagli Stati Uniti. Esemplare in tal senso fu il fallimento della
Comunità europea di difesa (CED) nel 1954, concepita come un progetto di
collaborazione militare tra gli Stati europei alternativo alla NATO. Proposto e sostenuto
dalla Francia
con l’appoggio dell'Italia,
tale progetto fallì per il disimpegno successivo della stessa Francia.
Nel
frattempo, le vicende della guerra di Corea e il timore di un’iniziativa
militare sovietica anche in Europa avevano convinto della necessità di riarmare
3.3. Alla UEO toccò quindi
paradossalmente di giocare un ruolo decisivo per l’integrazione della Germania
Ovest nella NATO e per il ritorno alla fiducia reciproca tra gli Stati
dell'Europa occidentale attraverso il mutuo controllo degli armamenti. In ogni
caso, lo scopo principale dell’UEO fu quello di assicurare la sicurezza degli
Stati membri attraverso un meccanismo automatico di reazione che andava al di
là di quanto richiesto dall’appartenenza alla stessa Alleanza atlantica, con il
limite dell’efficacia degli impegni al solo territorio continentale europeo
(ciò che ha evitato, ad esempio, l’applicazione del Trattato alla guerra tra
Gran Bretagna e Argentina per il possesso delle Malvine-Falklands nel 1982).
Dopo
un periodo di eclissi, l’UEO è stata riattivata nel 1984 con
Con il
Trattato di Maastricht sono stati stabiliti rapporti privilegiati tra l’Unione
europea e l’UEO, mentre con la “Dichiarazione dell’Unione dell’Europa
occidentale sul ruolo dell’Unione dell'Europa occidentale e le sue relazioni
con l’Unione europea e con l’alleanza atlantica” del 22 luglio
1997, s’è prodotto un vero
e proprio raccordo funzionale con l’Unione Europea. Parte della Dichiarazione
ha infatti assunto la veste formale di Protocollo allegato al Trattato di
Amsterdam, in quale ha inoltre riconosciuto l’organizzazione militare come
“parte integrante del processo di sviluppo dell'Unione europea" (Trattato
di Amsterdam, Articolo J.7).
Questa
previsione è stata soppressa dal successivo Trattato di
Nizza, anche in conseguenza della decisione del Consiglio europeo di
Colonia del giugno 1999 di rafforzare
Peraltro,
sul punto della difesa europea, sia il Trattato costituzionale, sia il Trattato
di Lisbona del dicembre 2007, hanno ancora una volta espresso un deciso
orientamento verso
Del
tutto ripetitivo dell’art. V del Trattato UEO è infine il disposto di entrambi
i testi per cui qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo
territorio, gli altri Stati alleati sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza
con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’art. 51 della Carta
delle Nazioni Unite.
3.4. Sembra peraltro ancora interessante
un rapido excursus sulla struttura
dell’UEO, di cui può subito rilevarsi l’appartenenza alle organizzazioni
intergovernative di “tipo europeo”, essendo così definite quelle che presentano
il peculiare carattere della presenza di un organo direttamente o
indirettamente elettivo di rappresentanza degli interessi dei popoli degli
Stati membri.
Tale
organo, nel nostro caso, s’identifica con l’Assemblea nella quale siedono (a
Parigi) le delegazioni dei 27 Stati membri dell’Unione europea, designate dai
Parlamenti nazionali interessati tra i loro stessi componenti, le delegazioni
degli Stati associati non appartenenti all’Unione europea, ma membri della NATO
(Islanda, Norvegia e Turchia), nonché le delegazioni degli altri Stati europei
c.d. partners, mentre altre
delegazioni, come quella del Parlamento europeo, possono essere invitate a
partecipare in qualità di osservatori (si noti peraltro che solo ai
parlamentari provenienti dall’Unione europea spettano per intero tutti i
diritti di partecipazione all’attività dell’Assemblea).
L’Assemblea
si pronuncia con rapporti e raccomandazioni, alcune delle quali sono state
all’origine degli avanzamenti europei in materia d’integrazione nel campo della
sicurezza e della difesa. Inoltre, vige l’obbligo per i governi dei Paesi
membri dell’UEO di sottoporre all’Assemblea una relazione annua scritta,
realizzandosi anche per questa via la doppia cooperazione intergovernativa ed
interparlamentare.
Sono
stati quindi previsti alcuni meccanismi automatici di coordinamento tra Unione
Europea e UEO, facendo sì che, ad esempio, il Segretario Generale del Consiglio
dell'Unione Europea - Alto Rappresentante per
Tali
soluzioni non sono prive di razionalità, considerato che fanno parte degli
organi consimili, in particolare i Consigli delle due organizzazioni, i
medesimi Ministri degli esteri e della difesa dei Paesi dell’Unione europea,
cosi che anche il Consiglio dei ministri comunitario preposto alla PESD
coincide con il Consiglio permanente dell’UEO, competente a deliberare con voto
unanime su tutte le questioni concernenti l’organizzazione.
Con Lisbona
2007 si è cercato di ridare smalto al dialogo tra Parlamenti nazionali e
Parlamento europeo: permane tuttavia il dubbio circa l’efficacia di questo
sistema nel particolare settore della difesa e della sicurezza europea, dato
che vi rimarrebbe sostanzialmente estranea proprio l’Assemblea parlamentare
dell’UEO, che gode delle attribuzioni di controllo più pregnanti in materia,
mentre gli attori di quel dialogo potrebbero rivelarsi poco incisivi rispetto
alle condotte degli esecutivi dell’Unione europea e degli Stati membri
È
comunque da notare che, svuotata la competenza dell’UEO in relazione ai
trasferimenti di materia all’Unione europea di cui s’è già accennato,
l’Assemblea ha concentrato gran parte della propria attività sulle questioni
concernenti
Se
conclusivamente, l’obbligo di mutua difesa sembra per il momento restare sostanzialmente
fuori dalla prospettiva dell’Unione europea, le recenti vicende testimoniano
comunque la tendenza di allestire un’“Europa della difesa” nell’ambito del
contesto più strutturato dell’Unione europea.
4. “Decessi e
nascite” in materia di sicurezza in dipendenza della caduta del muro di Berlino
(il Patto di Varsavia e l’OSCE). – Prima di abbandonare il piano delle
organizzazioni di carattere difensivo a livello europeo, risulta opportuno dare
conto, sia pure in rapida successione, di almeno due diverse realtà.
La
prima di esse ha per vero cessato di essere tale a seguito della fine
dell’Unione Sovietica. A far data dal 1° luglio 1991, è stata infatti
definitivamente archiviata negli annali della storia l’Organizzazione del Patto
di Varsavia, che rappresentò in qualche modo la faccia militare della
preesistente COMECON (Consiglio per
La
seconda, al contrario, deve proprio allo sfaldamento del blocco orientale la
sua attuale configurazione. È durante
4.1. Tornando al Patto di Varsavia,
occorre precisare come la molla scatenante per la sua costituzione, il 14
maggio 1955, era stata dichiaratamente l’ingresso della Germania Occidentale
nella NATO e nell’UEO. Per risposta si era ritenuto allora necessario allestire
un quadro difensivo in cui inserire come contrappeso
Il
Patto di Varsavia perse nel 1968 l’Albania in conseguenza dei dissidi sorti tra
Unione Sovietica e Cina, mentre quest’ultima, pur avendo partecipato come
osservatrice alla costituzione del Patto, non ne fece mai parte. Per ragioni
diverse, non vi aderì
Costituito,
dunque, come risposta alla NATO, il Patto di Varsavia tese anche a rifletterne
nella struttura interna, imperniata pertanto su un Comitato consultivo composto
dai rappresentanti degli Stati e deliberante all’unanimità, un Comando
unificato sotto la guida sovietica e residente a Mosca; un Segretariato
anch’esso di natura consultiva e una Commissione permanente quale emanazione
del Comitato consultivo competente a formulare raccomandazioni in materia di
politica estera. Questa circostanza non ne celava peraltro la fondamentale
differenza, ossia il fatto che, diversamente dalle organizzazioni occidentali,
il Patto fosse concepito come un’alleanza fondata sulla subordinazione degli
Stati membri all’Unione Sovietica, potenza dominante e a vario titolo presente
nei territori degli Stati stessi.
All’alto
comando sovietico erano operativamente sottoposte le forze alleate e in tempo
di pace permaneva un sistema di controllo militare e politico in cui i
comandati delle forze alleate erano identificati nei Ministri della difesa dei
vari Paesi, mentre un controllo ancora più profondo era esercitato dalle
diramazioni del Partito comunista nelle diverse Forze armate.
Inutile
nascondersi come, almeno sulla carta, un simile sistema si presentasse assai
più solido e compatto di quelli occidentali. L’Europa occidentale ha avuto
peraltro la ventura di non sperimentarne il confronto in quanto, già a partire
dalla guerra di Corea, erano state implicitamente definite dalle due grandi
Potenze le regole del gioco nell’era nucleare, attraverso la teoria dei
conflitti limitati e contenuti all’uso delle armi convenzionali, che non
avrebbero messo a rischio gli interessi vitali delle Potenze medesime. Minor
fortuna ha tuttavia arriso a qualcuno degli stessi Stati membri, come
l’Ungheria nel 1956 e
4.2. Per quanto concerne l’Organizzazione
sulla sicurezza e la cooperazione (OSCE), è probabile che, nella memoria di
tutti, sia rimasta soprattutto impressa
Per le
origini di tale Conferenza è possibile però risalire ancora più indietro e cioè
alla proposta formulata dall’Unione Sovietica nel 1954, quindi prima del
precipitare della situazione che darà origine al Patto di Varsavia, della
convocazione di una conferenza paneuropea per la stipula di un trattato
cinquantennale di sicurezza collettiva. La proposta poté però essere accettata
solo assai più tardi nel nuovo clima prodotto a livello mondiale dai negoziati
SALT 1 tra Stati Uniti e Unione Sovietica nel 1972, e, a livello europeo,
dall’Ostpolitik del cancelliere tedesco Willy Brandt nei primissimi anni ’70
del secolo passato.
È
peraltro noto come l’Atto finale non abbia mai assunto la veste giuridica
vincolante di un trattato, ma l’alto livello politico al quale era stato
stipulato non l’ha reso completamente privo di effetti, dato che, proprio a
partire dai suoi contenuti, si sono prodotti i c.d. sèguiti di Helsinki, ossia
le varie Conferenze destinate a valutare i comportamenti degli Stati e a
fissare coordinate aggiornate per la loro azione. In questo senso, una
particolare importanza ha avuto nel 1989
È
ancora in questa fase che ha luogo la già ricordata Conferenza di Parigi del
1990 cui si deve la “Carta di Parigi per una nuova Europa”, considerata il
primo atto politico multilaterale che ha segnato la fine della c.d. guerra
fredda. Val la pena di ricordarne l’incipit:
“Noi, Capi di Stato e di Governo degli Stati
partecipanti alla Conferenza sulla Sicurezza e
Dichiariamo che per l‘avvenire le
nostre relazioni saranno basate sul rispetto e sulla cooperazione.
L'Europa si sta liberando dal
retaggio del passato. Il coraggio di uomini e donne, la potenza della volontà
dei popoli e la forza delle idee dell'Atto Finale di Helsinki hanno dischiuso
una nuova era di democrazia, pace ed unità in Europa.
È questo il momento di realizzare le
speranze e le aspettative nutrite dai nostri popoli per decenni: l‘impegno
costante per una democrazia basata sui diritti dell'uomo e sulle libertà fondamentali,
la prosperità attraverso la libertà economica e la giustizia sociale nonché
un’uguale sicurezza per tutti i nostri paesi”.
È con
questo viatico, dunque, si va, come già accennato, verso l’allestimento a
Budapest nel dicembre 1994 della struttura permanente dell’OSCE. Da notare come
fosse assai intenso l’interessamento della Russia per tale metamorfosi
organizzativa, dato che, con la sua esclusione dalla NATO, essa vedeva
nell’OSCE il mezzo per uscire dall’isolamento e far valere ancora il suo ruolo
di grande Potenza nello scacchiere europeo, sostituendo gli Stati Uniti nel
posto occupato in Europa. Ma ciò, com’è noto, si è rivelato solo una mera
intenzione.
4.3. Comunque sia, dal punto di vista
organizzativo, l’OSCE ha il suo centro decisionale nei summit, ossia negli
incontri periodici dei Capi di Stato e di governo dei Paesi membri, oggi in
numero di 56, ossia tutti i Paesi europei e della Comunità degli Stati
indipendenti (che ha, a sua volta, instaurato una cooperazione stretta tra 11
delle 15 ex Repubbliche sovietiche)
più gli Stati Uniti e il Canada). Tali incontri sono preceduti da Conferenze
preparatorie con cadenza almeno biennale. Tra un summit e l’altro, funziona un Consiglio dei Ministri, cui
partecipano i Ministri degli Esteri con compiti esecutivi e di monitoraggio del
perseguimento degli obiettivi indicati nei summit. La struttura permanente è
invece rappresentata da un vertice composto da un Presidente, scelto
annualmente a rotazione tra i Ministri degli Esteri, assistito dalla c.d.
trojka, in cui siedono oltre al Presidente in carica, quello precedente e
quello designato per l’anno successivo, e sostenuto da un Segretario generale.
Alla
struttura dell’OSCE partecipa anche Consiglio permanente di delegati
governativi che si riuniscono con ritmo settimanale a Vienna e un’Assemblea
parlamentare composta di delegati dei Parlamenti nazionali il cui Segretariato
ha sede a Copenhagen. Non potendo scendere oltre nei dettagli, ci limitiamo a
segnalare per il loro indubbio interesse i Forum: quello per la cooperazione in
materia di sicurezza che si riunisce settimanalmente a Vienna, e quello
economico che si riunisce annualmente a Praga.
4.4. Come si sarà forse potuto intendere
da queste rapide notazioni, l’OSCE comprende tra i suoi principali campi
d’interesse la promozione di società basate sui valori democratici e sullo
Stato di diritto, nonché la prevenzione dei conflitti locali attraverso un
sistema cooperativo di sicurezza.
Si
ragiona in questo quadro particolarmente di dimensione politica e umana della
sicurezza comprendente, tra l’altro, il controllo sul regolare svolgimento
delle elezioni nei Paesi membri, l’azione a favore dell’eguaglianza tra i
sessi, dei diritti umani e delle minoranze etniche, e di tutela della libertà
di espressione e dei media.
Questo
complesso e articolato insieme di interessi coltivato dall’OSCE conduce
inevitabilmente a porre il problema delle sovrapposizioni e delle interferenze
con altre organizzazioni, tra cui, a parte
Inoltre,
il rapporto tra OSCE e UEO finisce per configurarsi in realtà come un rapporto
con l’Unione europea per effetto del già riferito trasferimento a quest’ultima
di competenze UEO, mentre, anche sul piano della tutela dei diritti dei diritti
umani, del rispetto dello Stato di diritto, e del culto del sistema
democratico, occorre ricordare come l’Unione europea si fosse già impegnata,
specie all’indomani del varo del Trattato di Maastricht, a promuovere e a
difendere tali valori, non solo all’interno dei suoi confini, ma anche nelle
sue relazioni con i Paesi terzi, “rafforzando così l’identità dell’Europa e la
sua indipendenza al fine di promuovere la pace, la sicurezza e il progresso in
Europa e nel mondo” (Trattato di Maastricht, preambolo). Specificamente,
all’art. J, 1 (attuale art. 11), tra gli obiettivi della politica estera e di
sicurezza comune, che l’Unione sarebbe stata chiamata a portare avanti
“cooperando sistematicamente” con gli Stati membri, erano stati annoverati il
mantenimento della pace ed il rafforzamento della sicurezza internazionale,
conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite, nonché ai principi
dell’atto finale di Helsinki del 1° agosto 1975 e agli obiettivi della Carta di
Parigi del 21 novembre 1990, che si è testé visto rappresentare i contribuiti
più cospicui offerti dall’OSCE nella materia.
Sulle
dinamiche di tale rapporto, la cronaca si è incarica purtroppo di attirare
l’attenzione proprio in questo mese di agosto con il conflitto tra Russia e
Georgia: come ha dichiarato il ministro degli Esteri della Francia, che in
questo momento ha la presidenza dell’Unione europea, Bernard Kouchner “il
Presidente georgiano Mikheïl Saakachvili ha accettato quasi tutte le proposte
dell’Unione europea e dell’OSCE per bloccare il conflitto”. Più difficile è
risultato convincere i russi!
4.5. Per quanto riguarda infine i
rapporti tra UEO e Consiglio d’Europa, può sottolinearsi come, in numerosi
documenti della sua Assemblea parlamentare, compaia sia il compiacimento per
gli esiti della cooperazione tra le due Organizzazioni, sia l’auspicio di un
miglioramento delle sinergie nei campi di comune interesse. Probabilmente un
modo elegante per sottolineare la persistenza di un’eccessiva autonomia di
linee d’azione, di cui però non si vede come scongiurare i rischi in presenza di
istituzioni ben strutturate e certamente non desiderose di cedere
definitivamente il passo.
5. Il Consiglio
d’Europa e il modello europeo di protezione dei diritti umani. – Anche se
non sempre è possibile delimitare nettamente i campi nei quali la cooperazione
tra Stati europei si attua nelle varie organizzazioni internazionali e
sovranazionali, può osservarsi che, se finora si è ragionato prevalentemente di
cooperazione nel campo della difesa militare, con il Consiglio d’Europa ci
troviamo a gravitare essenzialmente nel campo politico-giuridico dei diritti
umani; mentre alla cooperazione economica dedicheremo successivamente la nostra
attenzione, anche se, come abbiamo già potuto constatare, la sua realizzazione
più cospicua, ossia l’Unione europea, ha ormai assunto un ruolo che supera
largamente la sua originaria vocazione.
5.1. Il 1948 fu l’anno propizio anche per
realizzare l’idea di un’organizzazione europea in grado di offrire specifica
tutela ai diritti dell’uomo e di concludere accordi a tale scopo su scala
internazionale, favorendo anche l’emersione di un’identità europea basata su
valori condivisi e trascendenti le diversità culturali.
È nel
maggio di quell’anno, contrassegnato dal colpo di Stato a Praga e dal blocco di
Berlino, che all’Aja, durante il Congresso svoltosi sotto la presidenza di
Churchill, poterono confrontarsi direttamente le due anime principali
dell’unità europea, ossia quelle dei “costituzionalisti”, fautori di una nuova
entità politica di tipo federale tesa a superare e ad assorbire le realtà
nazionali, e degli “unionisti”, favorevoli invece a salvaguardare, pur
nell’ambito di stretti raccordi internazionali, gli Stati nazionali nella
pienezza delle loro sovranità.
Da
queste discussioni, si originò il 5 maggio
Questa
sorta di “brevetto di democrazia” potrà da lì a poco essere conseguito mediante
la sottoscrizione della Convenzione adottata dal Consiglio a Roma il 4 novembre
1950, tanto che, se una tale sottoscrizione non è configurata come obbligo
formale per l’ingresso nell’organizzazione, resta nella prassi inibito che uno
Stato vi sia accolto senza aver quantomeno sottoscritto l’impegno ad aderire
entro breve termine alla Convenzione.
Per questo
stesso ordine di ragioni, è stato possibile nel tempo individuare diverse
categorie di Stati che intrattengono rapporti con il Consiglio d’Europa: si va
infatti dagli Stati membri pleno iure,
che cioè rispettano integralmente le obbligazioni dello Statuto e della
Convenzione (oltre agli Stati fondatori, Francia, Gran Bretagna e Benelux,
altri se ne sono aggiunti sia prima che dopo la caduta del muro di Berlino fino
a raggiungere il numero attuale di 46), agli Stati che, in quanto ritenuti in
grado di conformarsi alle predette obbligazioni sia pure in attesa di una
verifica formale e invitati a far parte dell’Organizzazione, godono della
condizione di membro associato, (si noti che dopo il 1989 proprio per venire
incontro agli Stati dell’ex blocco sovietico è stata creata la particolare
categoria di “invitati speciali”). Una terza categoria di Stati è rappresentata
da membri “osservatori”, con l’avvertenza tuttavia che bisogna distinguere gli
Stati osservatori presso il Comitato dei Ministri da quelli presso l’Assemblea:
tra i primi troviamo Stati non europei desiderosi di cooperare con il Comitato,
come gli Stati Uniti e persino il Giappone, nonché diverse organizzazioni
internazionali; tra i secondi, troviamo dei Parlamenti di Stati non membri
altrettanto desiderosi di cooperare, com’è il caso del Canada, del Messico e di
Israele.
5.2. Abbiamo così accennato ai due organi
cardine del Consiglio d’Europa: il Comitato dei Ministri e l’Assemblea
parlamentare.
Il Comitato
dei Ministri è il protagonista nella procedura di ammissione di nuovi Stati,
sia pure dopo aver raccolto il parere favorevole dell’Assemblea emesso almeno
ai due terzi dei voti. Analogamente spetta al Comitato sospendere dai suoi
diritti rappresentativi lo Stato membro ritenuto inadempiente agli obblighi di
appartenenza (è stato, ad esempio, il caso della Grecia dopo il regime dei
colonnelli del 1967, della Turchia dopo il colpo di Stato militare del 1981, e
della Russia nel
Occorre
peraltro sottolineare come non infrequentemente si siano verificati attriti tra
l’Assemblea e il Comitato la prima più rigida nell’applicazioni delle sanzioni;
il secondo più pervaso da Realpolitik
e probabilmente persuaso che la permanenza nel Consiglio dia luogo comunque a
qualche salvaguardia dei diritti nel Paese interessato.
Circa
i profili organizzativi non si ha qui la possibilità di condurre ulteriori
approfondimenti, limitandoci a precisare che il Comitato dei Ministri, composto
dai Ministri degli Esteri dei vari Stati membri che dispongono ciascuno
ugualmente di un voto, è l’organo competente ad agire in nome del Consiglio
d’Europa sia a livello decisionale, sia a livello esecutivo e di controllo. In
particolare, spetta al Comitato l’approvazione definitiva delle Convenzioni
elaborate dal Consiglio dì Europa e l’adozione delle raccomandazioni.
L’Assemblea parlamentare, composta di membri designati dai Parlamenti nazionali
in numero rapportato alla consistenza demografica degli ordinamenti interessati
(si va da un minimo di ad un massimo di 18 parlamentari), esercita piuttosto un
ruolo d’indirizzo e consultativo, potendo adottare, alla maggioranza dei due
terzi, raccomandazioni e pareri destinati al Comitato dei Ministri o, a
maggioranza assoluta, delle autonome risoluzioni.
Peraltro,
a differenza di quanto accade nell’ambito dell’Unione europea, tali
deliberazioni non sono vincolanti e non esiste un diritto derivato direttamente
applicabile all’interno degli Stati membri, così che lo strumento più adeguato
per incidere nelle materie d’interesse continua ad essere costituito dalle
convenzioni, atti squisitamente internazionalisti.
5.3. Tra le varie convenzioni, certamente
la più famosa resta la già citata Convenzione di Roma del 1950, attraverso la
quale il Consiglio d’Europa è riuscito a dotarsi, almeno nel settore della
protezione dei diritti umani, di un apparato di controllo piuttosto efficace.
Siffatto
controllo è pervenuto anzi a costituire il prototipo di un sistema fondato su
una convenzione obbligatoria per gli Stati aderenti munita di controllo
giurisdizionale specifico altrettanto obbligatorio. Il modello è rimasto
tuttavia privo di imitazioni, se si eccettua il sistema allestito dalla
Convenzione americana dei diritti dell’uomo. Nella stessa Unione europea, la
protezione dei diritti è ancora assai imperfetta sia per l’indisponibilità per
i singoli di vie di ricorso specifiche, sia per la perdurante inapplicabilità
della Carta di Nizza dopo l’insuccesso del Trattato costituzionale e lo stallo
del Trattato di Lisbona.
Contenendoci
anche qui sull’essenziale e sull’attualità, ricordiamo allora che sul piano
organizzativo la protagonista è
Sul
piano procedurale, ricordiamo che i ricorsi possono essere presentati dagli
Stati, dai singoli e dalle organizzazioni di persone, indipendentemente dalla
loro nazionalità. Il meccanismo di ricorso concerne oggi tutti gli Stati,
essendo venuta meno nel 1978 la possibilità di non accettare la giurisdizione
obbligatoria della Corte. Resta comunque indispensabile essere titolari di un
ben fondato interesse a ricorrere quale può esemplarmente derivare dalla
dimostrazione di essere stati lesi in uno dei diritti garantiti dalla
Convenzione di Roma.
È
tuttavia altrettanto noto che il ricorso è caratterizzato dal principio di
sussidiarietà, in quanto esperibile solo quando siano state percorse tutte le
vie interne di tutela o si dimostri che tali vie sono inutili, di fatto
inoperanti o inaccessibili.
Comunque
sia, allorché un ricorso abbia superato il vaglio della ricevibilità, viene
esperito il tentativo di una composizione amichevole della controversia, in
difetto della quale
5.4.
Il
contenuto della decisione si rivela però alquanto circoscritto dato che, in
caso di accoglimento del ricorso,
In
questo quadro, uno dei più consistenti effetti della giurisprudenza della Corte
di Strasburgo è quello di influenzare la giurisprudenza interna degli Stati
membri.
Per
l’Italia s’è pronunciata di recente
Un
secondo effetto di rilievo della CEDU fa parte invece della storia di un’altra
organizzazione, ossia l’Unione europea, su cui mette conto pertanto di
ritornate nella parte conclusiva del nostro discorso.
5.5. Resta qui invece da fare qualche
accenno al contenuto della CEDU, poiché essa si riferisce essenzialmente ai
diritti civili e politici, ai diritti della persona umana come tale, e ai
diritti procedurali, anche se, nel tempo, grazie al alcuni Protocolli
addizionali, altri se ne sono aggiunti come il diritto a libere elezioni, il
diritto di proprietà e il divieto della pena di morte, restandone però sempre
fuori i diritti sociali ed economici. Questi hanno trovato invece trovato
collocazione in un altro atto del Consiglio d’Europa:
5.6. Almeno un certa completezza avrebbe
richiesto che fosse menzionata anche la competenza consultiva della Grande
Camera, attivabile solo dal Comitato dei Ministri, circa l’interpretazione
della Convenzione di Roma e dei suoi Protocolli. Di fatto, essa è rimasta
pressoché sulla carta, dato che, in base alla sua stessa giurisprudenza,
6. La cooperazione
economica in Europa: dai “diritti del mercato” ai “diritti nel mercato”. –
Venendo finalmente alla cooperazione tra Stati di tipo economico in Europa, si
ricorderà come il discorso abbia preso le mosse proprio da questa prospettiva
e, precisamente, dal Trattato con cui, nel
6.1. Basti quindi ricordare come l’OECE,
nata nel quadro del Piano Marshall di aiuti americani all’Europa prostrata
dalla guerra, avesse riunito fin dall’inizio 17 Paesi europei, avendo l’Unione
sovietica respinto l’invito a farne parte, non tollerando interferenze nella
sua sovranità statale. In effetti l’OECE aveva e conserva lo scopo di
promuovere la cooperazione interstatale nei settori dell’economia e della finanza,
mettendo al bando le politiche protezionistiche, le restrizioni commerciali e i
controlli sugli scambi.
Ma,
per queste ragioni, l’OECE ha cessato di interpretare un ruolo rilevante con
l’avvento delle Comunità europee, tanto da indurre ad un ripensamento sulla sua
stessa esistenza e struttura. È stato così che, con
Imperniata
su un Consiglio composto dai Ministri degli Esteri e dell’Economia dei Paesi
membri, dotato di attribuzioni deliberative, e su un Segretariato, cui spetta
un ruolo di esecuzione, l’OCSE si presenta oggi soprattutto come un organismo
di studio e di analisi impegnato ad offrire consulenza ed aiuto ai Paesi membri
in disparati campi politici ed economici. A tal fine, esso può emanare
raccomandazioni e concludere accordi, con l’avvertenza tuttavia che,
trattandosi di una struttura interstatale di carattere tradizionale, soltanto
quanto deliberato all’unanimità può vincolare tutti gli Stati aderenti.
Quest’ultima
osservazione ci conduce a sottolineare come, con riferimento al titolo di
questa relazione, solo all’Unione europea si addica propriamente il carattere
di sovranazionalità. Essa ha, del resto, presentato questo carattere fin dalle
sue origini, ossia dalla fondazione della Comunità europea del carbone e
dell’acciaio (CECA) nel 1951, che, differenziandosi dalle altre organizzazioni
fino ad allora esistenti, esibiva, accanto ad organi di natura tipicamente
internazionali, cioè pariteticamente rappresentativi degli Stati aderenti (come
il Consiglio e il Parlamento), un organo, l’Alta autorità, di natura
“sopranazionale”, indipendente cioè dai governi nazionali, costituendo altresì
segnali evidenti di questa nuova tensione sopranazionale l’efficacia diretta
delle sue decisioni generali, l’attribuzione di risorse proprie al bilancio
comunitario, il principio del voto a maggioranza nel Consiglio dei ministri e
la possibilità dell’elezione diretta del Presidente da parte dell’Assemblea
parlamentare comune.
6.2. Ancora legata al tradizionale
carattere di internazionalità si sarebbe mostrata, invece, l’EFTA (European Free Trade Association o Zona
europea di libero scambio), l’organizzazione nata a Stoccolma il 4 gennaio
1960, tra Austria, Danimarca, Gran Bretagna, Norvegia, Portogallo, Svezia,
Svizzera e in seguito Finlandia, Islanda e Liechtenstein, allo scopo di
realizzare un’unione doganale alternativa alla CEE. Tale organizzazione, che
conta oggi solo su quattro membri residui, fu effettivamente voluta dalla Gran
Bretagna, che non aveva voluto far parte né della CECA nel 1951, né della CEE
nel 1957, reputate eccessivamente integrazioniste e troppo rischiose per la
sovranità di Sua Maestà Britannica, benché successivamente, di fronte al
successo indiscutibile del modello comunitario, essa abbia paventato
l’isolamento nello scacchiere occidentale anche di fronte all’asse
collaborativo instauratosi tra Francia e Germania.
Le
strutture organizzative dell’EFTA rimanevano dunque improntate al principio
internazionalista dell’unanimità dei consensi degli Stati aderenti e le
decisioni andavano tutte prese al livello governativo.
Il
ritiro britannico dall’EFTA, a seguito del suo travagliato ingresso nelle
Comunità europee il 1° gennaio
Attualmente
maggior rilievo può, se mai, assegnarsi al c.d. Spazio economico europeo (SEE),
costituito il 1° gennaio 1994 allo scopo di dar vita ad una sorta di unione
doganale tra EFTA ed Unione europea, nella sostanza prodromica all’adesione dei
restanti Stati all’Unione europea (in realtà solo Norvegia, Islanda e Liechtenstein
in quanto il quarto paese,
6.3. Tornando alle Comunità europee, può
succintamente sottolinearsi come tutta la vicenda successiva alla stipula dei
Trattati originari sia andata nel senso vuoi di un crescente allargamento
territoriale, vuoi di una più intensa integrazione tra gli Stati membri, vuoi
ancora del progressivo potenziamento delle competenze devolute all’Unione
(secondo una tendenza di tipo federalista). Di quest’organizzazione europea, è
mutata anche nel tempo la natura: da organizzazione prettamente economica a
organizzazione a competenza tendenzialmente generale, estesa, ad esempio, al
campo della difesa, della sicurezza e della giustizia, nonché, assai più
esplicitamente dopo la c.d. Carta di Nizza, a quello della tutela dei diritti
fondamentali, compresi quelli di natura sociale.
Schematicamente,
restando sull’attualità ed anzi guardando ad un futuro che può supporsi
prossimo se andrà in porto la ratifica del Trattato di Lisbona, può riferirsi
come la metafora, alla quale si ricorre per rappresentare il modello di
integrazione e di cooperazione dell’Unione europea, sia quella di un tempio
greco, sorretto da tre pilastri: il primo è quello originario delle politiche
comunitarie, di natura economica e monetaria; il secondo è costituito dalle
politiche di cooperazione nella politica estera e nella sicurezza comune
(PESC); il terzo coincide con la cooperazione in materia di giustizia e affari
interni (GAI). Sul frontone del tempio, leggiamo l’iscrizione della
cittadinanza, mentre lo zoccolo è costituito dalle Istituzioni europee, comuni
a tutti e tre i pilastri, sia pure con procedure e poteri diversi, laddove solo
Dunque,
quest’organizzazione in pilastri denota anche i differenti metodi di
deliberazione e attuazione delle varie politiche, valendo ancora per il secondo
e il terzo pilastro il metodo intergovernativo, ossia l’attribuzione al solo
Consiglio e al suo potere di decisione delle politiche che ancora si ritengono
interessare l’esercizio della sovranità degli Stati.
Per
vero, il Trattato costituzionale aveva previsto la soppressione del sistema dei
pilastri, sia pure mantenendo particolari soluzioni in certi settori come
6.4. Scorrendo rapidamente questo elenco
di organi (e lasciandone da parte altri di natura ausiliaria come il Comitato
economico e sociale ed il Comitato delle Regioni), incontriamo, dunque, in
primo luogo il Parlamento europeo.
Esso
conta oggi su 785 parlamentari, che dovrebbero scendere a
La
partecipazione del Parlamento europeo ai procedimenti decisionali comunitari è
gradualmente aumentata nel tempo e a Lisbona si è preso atto che il Parlamento
europeo esercita, congiuntamente al Consiglio, la funzione legislativa, nonché
le funzioni di bilancio, di controllo politico e consultive.
6.5. Il Consiglio europeo, inizialmente concepito in via
di fatto come la “testa politica”, ha progressivamente trovato collocazione del
Trattati fino ad essere ricompreso a Lisbona tra le Istituzioni. Il Consiglio
vi risulta composto dai capi di Stato o di Governo degli Stati membri, dal suo
Presidente e dal Presidente della Commissione, nonché dalla nuova figura
dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di
sicurezza (ex Ministro degli Affari
esteri dell’Unione nella Costituzione europea). Vi si precisa altresì come il
Consiglio europeo debba deliberare “per consenso”, ma non escludendosi la
possibilità di votare anche a maggioranza qualificata. Quanto alle
attribuzioni, esse possono sinteticamente ascriversi alla funzione di indirizzo
politico, per sua natura difficile da formalizzare in contenuti e procedure.
Del resto, l’organo possiede di fatto un potere decisionale su qualsiasi
materia di cui venga ad essere eventualmente investito dal Consiglio dei
ministri.
Attualmente
la presidenza del Consiglio europeo spetta a ciascuno Stato membro per la
durata di un semestre. In base a quanto indicato dal Trattato sull’Unione
europea come riformato a Lisbona, vi sarà invece l’elezione da parte del
Consiglio europeo a maggioranza qualificata del proprio Presidente, per una durata
di due anni e mezzo, rinnovabile una sola volta, come per la carica di
Presidente del Parlamento europeo e pari alla metà di quella del Presidente
della Commissione.
6.6. Il Consiglio dei Ministri, o più
semplicemente Consiglio sulla base dei Trattati emendati a Lisbona, risulta
composto da un rappresentante nominato da ciascuno Stato membro a livello
ministeriale per ogni formazione del Consiglio stesso. Tra queste formazioni,
un particolare interesse presenta il Consiglio legislativo e degli Affari
generali, che in prospettiva avrà il compito di dare coerenza ai lavori delle
diverse formazioni del Consiglio dei ministri, mantenendo però l’esercizio
delle due distinte funzioni. In particolare, in qualità di Consiglio
legislativo condividerà con il Parlamento europeo la funzione legislativa
dell’Unione.
Accanto
a tale funzione, che si manifesta nell’approvazione di direttive e regolamenti,
ossia le principali fonti del diritto comunitario derivato, troviamo anche la
possibilità di esercizio diretto di funzioni esecutive, e soprattutto di
funzioni di indirizzo politico e di coordinamento.
A
parte i settori in cui l’unanimità resta la regola (come la politica estera e
la sicurezza comune, la politica di cooperazione giudiziaria e di polizia,
nonché la politica relativa al fisco e alla cultura), il Consiglio delibera a
maggioranza qualificata secondo il criterio della ponderazione dei voti, per
cui ad ogni Stato membro è attribuito un certo numero di voti in ragione della
sua consistenza demografica, e da un meccanismo di perequazione, che permette
un equilibrio tra Paesi con ampia popolazione e quelli con popolazione più
ridotta. Il Trattato costituzionale ha però palesato l’intento di abbandonare
il sistema di ponderazione dei voti, adottando il meccanismo della doppia
maggioranza, secondo il quale l’adozione delle decisioni, sia da parte del
Consiglio europeo, sia da parte del Consiglio dei ministri, deve avvenire
attraverso la deliberazione da parte della maggioranza degli Stati membri,
rappresentanti almeno i 3/5 della popolazione dell’Unione. Il nuovo Trattato
sull’Unione europea ha confermato tale intendimento, indicando come maggioranza
qualificata almeno il 55% dei membri del Consiglio, con un minimo di quindici,
rappresentanti Stati membri che totalizzino almeno il 65% della popolazione
dell’Unione. Il Trattato di Lisbona ha tuttavia alcuni meccanismi, di cui
evitiamo in questa sede di dare conto, destinati a stemperare nel tempo
l’impatto del principio della doppia maggioranza.
Di
sicuro rilievo è finalmente la tendenza del Consiglio a trasformarsi
progressivamente in una “Camera degli Stati”, sede di rappresentanza degli
interessi nazionali, condividendo il potere legislativo, relativamente a
determinate materie, con il Parlamento europeo, luogo di rappresentanza degli
interessi dei cittadini europei, in un sistema legislativo bicamerale.
6.7. Non si ha purtroppo qui modo di
entrare più nel dettaglio del processo decisionale comunitario, che specie per
l’adozione di atti normativi, conosce una varietà di procedure. Infatti, se per
la consultazione o per il parere conforme la funzione normativa è esercitata
precipuamente dal Consiglio, lo stesso non vale nella procedura di codecisione,
ove si registra anche l’intervento del Parlamento europeo, posto ormai su un
piano di perfetta parità. Inoltre, in casi rari, si può rilevare come la
“funzione legislativa” sia esercitata anche dalla Commissione, che generalmente
è invece tenuta all’esercizio di funzioni propriamente esecutive e d’impulso).
6.8.
Il
procedimento di formazione della Commissione vede nel Trattato di Lisbona come
protagonista il Parlamento europeo, cui spetterà l’elezione del Presidente
della Commissione sulla base di una proposta del Consiglio europeo deliberata a
maggioranza qualificata e non più all’unanimità. La proposta dovrà tenere conto
dei risultati dell’elezione del Parlamento europeo (attualmente sono i Governi
degli Stati membri a designare di comune accordo la persona che dovrà rivestire
la carica di Presidente della Commissione, anche se successivamente il
Parlamento europeo ha il potere di approvare tale nomina).
La
scelta dei commissari avverrà da parte del Consiglio di comune accordo con il
Presidente della Commissione eletto all’interno di una terna di candidati
predisposta da ciascuno Stato membro e compilata rispettando la rappresentanza
di genere e il criterio d’idoneità ad esercitare le funzioni di commissario
europeo. Seguirà un voto di approvazione finale, da intendersi quale voto di
fiducia, da parte del Parlamento europeo sull’intera Commissione e la nomina
della medesima da parte del Consiglio europeo, che delibera a maggioranza
qualificata.
Resta
attribuita al Parlamento europeo il potere di adottare una mozione di censura
nei confronti della Commissione, secondo modalità ricalcanti lo schema
attualmente adottato, per cui se tale mozione è approvata a maggioranza dei due
terzi dei voti espressi e a maggioranza dei membri che compongono il Parlamento
europeo, i membri della Commissione sono obbligati a dimettersi.
6.9.
6.10.
6.11.
Si
richiedono invece per l’alto ufficio precise caratteristiche personali sia
sotto il profilo dell’indipendenza, sia sotto quello della competenza.
I
giudici della Corte di giustizia sono guarentigiati, oltre che dai privilegi e
dalle immunità previsti per i funzionari e gli agenti della Comunità, dalla
speciale prerogativa dell’immunità giurisdizionale, che si protrae, per quanto
concerne gli atti da loro compiuti in veste ufficiale, comprese le loro parole
e i loro scritti, anche oltre la cessazione dalle funzioni.
Componente
non meno essenziale del meccanismo giustiziale comunitario sono gli Avvocati
generali, che non fanno parte della Corte, ma debbono assisterla, presentando
pubblicamente, con assoluta imparzialità e in piena indipendenza, le loro
conclusioni motivate. Degli attuali otto avvocati generali quattro appartengono
in permanenza ai grandi Stati membri (Germania, Francia, Italia, Regno Unito),
gli altri quattro sono nominati a rotazione dagli altri Stati.
Accanto
alla Corte, operano sia il Tribunale di primo grado, sia il Tribunale della
funzione pubblica: il primo presentandosi come l’organo giurisdizionale a
competenza generale, così
Le
decisioni del Tribunale di primo grado sono impugnabili davanti alla Corte di
giustizia per i soli motivi di diritto, ed eccezionalmente e per iniziativa del
Primo Avvocato generale possono essere oggetto di riesame davanti alla stessa.
Davanti
alle Corti comunitarie è attivabile un fascio di procedure, che non è qui dato
di descrivere nel dettaglio, a garanzia della legalità degli atti e talvolta
dei comportamenti comunitari.
Un
cenno va però fatto alla procedura pregiudiziale, che può essere attivata in
via incidentale dai giudici degli Stati membri a “salvaguardia
dell’indole comunitaria del diritto istituito dal trattato ed ha lo scopo di
garantire in ogni caso a questo diritto la stessa efficacia in tutti gli Stati
della comunità; [esso] mira anzitutto ad evitare divergenze
nell’interpretazione del diritto comunitario che i tribunali nazionali devono
applicare, ma anche a garantire tale applicazione”, sicché resta possibile
operare la fondamentale distinzione tra rinvio pregiudiziale d’interpretazione
e rinvio pregiudiziale di validità.
Le
sentenze emesse in esito al rinvio pregiudiziale d’interpretazione chiariscono
dunque il senso e la portata di una norma di diritto comunitario, con effetti
vincolanti e diretti per il giudice richiedente, che deve darvi applicazione,
non applicando invece le norme nazionali eventualmente in contrasto con
l’interpretazione fornita in sede comunitaria.
In via
generale è dunque alla Corte di giustizia che si sono dovute decisive spinte
espansive sulla strada dell’integrazione europea e della tutela dei diritti
individuali, tanto da aver indotto un sostanziale mutamento di natura
nell’organizzazione comunitaria, trascorrendosi, come si suole efficacemente
rilevare, dai “diritti del mercato” ai “diritti nel mercato”. Ruolo che non
potrà che essere potenziato dall’elevazione della Carta di Nizza a diritto
originario dell’Unione e alimentato dal rapporto dialettico con
6.12. Un cenno va in ultimo riservato al
fattore di sovranazionalità a cui
Se
pure, com’è noto, accanto ai regolamenti il Trattato CE enumera (nell’art. 249)
altre fonti di diritto derivato come le direttive, le decisioni e le
raccomandazioni, è solo ai regolamenti che sono infatti attribuiti quei
caratteri di applicabilità diretta in ciascuno degli Stati membri, che sono
propri del carattere sovranazionale dell’organizzazione da cui promanano.
In
questo senso, a differenza delle direttive, che pure ne condividono la
struttura normativa analoga alle fonti del diritto nazionale, i regolamenti non
esigono ed anzi ricusano, se così si può dire, l’intervento di qualche fonte
interna come condizione della loro applicazione negli ordinamenti degli Stati
membri (anche se possono comunque necessitare norme nazionali di esecuzione in
senso stretto).
La
direttiva invece vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il
risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali
in merito alla forma e ai mezzi. Si tratta, dunque, come è stato osservato, “di
una fonte di scopo, per natura portatrice di norme di principio e, perciò,
bisognosa di ulteriore svolgimento in ambito interno al fine di poter essere
applicata”. Da questo punto di vista non si nota una differenza apprezzabile
rispetto agli altri tipi di direttive che, come s’ è potuto osservare,
promanano da altre organizzazioni europee.
A meno
che non si sia in presenza di una direttiva c.d. autoapplicativa: ciò si
verifica quando le sue norme, a motivo del dettaglio che le caratterizza, non
richiedono alcun ulteriore svolgimento, e sia decorso inutilmente il termine
assegnato allo Stato membro di darvi attuazione. In quest’ultimo caso, poi, di
fronte allo stato inadempiente, la direttiva in generale esprime un’efficacia,
che è stata definita in senso restrittivo “verticale”, nel senso di riconoscere
a tutti gli interessati la possibilità di far valere la responsabilità dello
Stato per i danni subiti in dipendenza della mancata attuazione.
La
medesima efficacia diretta dei regolamenti va poi ancora riconosciuta alle
statuizioni giurisdizionali della Corte di giustizia “al pari delle norme
comunitarie direttamente applicabili cui ineriscono”.
7. Le
organizzazioni europee come ponte tra vecchio e nuovo costituzionalismo in
Europa. – La vicenda sin qui riassunta si presta sicuramente ad una pluralità
di letture sotto l’aspetto politico, economico, sociologico e giuridico. Non si
possiedono qui le competenze necessarie per addentrarci in questa variegata
analisi, ma dal punto del giurista e più precisamente del costituzionalista per
il quale la fisionomia dello Stato resta centrale nella sua riflessione,
crediamo possibile individuare già nella situazione immediatamente successiva
alla seconda guerra mondiale le premesse della crisi della configurazione dello
Stato, così come la modellistica della storia costituzionale europea ce lo ha
proposto almeno a partire da Westfalia transitando per le varie esperienze
dello Stato nazionale (dall’assolutismo allo Stato-provvidenza del XX secolo).
7.1. Questo processo conosce due
principali fasi separate tra loro dalla fine della c.d. guerra fredda nel
passaggio tra gli anni ’80 e ’90, per cui nella prima fase la tendenza alla
regionalizzazione ossia allo stabilimento di accordi di cooperazione più o meno
intensi tra Stati nazionali contigui in aree più o meno vaste, ma delimitate,
del mondo, si verifica in maniera più graduale: essa deve tenere conto sotto il
profilo sia politico, sia economico della presenza di due grandi Potenze
mondiali, nonché di organizzazioni universaliste come l’ONU e il GATT. Nella seconda
fase, il fenomeno sembra invece svilupparsi con minori condizionamenti nel
tentativo di far fronte al globalismo economico espresso dai grandi movimenti
finanziari, dalle delocalizzazioni industriali e dalle concentrazioni
imprenditoriali, che tendono a sottrarre spazi di tradizionale sovranità agli
Stati. Basti pensare alle conseguenze in termini di mercato del lavoro o di
bilancia commerciale delle iniziative che gruppi multinazionali possono
adottare nel disinvestire o nel de localizzare attività economiche.
Di
fonte alla globalizzazione, lo Stato tradizionale tende, dunque, a perdere
incisività, mentre ul suo ruolo di supremo regolatore deperisce di fronte ai
nuovi soggetti mondiali e transnazionali che lo condizionano ed in certa misura
riescono ad emarginarlo.
Il
fiorire di organizzazioni regionali un po’ dappertutto nel mondo risponde
quindi all’esigenza di dar vita a nuovi spazi politico-economici che non
corrispondono più al formato statale. Solo aggregazioni più vaste appaiono in
grado di pesare sul piano internazionale e di prendere parte attiva agli
scambi, reagendo all’incapacità della maggior parte degli Stati ad agire in
perfetta solitudine a livello mondiale.
Così,
se in Asia troviamo l’ASEAN (Association
of South-East Asian Nations), che dal 1967 si ripropone di promuovere la
cooperazione e l’assistenza reciproca fra gli Stati membri (Brunei Cambogia,
Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Tailandia e Vietnam),
nell’America latina il MERCOSUR, di cui fanno parte, tra gli altri, il Brasile,
si presenta capace di intrattenere rapporti dirette mante con l’Unione europea
senza dover per forza subire l’egemonia statunitense. Dal canto suo, l’Unione
europea è divenuta gradualmente una reale potenza economica e tende a proporsi
in un modo multipolare come un fattore di equilibrio, anche se, a tale scopo, è
necessario che essa allestisca davvero una politica estera comune e diventi
credibile sul piano politico così come lo è su quello economico.
Comunque
sia, sembra innegabile come la cooperazione tra Stati sovrani sia vieppiù
percepita come la più vantaggiosa sotto il profilo economico, accrescendo anche
la sicurezza dei paesi partecipanti all’accordo di integrazione. È stato
esattamente notato sia come i regionalismi contribuiscano a superare,
attraverso la collaborazione nelle materie economica e commerciale, i conflitti
esistenti e/o potenziali tra i membri dell’accordo, citandosi al proposito gli
esempi dell’Unione europea, ma anche del MERCOSUR; sia la tendenza a delegare agli
organismi regionali, da parte della comunità internazionale funzioni di
intermediazione diplomatica e di peace
keeping, come nel caso della missione Eulex dell’Unione europea in Kosovo,
che ha come obiettivo l’assistenza alle giovani istituzioni democratiche, alle
autorità giudiziarie ed agli organi di sicurezza, per rafforzarne la
sostenibilità e l’autonomia ed assicurare, nel contempo, l’applicazione degli
standard internazionali di buon governo. Come, anzi, ha dichiarato Holly
Cartner, direttrice per l’Europa e l’Asia Centrale della organizzazione non governativa
internazionale Human Rights Watch:
“La mancanza di controlli sull’operato delle Nazioni Unite in Kosovo ha
macchiato la reputazione dell’ONU ed eroso la sua legittimità. L’Unione Europea
dovrebbe imparare da questi errori e permettere uno vero scrutinio del proprio
operato in tema di diritti umani fin dal primo giorno”.
7.2. Quest’ultima notazione ci permette
di avviarci alla conclusione, richiamando l’attenzione su ulteriori ruoli che
le organizzazioni di Stati in Europa hanno assunto, dapprima, dopo la fine del
secondo conflitto bellico e,più recentemente, a seguito dell’acquisizione dell’indipendenza
politica da parte di vecchi e nuovi Stati gravitanti nell’ex-blocco comunista.
Per il
primo aspetto, credo che non sia da sottovalutare il ruolo di conciliazione
svolto dalle organizzazioni in questione a fronte delle fratture spesso profonde
tra i vari Paesi europei sul fronte ideale, politico-giuridico,
economico-sociale. Si pensi, oltre ovviamente ai fattori scatenanti e agli
esiti della guerra mondiale, al fronteggiamento tra Est e Ovest durato fino a
tempi non lontani, ma anche al ritorno
alla democrazia di taluni Paesi dell’Europa occidentale. Innegabilmente la
cooperazione e la reciproca conoscenza che nelle organizzazioni europee si è
attuato e va attuandosi contribuisce in maniera decisiva a mettere da parte gli
elementi (anche storici) di contrasto e a rileggere certa storia passata come
un insegnamento ineguagliabile per l’avvenire degli Stati nella comune “casa
europea”.
Circa
il secondo aspetto, in certo modo non disgiunto dal primo, mi riferisco a
quella sorta di patronato svolto sia nella scrittura delle nuove Costituzioni,
sia per altri aspetti ordina mentali, particolarmente dal Consiglio d’Europa,
dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) e dalla
stessa Unione europea.
Si
tratta – è bene sottolinearlo – solo di esempi, perché altri se ne potrebbero
citare, scelti però – ci pare – tra i più significativi, idonei ad illustrare
il succitato ruolo che si potrebbe definire di traghettamento o di ponte tra
tali Stati e il costituzionalismo occidentale e i suoi principi quali lo Stato
di diritto, la separazione dei poteri e la tutela dei diritti umani.
7.3. Il Consiglio d’Europa, come si è già
ricordato, a partire dalla sua fondazione ho svolto un’incessante opera di
monitoraggio sul tasso di democrazia degli Stati membri sulla base delle
previsioni recate dalla Convenzione di Roma. Ma di grande rilievo è il ruolo
che il Consiglio stesso ha svolto e svolge nei confronti di Stati candidati a
diventarne membri.
Si
possono qui citare due esempi molto distanti tra loro: il Principato di Monaco
e
Le
pressioni esercitate infatti dall’organizzazione europea sul piccolo Stato
affacciato sul Mediterraneo in occasione della richiesta di quest’ultimo di
entrarne a far parte hanno addirittura prodotto un’imponente revisione
costituzionale nel 2002, che ha costituito la base per la democratizzazione del
sistema elettorale, la promozione del ruolo dell’Assemblea parlamentare,
l’estensione dei diritti e dell’eguaglianza tra i sessi, nonché per una
revisione dei rapporti bilaterali con
Per
quanto riguarda l’Albania basti ricordare che, al momento dell’adesione al
Consiglio d’Europa, essa si è obbligata a seguire i modelli democratici europei
in materia sia di diritti umani, sia di garanzie dello Stato di diritto. La
“Commissione per la democrazia attraverso il diritto” (c.d. Commissione di
Venezia ), organo consultivo del Consiglio d'Europa istituito nel
7.4. Abbiamo già osservato come l’OSCE si
sia dato come obiettivo il mantenimento della pace e della sicurezza in Europa,
da intendersi non solo come assenza di conflitti armati, ma anche come presupposto
per la difesa dei diritti dell’uomo e per l’esistenza di strutture democratiche
stabili all'interno di uno “Stato di diritto”.
La già
citata Carta di Parigi del 21 novembre
In
questo quadro, l’OSCE ha collaborato con suggerimenti e rilievi di ordine
tecnico al perfezionamento della legislazione elettorale di numerosi Paesi
dell’ex blocco sovietico come l’Albania, l’Armenia,
7.5. Si è già accennato, per quanto
riguarda l’Unione europea, alla Carta dei diritti fondamentali proclamata a
Nizza nel 2000. Qui, al di là dei pur importanti effetti sul piano
istituzionale e giuridico di tale documento una volta che ne sarà consentita
l’entrata in vigore, s’intende in conclusione sottolinearne anche le
implicazioni sul piano politico-costituzionale a cominciare dall’attribuzione
ad essa della funzione di “standard di
salvaguardia” nei confronti di involuzioni interne all’Unione da parte sia dei
singoli Stati membri, sia della Comunità nel suo complesso, vale a dire come
cartina di tornasole della perdurante fedeltà di tutti questi soggetti al
principio della tutela dei diritti.
Corrispondentemente,
è stata messa in rilievo la funzione di test
della Carta stessa nei confronti dell’idoneità di nuovi Stati ad entrare
nell’Unione, soprattutto per quei Paesi, attualmente candidati, le cui
tradizioni costituzionali appaiono, per certi versi, piuttosto distanti, se non
incompatibili (si pensi solo al caso della Turchia, che peraltro, com’è noto,
ha già messo in cantiere notevoli riforme, tra cui la sospensione
dell’applicazione della pena di morte).
8. Bibliografia essenziale.
Nelle
indicazioni bibliografiche, prevalentemente riferite alla dottrina italiana, si
sono privilegiati, per quanto possibile, i riferimenti alle organizzazioni
europee diverse dall’Unione Europea, in quanto per solito più difficilmente
accessibili agli studiosi stranieri.
- Sulle vicende e i problemi del
multilateralismo
J. G. Ruggie, Multilateralism.
The anatomy of an institution, "International Organization",
1992, 561 ss.;
A. R. Brotons, Universalismo, multilateralismo, regionalismo y unilateralismo en el
nuevo orden internacional, in Revista
española de derecho internacional, Madrid, 1999, 11 ss.;
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