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ALBERTO MARIA BENEDETTI

 

QUALI SPAZI PER UN DIRITTO REGIONALE DELLA FAMIGLIA?*

(nota a Corte costituzionale, sentenza 12 gennaio 2011, n. 8)

 

1. La decisione della Corte costituzionale.

La Regione Emilia - Romagna, nel quadro di una sua legge finanziaria, detta alcune disposizioni sull’accesso alla fruizione dei servizi pubblici e privati.

All’art. 48, comma 1, della legge regionale n. 24/2009 si proclama il principio di non-discriminazione riconoscendo “a tutti i cittadini di Stati appartenenti all’Unione europea il diritto di accedere alla fruizione dei servizi pubblici e privati in condizioni di parità di trattamento e senza discriminazione, diretta o indiretta, di razza, sesso, orientamento sessuale, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”; all’art. 48, comma 3, si dispone l’applicazione “alle forme di convivenza” (con espresso richiamo alla disciplina statuale sulla famiglia anagrafica) dei diritti generali dalla legislazione regionale sull’accesso ai servizi.

Secondo il Governo, entrambe le disposizioni violano il limite di cui all’art. 117, comma 2, lett. l) cost. (a tenore del quale l’ “ordinamento civile” è assegnato alla competenza esclusiva dello Stato) perché: la prima realizzerebbe un obbligo di contrarre, di sicura pertinenza privatistica; la seconda mirerebbe ad attribuire una giuridica rilevanza alle convivenze, compito parimenti spettante al diritto privato nazionale e, dunque, sottratto alla competenza legislativa regionale.

La Corte costituzionale – con la sentenza n. 8/2011 – ritiene infondate entrambe le eccezioni: da una parte, l’art. 48, comma 1, non fa che “richiamare l’obbligo del rispetto del principio di eguaglianza e di non discriminazione tratti dalla Costituzione e dai Trattati europei”, essendo conseguentemente “non idoneo” a ledere le competenze statuali; dall’altra, l’art. 48, comma 3, non intende, come erroneamente sostenuto dal Governo, disciplinare forme di convivenza, limitandosi piuttosto “ad indicare l’ambito soggettivo di applicazione dei diritti previsti dalla legislazione regionale nell’accesso ai servizi, alle azioni e agli interventi senza introdurre alcuna disciplina sostanziale delle forme di convivenze”.

La decisione, in entrambi i profili appena richiamati, merita di essere approvata, e rappresenta una tappa decisiva verso un approccio più sereno e meno dogmatico al c.d. problema del diritto privato di fonte regionale.

 

2. La famiglia di fronte al diritto di fonte regionale: quattro (possibili) settori d’intervento.

Che le Regioni, in una certa misura, possano dettare norme aventi ad oggetto la (che non significa, come vedremo, dettare norme di diritto di famiglia) è dato che, oggi, sembra comunemente se non accettato almeno registrato dagli studiosi del settore[1] e che, in una certa misura, ha trovato e trova sostegno nella giurisprudenza costituzionale (fino alla decisione oggetto di questo commento).

Da una parte, chi si è occupato da una prospettiva più generale del problema del c.d. diritto privato delle Regioni[2] ha dovuto constatare che proprio la famiglia sembra essere oggetto di un profondo interesse regolatore del legislatore regionale, forse a causa di quel certo “immobilismo” che, soprattutto nel corso degli ultimi decenni, sembra caratterizzare la legislazione nazionale sulla famiglia (e che probabilmente spinge le Regioni, almeno quelle ispirate da determinate sensibilità politiche, a svolgere un ruolo per così dire di supplenza dello Stato o, comunque, fortemente interventista).

Muovendo dall’osservazione della ricca e frastagliata legislazione regionale, si può constatare che la famiglia può essere oggetto di norme di origine regionale almeno in quattro modi: i) attraverso norme statutarie ad essa variamente dedicate; ii) attraverso una legislazione «sociale» di sostegno; iii) attraverso una legislazione che, in modi e misure diversi, incida su diritti e obblighi derivanti da certi status familiari; iv) attraverso norme che, in modi diversi, presuppongano una certa nozione di «famiglia» quale condizione per l’eccesso a determinati benefici regionali.

Le norme sub i), secondo quando deciso dalla Corte costituzionale[3], non pongono problemi relativamente al monomio statuale sul diritto privato, perché tali disposizioni statutarie si collocano in quell’indefinita area che si identifica nel «contenuto eventuale» degli statuti regionali; un contenuto che può (anche) tradursi in enunciazioni prive di carattere giuridico, che esplicano solamente « una funzione, per così dire, di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa», o ancora, che indica aree di «prioritario intervento legislativo e politico»[4].

Tali enunciazioni – pur «materialmente collocate nell’atto-fonte», si traducono, ancora, in «finalità da perseguire», espressione della sensibilità politica esistente al momento dell’approvazione dello Statuto. Di talché scrivere in una disposizione statutaria che la Regione persegue, tra gli altri, lo scopo di «riconoscere le altre forme di convivenza» non comporta «né alcuna violazione, né alcuna rivendicazione di competenze costituzionalmente attribuite allo Stato e neppure fonda esercizio di poteri regionali».

Al di là delle possibili criticità di questo approccio (che pecca, forse, di una dose eccessiva di sottovalutazione della forza degli Statuti regionali e che trascura, oltretutto, le ricadute “a valle” delle norme programmatiche contenute negli Statuti), altrove evidenziavo che[5], in quelle occasioni, la Corte aveva se non altro mostrato una forte sensibilità verso un approccio concreto al problema del diritto privato regionale. Ed infatti si era voluto applicare una nozione non astratta ma concreta di «ordinamento civile», concepito non tanto come «materia», bensì come «limite» che attraversa, trasversalmente, le diverse competenze legislative regionali. Un limite la cui violazione va accertata muovendo non già da un’astratta valutazione dell’oggetto della norma contestata, bensì calibrando il giudizio «in ragione della tipologia di valori, principi, tecniche, obiettivi che le norme sottendono»[6].

Proseguendo nell’individuazione delle possibili interazioni tra famiglia e diritti regionali incontriamo, sub ii), quelle disposizioni regionali che siano dirette a sostenere socialmente l’istituto familiare: si tratta, di regola, di norme prive di contenuti privatistici[7]. Esse realizzano piuttosto una politica di welfare che si traduce nella messa in opera di strumenti, aiuti, volti a sostenere, in genere, le esigenze economiche delle famiglie meno abbienti, o, in altra prospettiva, a prevenire e gestire i conflitti endofamiliari[8]. Spesso attuando competenze attribuite alle Regioni da leggi statuali (come, ad esempio, nel settore dell’adozione: art. 39-bis l. 184/1983); o, comunque, nell’esercizio di quella competenza sull’assistenza sanitaria e sociale, la prima concorrente e la seconda esclusiva, che tocca innanzi tutto alle Regioni.

Sono disposizioni mediante le quali non si innova il diritto privato nazionale; non si incide sulla regolamentazione della famiglia nei suoi aspetti costitutivi e di rapporto. Semplicemente si opera nell’area del sostegno sociale, di provenienza regionale, alle realtà familiari, dettando normative che regolano l’azione pubblica della Regioni, o degli enti (di assistenza, di sanità) da esse governati. Sono norme del tutto inidonee a superare il limite dell’«ordinamento civile», perché, appunto, da ascriversi all’area di quelle norme di diritto più propriamente pubblico/amministrativo, in quanto, essenzialmente, dirette o a disciplinare l’attività di enti o organismi regionali o a identificare diritti sociali di cui i cittadini di una determinata regione.

Più problemi può porre l’eventuale legislazione regionale sub iii), quella che sia idonea ad incidere su diritti e status famigliari: se deve escludersi la legittimità di norme regionali che, direttamente, vogliano configurare nuovi obblighi, diritti o status legati alla famiglia – perché l’eguaglianza impedisce ogni differenziazione territoriale – le Regioni potrebbe intervenire mediante norme che, indirettamente, intervengano sull’assolvimento agli obblighi familiari (per esempio, a quelli di carattere alimentare), e che, se ben calibrate, potrebbero rivelarsi legittime, nonostante il diverso avviso della Corte costituzionale nell’unico precedente ad oggi noto[9] (e relativo ad una legge della Provincia di Bolzano sugli obblighi alimentari a favore dei minori di genitori separati o divorziati).

Le disposizioni regionali oggetto della decisione che qui si commenta sembrano agevolmente trovare collocazione proprio nel quarto filone di possibili interventi legislativi regionali aventi a che fare con la famiglia: si tratta, come evidenziato poco sopra, di norme regionali che assumono una nozione o una (sorta di) definizione di famiglia quale presupposto per l’attivazione di interventi di carattere sociale o amministrativo. Altrove avevo già sostenuto la piena legittimità costituzionale di questi interventi[10], che, sintetizzando, non passano attraverso norme di diritto privato vero e proprio trattandosi piuttosto di disposizioni che appartengono direttamente ad altre competenze esclusive o concorrenti delle Regioni (sanità, assistenza, servizi sociali), e che solo di riflesso presentano profili privatistici[11]. Per essere di diritto privato, una norma regionale deve poter incidere sui rapporti intersoggettivi, dare luogo a diritti e pretese reciproci, essere suscettibile di tutela giudiziale, innovare o integrare, sul territorio regionale, regole e principi del diritto privato nazionale, o colmare lacune di esso.

Queste qualità non sono rinvenibili in quella gran messe di disposizioni regionali che – anche se la denominazione o gli scopi potrebbero suggerire accostamenti al diritto privato - rappresentano il migliore esempio di quelle norme di diritto pubblico/amministrativo che esauriscono la loro funzione nell’ambito dell’azione dell’ente, concorrendo ad individuarne presupposti, modalità, aventi diritto, criteri, tempi e quant’altro sia necessario regolare affinché la struttura organizzativa regionale assolva a funzioni e finalità che toccano, istituzionalmente, all’ente; il riflesso privatistico è molto indiretto, e, forse, sostanzialmente inesistente.

Talvolta queste disposizioni sono contenute in leggi con finalità assistenziali generali, nell’ambito delle quali, ad esempio, si ritiene opportuno ricomprendere anche le famiglie non fondate sul matrimonio, o famiglie di dimensioni più ampie rispetto all’archetipo costituzionale[12]; in altri casi, le disposizioni che toccano la famiglia sono contenute in leggi di respiro meno generale, e più legate a settori da sempre oggetto della potestà legislativa regionale: è il caso dell’edilizia residenziale pubblica.

Qui si assiste si assiste ad un fenomeno che accomuna, sostanzialmente, tutte le Regioni o quasi: nelle rispettive leggi che governano l’assegnazione degli alloggi pubblici, vengono individuate le caratteristiche dei nuclei familiari che hanno titolo per partecipare ai pubblici concorsi mediante i quali si assegnano gli alloggi stessi.

L’analisi di queste discipline evidenzia forti tratti caratteristici comuni[13]: molte volte la «famiglia» è intesa in modo assai ampio, fino a ricomprendervi anche situazioni non matrimoniali. Per evitare formule generiche [e che, in ipotesi, potrebbero inficiare le scelte amministrative a valle], spesso si identifica cosa sia «convivenza» ai fini della edilizia pubblica agevolata, e se ne stabiliscono in modo preciso anche i requisiti di «stabilità»[14].

Esattamente in questo ambito si muove la Corte costituzionale con la sentenza n. 8/2011: la norma dell’Emilia-Romagna non riconosce le famiglie fuori dal matrimonio, ma, come appunto si legge in motivazione, vuole delimitare l’ambito applicativo della legge regionale e dei benefici in essa regolati, oltretutto estendendolo alle forme di convivenza per l’identificazione delle quali si fa espresso richiamo alla legge (statale) sul regolamento anagrafico. Manca, dunque, di quella che potrebbe identificarsi come “idoneità lesiva” dell’art. 117 Cost., perché la disposizione contestata non è di diritto di famiglia ma, più semplicemente e inoffensivamente, è una norma sociale e amministrativa che identifica per la sua applicazione (ma non per altro) una certa nozione di famiglia. Certamente, attraverso questa tipologia di disposizioni le Regioni possono praticare una politica sulla famiglia, esprimendo scelte di carattere amministrativo che, entro certi limiti, possono andare in direzioni diverse rispetto a quelle effettuate dall’amministrazione dello Stato o da quelle eventualmente espresse dalle altre Regioni: tuttavia è loro preclusa una qualunque disciplina di carattere sostanziale, che possa dare luogo a diritti azionabili giudizialmente perché la famiglia – in forza del suo legame inscindibile con la persona – necessita di una disciplina uniforme su tutto il territorio nazionale.

Analoga l’argomentazione utilizzata dalla Corte per respingere l’altra contestazione nei confronti della medesima legge: il richiamo al principio di non discriminazione e di eguaglianza nell’accesso ai servizi non configura una nuova ipotesi di “obbligo a contrarre”, né limita l’autonomia dei privati; la Regione si limita a fare uso di concetti e nozioni che desume dal diritto comunitario[15], e dei quali si serve per l’esercizio delle sue attribuzioni e nell’ambito rigoroso di esse.

Non innova, non crea, ma richiama, fa propri concetti ed istituti costruiti e disciplinati dal diritto che è loro proprio (nazionale o europeo che sia).

 

3. Il diritto privato delle Regioni in diciotto mesi di giurisprudenza costituzionale.

Nell’ultimo anno e mezzo la Corte costituzionale sembra affrontare il problema del diritto privato delle Regioni servendosi di un approccio più concreto, e, per certi aspetti, più rispettoso dell’autonomia regionale: anche se è ancora piuttosto arduo tratteggiare un quadro coerente ed armonico.

Alla fine del 2009, la Corte[16], sia pure al mero livello di obiter dictum, aveva fatto richiamo ad un precedente assai noto del 2001[17], nel quale, poco prima dell’entrata in vigore del nuovo art. 117 Cost., i giudici costituzionali avevano timidamente aperto al diritto privato regionale stabilendo che il c.d. limite del diritto privato non può considerarsi assoluto perchè “consente comunque un qualche adattamento in ambito regionale” che – se non lede l’eguaglianza ed appare giustificato e ragionevole – può salvarsi da incostituzionalità. Ma il richiamo non si traduce di un decisumdi segno analogo, perché la Corte costituzionale boccia una legge pugliese sui prezzi dei farmaci poiché nega che una regione possa dettare disposizioni che, in qualunque modo, concorrano ad identificare limiti all’autonomia dei privati, soprattutto se si tratta di limiti sconosciuti alla legislazione nazionale.

L’autonomia privata come feticcio: di fronte ad essa, le Regioni sempre e comunque debbono arrestare la propria voglia di regolare e dirigere (o, al limite, di ampliare e favorire), lasciando spazio all’unico soggetto qui titolato ad emettere norme: lo Stato. In realtà, l’area del contratto offre al legislatore regionale una resistenza “media”[18] alla differenziazione di fonte regionale: questo perché – in corrispondenza con un interesse generalmente consistente in una materia esclusiva o concorrente – le Regioni possono produrre norme che appartengono all’area della disciplina del contratto in generale o, come pare più probabile, a quella dei singoli contratti d’interesse (anche) regionale. La Corte avrebbe potuto, allora, giungere ad una decisione diversa[19], se solo avesse voluto affrontare quel “lavoro complicato”[20] che pare necessario affrontare tutte le volte in cui si deve valutare se una norma regionale viola o non viola il limite del diritto privato.

Più significativa, per certi aspetti più coraggiosa, una successiva decisione[21] con la quale si è riconosciuta la legittimità di una legge regionale ligure che impone un obbligo di trascrizione di un atto d’asservimento di un terreno ad area di parcheggio pertinenziale rispetto ad un bene immobile: in questo caso la disposizione è sicuramente di diritto privato, ma può salvarsi perché si colloca senza impatto traumatico nell’ambito delle regole codicistiche e speciali sulle aree pertinenziali destinate a parcheggio.

Ancora una volta, il discrimen tra norma regionale privatistica legittima e norma regionale privatistica illegittima sembra essere rappresentare dall’esito di un giudizio di conformità/coerenza tra la norma contestata e il diritto civile dello Stato: con la conseguenza che sopravvivono solo quelle disposizioni regionali prive di contenuto innovativo o, comunque, meramente ridondanti del diritto privato statuale.

Questo approccio affiora anche nelle decisioni del 2010: in un’occasione, ad esempio, si è riconosciuta la legittimità di una legge regionale che, in materia di revisione dei prezzi di contratti pubblici, faceva espresso rinvio alla normativa statale[22] proprio sulla base della constatazione che detta legge non innova, ma richiama e, dunque, non lede il riparto di competenze di cui all’art. 117 Cost.

Quando, invece, la disposizione regionale ad oggetto privatistico mira ad innovare e, dunque, a variare il diritto privato nazionale, allora merita di essere cassata: su questa base, ad esempio, vengono dichiarate incostituzionali alcune disposizioni di una legge della Campania che identifica alcuni beni d’appartenenza pubblica dichiarandoli impignorabili[23], in quanto introduce “una limitazione di responsabilità del creditore non prevista dalla legge statale”. La decisione merita condivisione non tanto perché la disposizione regionale tende a fissare regole diverse dal diritto nazionale, quanto perché lo fa in un settore – quello della responsabilità patrimoniale del debitore – la cui stretta connessione con l’eguaglianza discende dalla natura di principio generale riconosciuta all’art. 2740 c.c[24].

Sulla stessa scia si colloca un’altra decisione[25] che dichiara illegittime alcune disposizioni di una legge piemontese che, in deroga alla normativa nazionale, autorizza uno sviluppo del c.d. software proprietario al di là dei limiti e delle regole fissati dal diritto nazionale vigente. La ragione della declaratoria d’incostituzionalità emerge con grande chiarezza nella motivazione della sentenza, nella quale si può leggere: “La disposizione censurata (…) senza formulare alcun richiamo alla normativa dello Stato in tema di diritto d’autore, con la concisa formula adottata non soltanto non prevede alcun requisito o condizione per il diritto affermato, ma lo estende anche al software proprietario, cioè al programma per elaboratore, rilasciato con licenza d’uso che non soddisfi i requisiti di cui all’art. 2, lettera a), della legge della Regione Piemonte n. 9 del 2009. Così statuendo, essa realizza una palese deroga alla norma statale, introducendo un autonomo contenuto precettivo che si rivela non suscettibile di essere coordinato con la detta norma statale”.

 

Ed allora sembra potersi riconoscere che è proprio questo “autonomo contenuto precettivo” (sempre che sia non coordinabile in nessun modo con le norme di fonte statali) a rendere illegittime le disposizioni regionali ad oggetto privatistico: se manca – come nel caso del richiamo alle “forme di convivenza” contenuto nella legge da cui ha preso le mosse la sentenza qui commentata – la norma regionale può salvarsi dalla declaratoria di illegittimità costituzionale.



* Per gentile concessione della Rivista Famiglia e Diritto.

[1] Basta il richiamo a Ferrando, Il nuovo diritto di famiglia, in Il Nuovo diritto di famiglia, diretto da Ferrando, Bologna, 28 ss.

[2] Mi permetto di rinviare, proprio con riferimento al possibile diritto (privato) regionale sulla famiglia, ad A.M. Benedetti, Il diritto privato delle Regioni, Bologna, 2008, in partic. 162 ss.; sul diritto privato regionale in prospettiva più generale possono altresì vedersi: Roppo, Diritto dei contratti, ordinamento civile, competenza legislativa delle Regioni. Un lavoro complicato per la Corte costituzionale, in Corr. giur., 2005, 1301; Roppo, Diritto privato regionale?, in Riv. dir. priv., 2003, 11; Alpa, Il limite del diritto privato alla potestà normativa regionale, in Contr. impr., 2002, 597; Vitucci, Proprietà e obbligazioni: il catalogo delle fonti dall’Europa al diritto privato regionale, in Europa e dir. priv., 2002, 747; Giova, Ordinamento civile e diritto privato regionale, Napoli, 2008. Tra i pubblicisti: Lamarque, Regioni e ordinamento civile, Padova, 2005. Tra i comparatisti Barela, Diritto privato regionale, foral ed autonomico. Verso un diritto europeo della persona, Torino, 2009 e Torino (a cura di), Il diritto privato regionale in Spagna, Padova, 2008.

[3] Nelle due note decisioni Corte cost., 2 dicembre 2004, n. 372, in Foro it., 2005, I, 297 e Corte cost., 6 dicembre 2004, n. 378, in Foro it., 2004, I, 295 [su cui possono vedersi i commenti, richiamati nelle note che seguono, pubblicati su Le Regioni, 2005, 11 ss.] aventi ad oggetto norme sulle convivenza extramatrimoniali degli Statuti regionali dell’Umbria e della Toscana.

[4] Del «contenuto eventuale» degli Statuti regionali si legge nella sentenza della Corte cost., 13 gennaio 2004, n. 2: la Corte riconosce l’esistenza, accanto ai contenuti necessari degli Statuti, «di altri possibili contenuti, sia che risultino ricognitivi delle funzioni e dei compiti della Regione, sia che indichino aree di prioritario intervento politico o legislativo».

[5] In A.M. Benedetti, Il diritto privato delle Regioni, cit., in partic.

[6] Come suggerisce Roppo, Diritto privato regionale?, cit., 30.

[7] Su questi interventi normativi regionali può vedersi Marchetti, Verso un diritto regionale della famiglia?, in Familia, 2005, 986 ss. e, relativamente all’assolvimento degli obblighi dei genitori nei confronti dei figli minori, Bettetini, Interesse del minore e integrità della famiglia in una nuova legge della regione Lombardia, in Riv. dir. civ., 2006, II, 233 ss.

[8] Con l’articolazione, ad esempio, di centri per la mediazione familiare (es. legge Emilia Romagna n. 27/89).

[9] Corte cost., 18 marzo 2005, n. 106, in Foro it., 2005, 2959, con nota di A.M. Benedetti, Ordinamento civile e competenza legislativa delle Regioni, e in Le Regioni, 2005, 985 con commento di Lamarque, Legge della provincia autonoma di Bolzano, surrogazione legale in favore della Provincia e ordinamento civile.

 

[10] Ancora in A.M. Benedetti, Il diritto privato delle Regioni, cit.,

[11] Secondo Roppo, Diritto dei contratti, ordinamento civile, competenza legislativa delle Regioni. Un lavoro complicato per la Corte costituzionale, cit., 1303-1304, la famiglia è «materia» del diritto privato; ma «non ogni norma che riguardi la famiglia è norma di diritto privato: dipende dal modo e dal senso – dal proprium normativo- secondo cui la norma riguarda la famiglia».

[12] Un esempio la legge Valle d’Aosta n. 44/1998. In alcune Regioni, invece, esistono leggi sull’assistenza alle famiglie in difficoltà che, tuttavia, scelgono di rivolgersi alle sole famiglie fondate sul matrimonio: ne sono un esempio la Legge Abruzzo n. 95/1995 (Provvidenze in favore della famiglia); la legge Friuli-Venezia Giulia n. 25/1993 (Norme per il sostegno delle famiglie e per la tutela dei minori) il cui art. 2, 1° comma, espressamente dispone: « Ai fini della presente legge per famiglia si intende quella composta da soggetti legati da vincolo di coniugio, parentela o affinità».

[13] Che ha bene analizzato anche marchetti, Verso un diritto regionale della famiglia?, cit., 990 ss.

[14] Ancora ad avviso marchetti, Verso un diritto regionale della famiglia?, cit., 991, esiste un modello di «norma» che si riscontrerebbe in tutte le legislazioni regionali del settore, e che potrebbe essere così sintetizzato: «Agli effetti della presente legge per nucleo familiare si intende la famiglia costituita dai coniugi e dai figli legittimi, naturali, riconosciuti ed adottivi e dagli affiliati coni loro conviventi. Fanno altresì parte del nucleo familiare il convivente more uxorio, gli ascendenti, i discendenti, i collaterali fino al terzo grado, purchè la stabile convivenza con il richiedente abbia avuto inizio due anni prima dalla data di pubblicazione del bando di concorso e sia dimostrata nelle forme di legge».

[15] Sul principio di non discriminazione basta il richiamo a Maffeis, Offerta al pubblico e divieto di discriminazione, Milano, 2007, in partic 179 ss.

[16] Corte cost., 13 novembre 2009, n. 395, in Contratti, 2010, 113, con nota di A.M. Benedetti, L’autonomia privata di fronte al “diritto privato delle Regioni”.

[17] Corte cost., 6 novembre 2001, n. 352, in Foro it., 2002, I, 638 [oggetto di un richiamo, nel periodo successivo, solo in Corte cost., 28 luglio 2004, n. 282, in Foro it., 2005, I, 28].

[18] Su contratto e competenze legislative regionali si vedano Roppo, Diritto dei contratti, ordinamento civile, competenza legislativa delle Regioni. Un lavoro complicato per la Corte costituzionale, cit., 1301 ss. e A.M. Benedetti, Il diritto privato delle Regioni, cit., 233 ss.

[19] Come provavo ad illustrare in A.M. Benedetti, L’autonomia privata di fronte al “diritto privato delle Regioni”, cit., 122 ss.

[20] Cui faceva richiamo Roppo nel titolo di un suo contributo in materia (Diritto dei contratti, ordinamento civile, competenza legislativa delle Regioni. Un lavoro complicato per la Corte costituzionale, cit.).

[21] Corte cost., in Le Regioni, 2010, 4, 91, con nota di A.M. Benedetti, Atti soggetti a trascrizione, parcheggi e potestà legislativa delle Regioni.

[24] Sul punto si rinvia alle più articolate considerazioni contenute in A.M. Benedetti, Atti soggetti a trascrizione, parcheggi e potestà legislativa delle Regioni, cit., 93 ss.