ALBERTO MARIA BENEDETTI
“MALASANITÀ” E PROCEDURE CONCILIATIVE NON OBBLIGATORIE: IL RUOLO
DELLE REGIONI NELLA TUTELA DEI CONSUMATORI E DEGLI UTENTI *
(nota a Corte
costituzionale, sentenza 14 maggio 2010, n. 178)
1. Le legge veneta sul
contenzioso sanitario al vaglio della Consulta.
La Regione Veneto – con
la legge n. 15/2009: Norme in materia di gestione stragiudiziale del
contenzioso sanitario – si propone di perseguire l’obiettivo di regolare
“modalità di composizione stragiudiziale delle controversie insorte in
occasione dell’erogazione delle prestazioni sanitarie” (art. 1, comma 1). Lo strumento
individuato per realizzare questo scopo consiste nell’istituzione di una
Commissione conciliativa regionale, cui si assegna il compito di promuovere la
risoluzione stragiudiziale delle controversie che derivano dalla responsabilità
civile delle strutture sanitarie pubbliche e di quelle private convenzionate
con la Regione.
La legge individua
principi e criteri direttivi cui si ispira il procedimento conciliativo: non
obbligatorietà, volontarietà, gratuità, imparzialità, celerità e riservatezza
del procedimento conciliativo (art. 3, comma 2, lettere a, b, c, e, g ed i),
non vincolatività della decisione della Commissione
(lettera d) e “definizione della conciliazione, in caso di accordo fra le
parti, con un atto negoziale di diritto privato ai sensi dell’art. 1965 del
codice civile (lettera h)”.
Il Governo contesta la
legittimità costituzionale di queste disposizioni, ravvisando in esse norme di
diritto privato[1]
o di diritto processuale che, in quanto tali, toccano allo Stato in forza
dell’art. 117, comma 2, lett. l) Cost.: secondo l’Avvocatura dello Stato, le
procedure di conciliazione necessitano di una disciplina uniforme su tutto il
territorio nazionale, che ne regoli, tra l’altro, il rapporto con l’esercizio
del diritto di azione in sede giurisdizionale.
La Corte costituzionale –
con la sentenza
n. 178/2010 – non ritiene fondate le contestazioni sollevate contro la
legge veneta, e svolge un ragionamento così articolato:
a) la ratio della legge è quella
di prevenire le controversie in materia sanitaria, riducendo l’ammontare dei
risarcimenti dei danni;
b) la legge contestata appartiene alla
materia “tutela della salute”, assegnata dall’art. 117 Cost. alla competenza
concorrente delle Regioni. Ciò perché, scrive la Corte, “(…) l’economicità, la
completezza e la qualità delle prestazioni sanitarie devono necessariamente
caratterizzare tutta l’organizzazione posta a tutela della salute dei
cittadini. La prevenzione delle controversie, e dei loro costi elevati, rientra
pienamente tra gli strumenti idonei a raggiungere i predetti obiettivi, che
devono essere perseguiti dalle aziende sanitarie, con l’effetto di liberare
risorse da impiegare nel miglioramento dei servizi”;
c) la legge veneta non ha a che fare con
l’ ”ordinamento civile” (art. 117, comma 2, lett. l, cost.) perché disciplina
un procedimento di conciliazione non obbligatorio ed esclusivamente volontario,
non sovrapponibile né confondibile con quella mediazione obbligatoria che, nel
diritto statuale, funge da condizione di procedibilità dell’azione giudiziale,
anche in materia di responsabilità medica (d.lgs. 28/2010: disciplina della
mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e
commerciali);
d) la legge regionale, per avvalorare la
natura volontaria del procedimento e la non vincolatività
della pronuncia della Commissione conciliativa, si limita a precisare che tutto
il procedimento è orientato a facilitare l’eventuale formazione di un accordo
transattivo teso ad evitare l’insorgenza di una lite; che le parti possono
stipulare, se lo vogliono, esattamente nei termini previsti dal codice civile.
La decisione merita di
essere condivisa, sia nel metodo che nel merito.
2. Nel metodo: la Corte impara a distinguere tra le norme
regionali che sembrano e norme regionali che sono di diritto privato.
In questa sentenza, la Corte
costituzionale conduce un’analisi della legge regionale oggetto di
contestazione che non si limita alla sola valutazione del suo oggetto, né
s’arresta di fronte al richiamo di istituti di stretta appartenenza
privatistica e delle relative disposizioni codicistiche (come il contratto di
transazione, che la legge veneta – all’art. 3, comma 3 – espressamente
menziona). I giudici preferiscono domandarsi innanzi tutto quale sia la ratio
dell’intera normativa di fonte regionale, e la individuano deducendola da
quelle disposizioni introduttive che, sovente, sono dedicate ad illustrare
ragioni e scopi dell’intervento legislativo regionale.
Queste vere e proprie declaratorie –
in un giudizio di legittimità costituzionale finalmente divenuto più attento
alle ragioni del legislatore regionale – possono giocare un ruolo importante
per orientare in un senso o nell’altro la decisione finale, come bene attesta
il caso di specie[2]:
la legge veneta – all’art. 1 dedicato proprio all’individuazione delle sue finalità
– identifica con chiarezza l’obiettivo che intende perseguire (prevenire i contenziosi
e migliorare il rapporto di fiducia con il servizio sanitario regionale) e lo
strumento che vuole disciplinare (procedure funzionali alla composizione
stragiudiziale delle controversie e relativi organismi amministrativi).
Questi elementi concorrono
da una parte, ad identificare la (vera) materia di riferimento e, dall’altra,
aiutano a valutare con maggiore ponderatezza quelle parti della legge regionale
che possono apparire, ad una prima valutazione, appartenenti alla competenza
esclusiva statuale.
In altre parole, ciò che
ad uno sguardo superficiale - basato solamente sulla considerazione
dell’oggetto della normativa contestata – può sembrare
costituzionalmente illegittimo (perché sospetto fortemente di invadere le
competenze legislative riservate allo Stato), sotto la lente della ratio
giustificatrice può rivelarsi più innocuo, o, quanto meno, più vicino alle
competenze legislative assegnate a titolo esclusivo o concorrente alla Regione.
Nello specifico, la ratio
della legge veneta evoca immediatamente la materia “tutela della salute”
(competenza concorrente per l’art. 117, comma 3, Cost.): la Regione, infatti,
si propone l’intento di prevenire e ridurre le controversie in materia
sanitaria, onde diminuire gli oneri finanziari che l’ente sopporta a causa
degli importi assai elevati dei risarcimenti liquidati agli utenti all’esito
dei procedimenti di carattere giurisdizionale intentati contro le strutture
pubbliche per malpractice medica. La “salute” c’entra variamente: sia
perché la legge si rivolge a coloro che lamentano danni da “malasanità”; sia
perché si propone di ridurre gli sprechi di pubbliche risorse proprio nel
settore sanitario.
Ma la (dichiarata) ratio
della legge regionale da sola non basterebbe, se non fosse avvalorata dai suoi
contenuti concreti [che, per salvare la norma da incostituzionalità, hanno da
essere coerenti e proporzionati con le finalità dichiarate nell’articolo
introduttivo della legge stessa]: la legge veneta definisce e regola un
procedimento conciliativo non obbligatorio diretto a favorire (ma non ad
imporre) la conclusione tra le parti di un accordo transattivo. Proprio il
carattere facoltativo della conciliazione spazza via ogni dubbio sulla
costituzionalità della legge; perché essa non vuole definire un sistema di
risoluzione alternativo della controversia di tipo obbligatorio [del genere
mediazione-condizione di procedibilità dell’azione giurisdizionale] preferendo
piuttosto articolare un procedimento che agevola la composizione amichevole
della controversia, conducendo le parti – su base esclusivamente volontaria –
alla conclusione di un accordo di transazione (o, al limite, prendendo atto
dell’impossibilità di comporre la lite fuori dal giudizio).
Il richiamo alla norma
codicistica sulla transazione non spaventa (più) i giudici costituzionali ma,
semmai, li conforta nel loro giudizio (positivo) sulla legittimità della legge
veneta[3]:
perché, si legge in motivazione, l’evocazione del codice civile “non solo non
dimostra lo sconfinamento di quest’ultima nel campo dell’ordinamento civile, ma
fornisce invece conferma dell’assenza di ogni condizionamento, sostanziale e
processuale, sui soggetti interessati”.
La legge oggetto del
giudizio di costituzionalità – concepita ed articolata come fonte che regola un
procedimento volontario di conciliazione - non pone né norme di diritto privato
né norme di diritto processuale, né mette in pericolo il principio di
eguaglianza; si limita piuttosto a predisporre un organismo pubblico, del quale
disciplina il necessario procedimento amministrativo, cui le parti possono
rivolgersi solo se lo vogliono.
Un
diritto per così dire “mite” che vuol favorire la pacifica composizione delle
controversie, ma che lo fa avendo in mente uno scopo magari meno mobile, ma
certamente di grande importanza: quello di ridurre l’impatto sulle casse
regionali delle sentenze di condanna che, visti gli elevati importi dei
risarcimenti liquidati, può determinare una riduzione delle risorse destinate
da una Regione all’erogazione delle prestazioni sanitarie.
Una legislazione che
consiste in norme di diritto amministrativo/pubblico[4]
e che, per quanto abbia a che fare con diritti ed azioni regolati dal diritto
privato, non è in grado di superare il limite di cui all’art. 117, comma 2,
lett. l), cost.
La tecnica utilizzata
dalla Consulta per argomentare la decisione merita di essere condivisa, per
l’atteggiamento meno radicale e più calibrato che sembra emergere dallo “stile”
di questa pronunzia. Non si dichiara l’illegittimità della norma regionale
censurata sulla base del suo (spesso solo presunto) oggetto privatistico, o,
perfino, in forza del mero richiamo di istituti di diritto privato; bensì si
sceglie di condurre un’analisi più concreta che, muovendo dall’interpretazione
della disposizione impugnata e da un’accurata analisi delle sue
giustificazioni, ne valuta l’effettivo impatto sul diritto privato nazionale
(anche negandolo, come nella decisione qui commentata).
Il confronto con il
diritto d’emanazione statale può fornire dati ulteriori e significativi per valutare
la legittimità di una disposizione regionale sospetta di aver superato il
limite del diritto privato: nel caso specifico, ad esempio, è facile per la
Consulta constatare come il procedimento conciliativo disciplinato dal Veneto
sia totalmente differente da ogni altra forma di conciliazione prevista dalle
normative statali (ed in particolare dalla mediazione obbligatoria, che,
appunto, è concepita come condizione di procedibilità dell’azione e, dunque, è
imposta a chi intenda far valere determinate pretese), e, pertanto, non vada né
a sovrapporsi né a sostituirsi alla disciplina statuale.
Un approccio
sostanzialista, che, finalmente, sembra recuperare quel vecchio orientamento
inaugurato (ma subito abbandonato) poco prima della riforma del Titolo V[5],
e che, più recentemente, è stato ripreso in almeno due importanti occasioni[6].
Di fronte alla legge
veneta, la Consulta ha fatto ciò che altre volte non volle fare[7],
ascoltando, forse, le sollecitazioni di chi, da tempo, invoca un approccio meno
rigido al problema del diritto privato regionale; e prestandosi a quel “lavoro
complicato”[8]
che è necessario affrontare tutte le volte in cui una norma regionale è
sospettata di aver invaso le competenze esclusive dello Stato.
Vedremo nel prossimo
futuro se questo modo di decidere reggerà alla prova del tempo, o se si sarà
rivelato solo il frutto di una parentesi fugace e temporanea.
3.
Nel merito: gli ampi confini della “tutela della salute”.
La sentenza n.
178/2010 apre a scenari interessanti, soprattutto sul versante di un più
ampio e significativo ruolo delle Regioni nella protezione dei diritti e degli
interessi dei consumatori e degli utenti.
Curioso, ma non troppo,
che si arrivi a questo risultato prendendo le mosse dalla “tutela della
salute”, materia che l’art. 117, comma 3, Cost. assegna alla competenza
concorrente: si tratta in effetti di un contenitore potenzialmente molto ampio, che, data anche la delicatezza politica del
settore, induce le Regioni più coraggiose a forzare i confini di questa
materia.
La
“salute” evoca il sancta sanctorum
del diritto privato della persona fisica, perché, appunto, l’ambito del diritto
costituzionale alla salute non deve essere limitato alla mera regolazione/gestione
dei servizi pubblici connessi – e, quindi, a quel contesto che si può
identificare nel diritto alle prestazioni e ai trattamenti sanitari – ma tocca,
evidentemente, quei profili soggettivi individuali di libertà e intangibilità,
da cui discendono profondi riflessi di tipo privatistico [basti pensare che
proprio su questi profili si è potuta costruire la figura del c.d. danno
biologico].
Una
“doppia anima del diritto alla salute”, come si è ben rilevato in dottrina[9]:
quella sociale [diritto dei cittadini ad ottenere prestazioni sanitarie, dallo
Stato, dalle Regioni]; quella di libertà [diritto al rispetto della propria
salute – qui da intendersi, forse, con significati molto vicini a quelli propri
della “integrità fisica”- nei rapporti privatistici e nei confronti della
pubblica amministrazione]. La trasversalità e l’ampiezza del settore salute, nonché la collocazione
di questa tra le materie di competenza concorrente, può offuscare la capacità
dell’ente regione di discernere, in questo così ampio e variegato contenitore,
ciò che è soggetto al suo potere regolativo, da ciò che non lo è. O, ancora,
può indurre la Regione a mettere in atto piccole o grandi incursioni[10]
in territori di dubbia appartenenza ad essa, osando, come si è già detto,
l’inosabile.
La Corte costituzionale ha sempre
stoppato queste incursioni: di fronte ad una legge toscana sul consenso
informato, la Consulta[11]
usa l’accetta escludendo che la “tutela della salute” possa giustificare una
disciplina legislativa regionale sul consenso informato al trattamento
chirurgico, che, anche per ragioni legate all’eguaglianza, appartiene
sicuramente al diritto privato nazionale; e cassa quella legge anche se, come
si era provato a prospettare[12],
potevano essere individuate interpretazioni di essa tali da non ledere il
riparto costituzionale delle competenze. O, ancora, di fronte ad una legge
pugliese che vuole porre limiti all’autonomia contrattuale degli operatori
della catena distributiva dei farmaci, la Consulta esclude ancora che la
“tutela della salute” possa sorreggere la legittimità costituzionale di norme
regionali che introducano limiti all’autonomia privata, anche se il settore
della vendita dei farmaci ha sicuramente a che fare con la “tutela della
salute” [13].
Dalla “salute” al diritto privato il passo può essere breve, ma conduce le
Regioni in luoghi troppo distanti dall’alveo delle proprie competenze.
In altre occasioni, ancora, la Corte
ha precisato che la scelta di determinati trattamenti medici non può essere
oggetto di norme regionali laddove queste “pretendano di incidere direttamente
sul merito delle scelte terapeutiche in assenza di – o in difformità da –
determinazioni assunte a livello nazionale, e quindi introducendo una
disciplina differenziata, su questo punto, per una singola Regione”[14];
ma la “tutela della salute” può fornire il destro perché una regione possa
emanare regole che disciplinino la responsabilità civile del professionista
sanitario che opera sul proprio territorio regionale, individuando, ad esempio,
modelli di comportamenti e/o altri presupposti che il giudice dovrà tenere in
considerazione se verrà chiamato ad accertare la responsabilità di questi
operatori. Significativo a questo proposito quanto si legge in una sentenza del
2002: “(…) si deve escludere che ogni disciplina, la quale tenda a regolare e
vincolare l’opera dei sanitari, e in quanto tale sia suscettibile di produrre
conseguenze in sede di accertamento delle loro responsabilità, rientri per ciò
stesso nell’area dell’"ordinamento civile", riservata al legislatore
statale. Altro sono infatti i principi e i criteri della responsabilità, che
indubbiamente appartengono a quell’area, altro le regole concrete di condotta,
la cui osservanza o la cui violazione possa assumere rilievo in sede di
concreto accertamento della responsabilità, sotto specie di osservanza o di
violazione dei doveri inerenti alle diverse attività, che possono essere
disciplinate, salva l’incidenza di altri limiti, dal legislatore regionale”[15].
Un obiter di cui sono facilmente intuibili le possibili importanti
ricadute concrete.
La “salute”, dunque, può presentare
confini assai ampi e non sempre identificabili con certezza, ma oppone
generalmente una resistenza “alta” ad una differenziazione regionale che tocchi
il territorio del diritto privato[16],
e che rischia facilmente di tradursi in lesioni troppo profonde del principio
di eguaglianza.
4.
(Segue). Le Regioni concorrono alla
tutela dei consumatori e degli utenti.
Un puzzle non facile da
comporre, cui la sentenza
n. 178/2010 aggiunge un tassello assai significativo: le Regioni hanno
titolo per regolamentare procedimenti di risoluzione facoltativa delle
controversie che possono sorgere tra gli utenti e le strutture sanitarie (pubbliche
o private convenzionate), e tali discipline non invadono la competenza
esclusiva statale in materia di “ordinamento civile”.
Dalla (competenza concorrente) sulla
salute può discendere l’interesse della Regione ad occuparsi della tutela dei
diritti e degli interessi degli utenti, soprattutto quando questi utilizzano
servizi pubblici che rientrano nella sfera di competenze assegnata alle
Regioni, come avviene sicuramente nell’ambito della sanità.
D’altra parte, in materia di tutela
dei diritti dei consumatori e degli utenti le Regioni un qualche ruolo possono
esercitarlo[17]: ed è
forse per questo l’art. 101 del codice del consumo affianca le Regioni allo Stato, col compito di
“riconoscere e garantire i diritti degli utenti dei servizi pubblici (…)” e il successivo
art. 145 del medesimo codice fa salve “le disposizioni adottate dalle regioni
(…) nell’esercizio delle proprie competenze legislative in materia di
educazione e informazione del consumatore”.
Il Codice del consumo, probabilmente,
allude ad iniziative di sostegno promozionale, affidate ad organi, istituzioni,
uffici organizzati dalla Regioni con norme amministrative di rango legislativo
o anche meramente regolamentare, che possono coprire tutti quei settori su cui
esiste un interesse della Regione a legiferare (sanità, turismo, agricoltura
etc.)[18].
Ma, forse, gli spazi d’intervento
possono essere anche più significativi.
Sui servizi pubblici
(necessariamente, qui, quelli di dimensione locale: è la sanità è tra questi),
la «tutela della concorrenza» riduce gli spazi per una legislazione regionale,
confinata a ruoli sostanzialmente marginali, o limitati ai servizi pubblici non
economici [19];
ma, evocate dagli articoli 101 e 145 cod. cons., le Regioni possono intervenire
con norme di rango legislativo, identificando contenuti essenziali delle carte
dei servizi, predisponendo schemi-tipo che gli esercenti dei servizi pubblici
locali sono tenuti ad osservare, o, ancora, distribuendo tra gli enti locali
interessati il potere di regolare questi aspetti. Ed infine, come oggi
riconosce la Corte costituzionale, regolando negoziazioni volontarie che, oltre
al settore sanitario, “ (…) possono sorgere nei più diversi campi e rientrare
pertanto in differenti materie, di competenza legislativa dello Stato o delle
Regioni, o di entrambi, a seconda dei casi (…). Sarà volta per volta necessario
valutare il titolo di competenza che abilita le Regioni ad intervenire con
proprie norme allo scopo di predisporre servizi di supporto a tali
negoziazioni”.
Si apre, dunque, un quadro di
possibili interventi non secondari né privi di rilievo; che, anzi, possono
contribuire ad aumentare in modo significativo l’effettività dei diritti dei
consumatori e degli utenti, in forza della maggiore prossimità dell’ente
Regione alle parti interessate. Ed allora può ammettersi che le Regioni possano
confezionare discipline di settore che attuino quei diritti “fondamentali” dei
consumatori e degli utenti proclamati all’art. 2 del Codice del consumo: in
quest’ambito, il legislatore regionale può esercitare la fantasia, purchè non
fuoriesca dal quadro delineato dal diritto nazionale e sopranazionale dei
consumatori, oggi racchiuso integralmente nel Codice del consumo e dalle norme
statali che, in quest’ambito, mirano a tutelare la libertà e la trasparenza
della concorrenza[20].
Una Regione non potrebbe, ad esempio,
predisporre nuovi rimedi contrattuali, individuare nuovi vizi di nullità dei
contratti tra utenti ed esercenti, perché questo modello di «contratto» è
dominato da una rete di norme imperative, relativamente alle quali l’esigenza
di uniformità è, come detto, sostanzialmente inderogabile dall’autonomia
regionale. Ma le Regioni possono articolare forme di controllo e/o di
partecipazione da parte degli utenti al monitoraggio sulla qualità dei servizi
resi, arricchire i contenuti delle carte di servizio o dei contratti di
servizio[21],
o “contrattualizzarle” coinvolgendo associazioni di utenti nel procedimento che
ne precede l’adozione[22],
individuare nuove forme di risarcimento e/o indennizzo a favore degli utenti
danneggiati dai disservizi e dalle disfunzioni, disciplinare elenchi di
associazioni dei consumatori e di utenti: nulla che comporti la creazione di un
diritto privato regionalmente differenziato poiché si tratterebbe di norme che,
attuando principi e completando le regole del diritto statuale, costruiscono la
loro ragionevolezza sulle peculiarità che possono contraddistinguere una
Regione rispetto ad un’altra o in sensibilità politiche di questa o quella
amministrazione regionale.
L’analisi, pur sommaria e
superficiale, della legislazione regionale offre alcuni significativi esempi.
La Regione Lombardia, con legge n.
26/2003, ha voluto disciplinare i servizi di interesse economico generale, con
un’ottica di particolare attenzione all’individuazione di meccanismi che
garantiscano un’effettiva tutela dei diritti degli utenti. A tale scopo, la
legge non solo identifica contenuti minimi delle carte dei servizi, ma
istituisce altresì un «Garante dei servizi locali di interesse economico
generale» - cui affianca un «Osservatorio regionale risorse e servizi» - al
fine di predisporre un controllo effettivo ed esterno sia sui contenuti delle
carte, che sui livelli effettivi di qualità delle prestazione erogate.
Altri interventi legislativi
regionali sembrano percorrere la medesima direzione: la Regione Emilia Romagna,
con la legge n. 25/1999, ha previsto la costituzione di agenzie territoriali
con il compito, tra l’altro, di predisporre schemi di carte di pubblico
servizio, standard qualitativi minimi, diritti e obblighi degli utenti; la
Regione Abruzzo – con legge n. 23/2004 già sottoposta per altri profili al
vaglio della Corte Costituzionale[23]
- disciplina contenuti e meccanismi di pubblicità della carta dei servizi, e
prevede la costituzione di un Osservatorio regionale chiamato ad una costante
verifica della qualità dei servizi pubblici economici; la Regione Toscana – con
legge n. 9/2008 – disciplina un comitato regionale dei consumatori e degli
utenti, tra i cui compiti l’individuazione degli standard di qualità
nell’erogazione dei beni e dei servizi distribuiti sul territorio regionale[24].
E gli esempi – che, con riferimento alla sanità, possono rinvenirsi nella
motivazione della sentenza qui commentata – potrebbero continuare anche
prendendo in esame legislazioni di altre Regioni.
Il ruolo delle Regioni, dunque, può
essere in questo settore più significativo ed incisivo di quello che potrebbe
ritenersi ad un primo sguardo: un concorso nell’attuazione concreta di quei
diritti degli utenti che l’ordinamento nazionale si limita a proclamare con
norme di principio, rendendoli effettivi in settori – come quello dei servizi
pubblici locali - che ha un impatto più che significativo sulla qualità della
vita dei cittadini e che proprio le Regioni, in forza della prossimità rispetto
al territorio e agli utenti, possono essere in grado di disciplinare più e
meglio dello Stato.
Con norme sì di tipo essenzialmente
amministrativo, ma che, tuttavia, possono presentare (legittimi) riflessi di
tipo privatistico: come, ad esempio, potrebbe accadere nella costruzione,
attraverso la regolazione delle carte dei servizi, dei contenuti o dei limiti
di validità dei singoli contratti d’utenza[25].
La Corte costituzionale, con la sentenza n.
178/2010, riconosce che le Regioni possono concorrere ad accrescere il
livello di tutela offerto ai consumatori e agli utenti dal diritto statuale, o
a renderlo effettivo; anche secondo i bisogni e le specificità che il
territorio regionale può far emergere. Una (sorta di) public enforcement
di matrice regionale[26]
che, allora, non sembra più rappresentare una prospettiva utopistica.
* Per gentile concessione della
Rivista Danno e Responsabilità.
[1] Sul problema del diritto privato
regionale possono vedersi: a.m. benedetti,
Il diritto privato delle Regioni, Bologna, 2008; v. roppo, Diritto dei contratti, ordinamento civile,
competenza legislativa delle Regioni. Un lavoro complicato per la Corte
costituzionale, in Corr. giur., 2005, p. 1301; v. roppo, Diritto privato regionale?,
in Riv. dir. priv., 2003, p. 11; g.
alpa, Il limite del diritto privato alla potestà normativa regionale,
in Contr. impr., 2002, p. 597; p.
vitucci, Proprietà e obbligazioni: il catalogo delle fonti dall’Europa
al diritto privato regionale, in Europa e dir. priv., 2002, p. 747; s. giova, Ordinamento civile e
diritto privato regionale, Napoli, 2008. Tra i pubblicisti: e. lamarque, Regioni e ordinamento
civile, Padova, 2005. Tra i comparatisti v.
barela, Diritto privato regionale, foral ed autonomico. Verso
un diritto europeo della persona, Torino, 2009 e r. torino (a cura di), Il diritto privato regionale in
Spagna, Padova, 2008
[2] L’attenta analisi del “come” e del
“perché” della disposizione regionale sospetta di violare il limite
dell’ordinamento civile era auspicata tra le conclusioni di un mio recente
lavoro, cui mi permetto di fare rinvio: a.m.
benedetti, Il diritto privato delle Regioni, Bologna, 2008, p.
292.
[3] In altri casi, invece, spaventava eccome
ed induceva la Corte a cassare norme regionali che, con un ragionamento assai
simile a quello oggi svolto dalla Consulta, avrebbero forse potuto essere
salvate: un esempio è dato da Corte cost., 18
marzo 2005, n. 106, in Foro it., 2005, I, 2960, con nota di a.m. benedetti, Ordinamento civile e
competenza legislativa delle Regioni.
[4] Sulla necessità di distinguere le norme
regionali che sembrano di diritto privato, ma che, in realtà, una più attenta
analisi rivela come norme di diritto amministrativo o pubblico si rinvia a v. roppo, Diritto privato regionale?,
cit., p. 11 ss.
[5] Corte cost., 6
novembre 2001, n. 352, in Foro it., 2002, I, p. 638 [oggetto di un
richiamo, nel periodo successivo, in Corte cost., 28
luglio 2004, n. 282, in Foro it.,
2005, I, p. 28]. In questa decisione, i giudici costituzionali ammisero che le
Regioni potevano emanare norme di diritto privato, purché l’adattamento
regionale del diritto privato nazionale apparisse giustificato e ragionevole,
e, dunque, non lesivo del principio di eguaglianza.
[6] Corte cost., 13
novembre 2009, n. 295, in Contratti, 2010, 2, con nota di a.m. benedetti, L’autonomia privata di
fronte al “diritto privato delle Regioni” e in Annuario del contratto
2009, pp. 155-157; Corte cost., 4
dicembre 2009, n. 318 (con nota di a.m.
benedetti, Atti
soggetti a trascrizione, parcheggi e potestà legislativa delle Regioni,
una sintesi può trovarsi in Annuario del contratto 2009, pp. 211-213).
[7] Salvo in un paio di occasioni in cui
la Corte salvò disposizioni regionali ad oggetto (apparentemente) privatistico
evidenziandone la non contrarietà al diritto nazionale: Corte cost., 27
luglio 2005, n. 271 (su una legge regionale dell’Emilia Romagna relativa alla
tutela della privacy) e Corte cost., 1
giugno 2006, n. 212 (su una legge regionale dell’Umbria che regolamenta la
raccolta dei funghi).
[8] Che auspicava fosse svolto v. roppo, Diritto dei contratti,
ordinamento civile, competenza legislativa delle Regioni. Un lavoro complicato
per la Corte costituzionale, cit., p. 1301 ss.
[9] Così r.
de matteis, Responsabilità e
servizi sanitari. Modelli e funzioni, Padova, 2007, p. 14 (a cui si fa richiamo
per un’analisi dei possibili diversi significati del diritto alla salute: ivi,
p. 12 ss.).
[10] Un’incursione non lieve è quella
compiuta dalla Regione Veneto che, con legge n. 30/2007, ha sospeso l’obbligo
vaccinale sul territorio regionale. Qui si intrecciano profili della salute
nella sua dimensione sociale ed in quella individuale, oltre a profili che
toccano il diritto della persona sulla propria integrità fisica. Una scelta di
tal fatta sembra competere allo Stato, cui tocca fissare i principi fondamentali
in materia di «sanità», rimanendo alla Regione la disciplina attuativa e di
dettaglio.
[11] Corte cost., 4
luglio 2006, n. 253, in Le Regioni, 2007, p. 180, con nota di e. lamarque, Ancora nessuna risposta
in materia di ordinamento civile.
[12] Si veda, sul punto: a.m. benedetti, Diritto privato
regionale (toscano), ordinamento civile e sindacato di legittimità
costituzionale: è possibile una sentenza interpretativa di rigetto?, in Corr.
giur., 2005, p. 1615.
[13] Corte cost., 13
novembre 2009, n. 295, cit.: la Corte – pur proclamando in un obiter
che le Regioni possono produrre un diritto privato nei limiti del sindacato di
ragionevolezza – concretamente rifiuta di condurre una più ampia indagine sugli
scopi e sugli strumenti della legge pugliese, che, forse, poteva condurre a
risultati non troppo dissimili da quelli cui pervenire, poco tempo dopo sia
nella sentenza
n. 314/2009 che in quella qui commentata [su quella decisione, e sulle sue
possibili criticità, può vedersi a.m.
benedetti, L’autonomia privata di fronte al “diritto privato delle
Regioni”, cit., p. 122 ss.].
[15] Corte cost., 26 giugno 2002, n. 282,
in Foro it., 2003, I, 394. Mostra di condividere l’idea che sta dietro
questo obiter v. roppo, Diritto dei
contratti, ordinamento civile, competenza legislativa delle Regioni. Un lavoro
complicato per la Corte costituzionale, cit., p. 1305. Vede in questa
decisione una notevole apertura verso la legislazione regionale e. lamarque, Regioni e ordinamento
civile, cit., p. 283.
[16] Sulle aree ad alta resistenza alla
differenziazione regionale si rinvia ad a.m.
benedetti, Il diritto privato
delle Regioni, cit., p.137 ss.
[17] Sul punto più ampiamente a.m. benedetti, Il diritto privato delle Regioni, cit., p. 254 ss. e s. giova,
“Ordinamento civile” e diritto
privato regionale, cit., p. 217
ss.
[18] Per un’analisi approfondita della
legislazione regionale sui consumatori può vedersi s. giova, “Ordinamento civile” e
diritto privato regionale, cit.,
p. 217 ss.
[19] Sul punto può vedersi a.m. benedetti, Utenti e servizi pubblici nel codice del consumo: proclamazioni e poca
effettività?, in Pol. dir., 2007,
pp. 468-470. Recentemente la Corte cost. ha riaffermato che le Regioni sono
sostanzialmente fuori dalla legislazione in materia di servizi pubblici di tipo
economico, mentre possono legittimamente dettare norme sui servizi pubblici di
tipo non economico: Corte cost., 14
aprile 2010, n. 142 (che riprende il noto precedente Corte cost., 27
luglio 2004, n. 272).
[20] La tutela dei consumatori può anche
assumere rilievo di finalità statutaria che la singola Regione decide di porsi.
Due esempi: l’art. 6 dello Statuto Umbria e l’art. 4 dello Statuto Campania.
[21] Su carte e contratti di servizio si
rinvia, ancora, a a.m. benedetti, Utenti e servizi pubblici nel codice del
consumo: proclamazioni e poca effettività?, cit., p. 470 ss.
[22] La carta dei servizi può diventare
“contratto” se, ad esempio, una legge regionale impone al gestore di acquisire
il consenso delle associazioni degli utenti, prima della definitiva emanazione
della Carta stessa. Allo stesso modo, leggi regionali potrebbero prevedere
criteri di pubblicità e diffusione delle Carte (attraverso i siti internet del
gestore, delle associazioni degli utenti o attraverso distribuzioni
generalizzate in altre forme), con disposizioni che, all’evidenza, potrebbero
essere qualificate come norme di diritto prevalentemente
amministrativo/pubblico.
[24] Previsioni analoghe sono contenute
nella Legge Liguria n. 26/2002 (Norme per la tutela dei consumatori e degli
utenti).
[25] Sull’interazione tra le carte dei
servizi e i singoli contratti di utenza si veda a.m.
benedetti, Utenti e servizi
pubblici nel codice del consumo: proclamazioni e poca effettività?, cit.,
pp. 470-472.
[26] Su cui vedasi f. cafaggi – h-w. micklitz, “Enforcement”
pubblico e privato nel diritto dei consumatori, in m. maugeri – a. zoppini (a cura di), Funzioni del
diritto privato e tecniche di regolazione del mercato, Bologna, 2009, p.
325 ss., in partic. p. 331 ss.