ALBERTO MARIA BENEDETTI
LAVORO PRIVATO, LAVORO PUBBLICO E
“ORDINAMENTO CIVILE”: QUALI SPAZI PER LE REGIONI?*
(nota a Corte
costituzionale, sentenza 29 aprile 2010, n. 151)
1. La Valle d’Aosta – con la legge n. 5/2009 – ha
disciplinato il controllo in ordine alla sussistenza delle malattie che
giustificano l’assenza dei propri dipendenti, disponendo che i controlli siano
obbligatori se l’assenza è continuativa per almeno dieci giorni (art. 2, comma
1), identificando le fasce orarie per lo svolgimento delle visite di controllo
(art. 2, comma 2), rinviando al contratto collettivo regionale la
determinazione dell’ammontare della riduzione del trattamento economico nei
primi cinque giorni di assenza per malattia (art. 2, comma 3).
Il Governo svolge nei confronti di queste disposizioni della
legge regionale valdostana alcune contestazioni così sintetizzabili: da una
parte, la disciplina del rapporto di lavoro tra amministrazione pubblica
regionale e dipendente si colloca nell’ambito della materia “ordinamento
civile”, riservata allo Stato dall’art. 117, comma 2, lett. l) cost.; in ogni
caso, non si può ammettere che le singole Regioni regolino autonomamente i
rapporti di lavoro dei propri dipendenti, perché questo spezzerebbe
quell’uniformità delle regole cui non si può rinunziare nell’ambito dei
rapporti di lavoro e che è garantita da un unico diritto su tutto il territorio
nazionale.
Per identiche ragioni, l’art. 3 della legge valdostana appare
incostituzionale, nella misura in cui dispone che il personale della Regione
possa chiedere di essere esonerato dal servizio nel corso del triennio
antecedente la data di maturazione dell’anzianità contributiva, in luogo dei
cinque anni richiesti invece dalla normativa nazionale.
Un’illegittimità per così dire aggravata dal fatto che queste
disposizioni sono sostanzialmente difformi dalla corrispondente disciplina
statale che, con norme anche recenti, ha provveduto a disciplinare i medesimi
aspetti regolati dalla legge della Valle d’Aosta.
La Regione si difende negando, da una parte, che la normativa
impugnata appartenga all’area dell’ordinamento civile ed affermando,
dall’altra, che detta disciplina è conforme o compatibile con quella statuale.
2. La Corte accoglie il ricorso del Governo, con una
motivazione così articolata: la disposizione che disciplina il controllo sulle
malattie dei propri dipendenti appartiene al più generale potere che
l’ordinamento riconosce in capo al datore di lavoro sicché “trattandosi di uno
dei poteri che l’ordinamento attribuisce ad una delle parti di un rapporto
contrattuale (…) la relativa disciplina deve essere uniforme su tutto il
territorio nazionale, ed imporsi anche alle Regioni a statuto speciale (…)”.
Questa preclusione è indipendente dal contenuto della normativa statale in
materia; le Regioni, su questi temi, non hanno comunque titolo per legiferare.
Anche la disciplina relativa agli emolumenti che il
lavoratore ha diritto di percepire durante il periodo di malattia “trova la sua
unica causa nel rapporto contrattuale che lo lega al datore di lavoro”: ed
infine anche l’art. 3 della legge impugnata – che consente ai dipendenti
regionali di chiedere l’esonero dal servizio nel triennio antecedente al
raggiungimento dell’anzianità contributiva – è viziato perché incide “sui
diritti e gli obblighi delle parti del rapporto di lavoro pubblico”, e, come
tale, appartiene all’”ordinamento civile”. Tutte le disposizioni contestate,
dunque, esulavano dall’ambito delle competenze legislative attribuite alla
Valle d’Aosta, pur essendo quest’ultima una Regione a statuto speciale.
3. La questione sottesa alla decisione della Corte
costituzionale è, sintetizzando un po’ brutalmente, la seguente:
nell’”ordinamento civile”– che poi è il diritto privato ([1]),
materia riservata allo Stato dall’art. 117, comma 2, lett. l) cost. – è
contenuto tutto il diritto del lavoro [nel senso di: ogni possibile regola sul
rapporto di lavoro, sia privato che pubblico], oppure no?
La risposta a questa domanda passa attraverso
l’identificazione dei limiti entro i quali le Regioni hanno titolo per dettare
norme di rango legislativo che, direttamente o indirettamente, abbiano ad
oggetto il mondo del lavoro e le sue regole, sia per quel che attiene al lavoro
privato che per ciò che concerne quello pubblico (anche se i due settori, come
si dirà nel seguito, meritano di essere trattate distintamente).
Occorre muovere da una premessa: il diritto del lavoro ha
costruito la sua evoluzione e la sua autonomia sulla progressiva ma costante
fuoriuscita da regole, principi e schemi propri del diritto privato([2]); ma l’ “ordinamento civile” può avere
la forza di restituire al diritto privato quella sua storica, originaria forza
attrattiva su tutto ciò che non è diritto pubblico. Riappropriandosi, almeno ai
fini della ripartizione delle competenze, di territori che un tempo
indiscutibilmente appartenevano ad esso.
Ed allora la formula costituzionale – per molti versi
ambigua, e, comunque, difficilmente traducibile in significati generalmente
accettati([3]) – può guadagnare un senso insperato, se
si guarda, appunto, alla potenziale ampiezza racchiusa nel sostantivo
“ordinamento”: il diritto del lavoro, per ciò che attiene alla ripartizione
delle competenze tra Stato e Regioni, sembra perdere la sua autonomia,
conquistata non senza fatiche e con processi storici lenti e laboriosi([4]), per tornare ad essere considerato come
una “costola” del diritto privato([5]).
Ma il quadro non è così nitido, e qualche complicazione nasce
a causa della previsione, nel nuovo Titolo V della Costituzione, di una
competenza concorrente dai contenuti inafferrabili – quella identificata come
“tutela e sicurezza del lavoro” (art. 117, comma 3, cost.) - e che finisce con
lo scontrarsi, inevitabilmente, con l’ ”ordinamento civile”, avendone
generalmente la peggio. Oltretutto, anche in altri settori le Regioni detengono
competenze concorrenti od esclusive con possibili ricadute giuslavoristiche:
istruzione, professioni, formazione, previdenza integrativa, tutti ambiti che
possono indurre le Regioni a qualche incursione anche sul versante del diritto
del lavoro.
Per tracciare un possibile confine, si è tentata una
semplificazione articolata sul binomio contratto/mercato (del lavoro)([6]): il primo integralmente rimesso alla
disciplina statale; il secondo parzialmente affidato anche a quella di fonte
regionale, pur dentro un quadro di limiti molto stringenti. O, ancora, si è
provato ad identificare la materia concorrente con un non meglio precisato
diritto amministrativo del lavoro([7]).
Ma il punto è che, a leggere le decisioni dei giudici
costituzionali, pare che il “contratto” attiri a sé qualunque disciplina che,
in qualche modo, sia destinata a regolare il settore del lavoro, fino a
nullificare, di fatto, quella pur limitata competenza concorrente che la Costituzione,
in quest’ambito, riconosce alle Regioni: vuoi perché, qui, l’eguaglianza svolge
un ruolo assolutamente dominante, che sembra rendere sostanzialmente
impossibile ogni differenziazione regionale; vuoi perché non è sempre facile né
possibile discernere la regola sul contratto da quella sul mercato (del
lavoro), in un settore nel quale si registrano tassi molto elevati di
complessità.
4. La giurisprudenza costituzionale può essere evocata a
conferma del quadro appena tracciato.
Una prima significativa decisione è stata pronunziata sulle
questioni di costituzionalità che diverse Regioni hanno sollevato contro la
legge Biagi sulla riforma del mercato del lavoro, muovendo dal riparto di
competenze delineato dall’art. 117 Cost., nuova versione.
L’argomentazione che la Consulta ([8])
usa per rigettare tutte o quasi le doglianze regionali è grosso modo la
seguente: ogni norma che tocca il contratto – anche quello di lavoro
subordinato nelle sue complesse varianti – appartiene all’ ”ordinamento
civile”, e permane nell’esclusiva potestà del legislatore statale. E la legge
Biagi, o gran parte di essa, è appunto composta da disposizioni che sono
ampiamente coperte dalla competenza statale esclusiva sull’ordinamento civile.
Nel contesto del lavoro subordinato e delle sue regole,
dunque, alle Regioni potrà riconoscersi una (molto limitata e secondaria)
potestà normativa concorrente, ma (solo) per tutto ciò che non attiene né
direttamente né indirettamente all’area del “contratto”.
Quell’indirettamente, tuttavia, è davvero molto ampio.
In un caso di poco successivo, la Corte costituzionale([9]) ritiene conforme a Costituzione
escludere le Regioni dalla legislazione (solo statale) in materia di emersione
del lavoro sommerso, sulla base di considerazioni che non appaiono totalmente
appaganti ed, anzi, sembrano un po’ artificiose.
La legge sull’emersione del lavoro irregolare, constatano i
giudici, possiede contenuti (per lo più) riconducibili all’ ”ordinamento
civile”, e per conseguenza appartiene all’area dell’esclusiva competenza
statuale.
La motivazione di quella decisione dà l’impressione che il
giudizio di prevalenza sia stato formulato con una certa approssimazione, quasi
che il collegio volesse “cercare” solo quelle norme utili a sostenere il
dispositivo finale, ignorando, invece, quelle che potevano apparire incoerenti
rispetto all’idea che i giudici s’erano fatta (quella secondo la quale la legge
andava salvata siccome appartenente all’area dell’esclusiva competenza
statale).
La Corte valorizza – quale elemento che la orienta a
collocare (tutta) la legge nell’ambito dell’”ordinamento civile” - il fatto che
molte delle disposizioni contestate dalle Regioni si collocano sul versante
contrattuale (autonomia negoziale, sanatoria ed integrazione dei contratti
originariamente irregolari etc.), e, dunque: per un verso appartengono
naturalmente al diritto privato, e, per altro verso, sono totalmente estranee
alla “tutela e sicurezza del lavoro”, quale materia oggetto di potestà
normativa concorrente. Ma forse vede norme sul “contratto” anche laddove forse
non ci sono: non solo, infatti, l’”ordinamento civile” viene a coprire – e
questo non scandalizza - la disciplina intersoggettiva dei rapporti di lavoro
(ad es: tipi, contenuti, forme, dei relativi contratti), ma finisce col coprire
– e questo forse crea qualche dubbio in più - regole e criteri attraverso i
quali si intende fare emergere il lavoro sommerso, regolarizzandolo (anche ma
non solo) dal punto di vista contrattuale.
D’altra parte, la stessa dottrina giuslavoristica non nega
che – nel titolo di competenza concorrente “tutela e sicurezza del lavoro” - le
Regioni possano legiferare su taluni aspetti che sfuggono a quell’esigenza di
eguaglianza, anche costituzionale, che ha ispirato il diritto del lavoro fin
dalla sua “uscita” dal diritto privato: previdenza integrativa, il
collocamento, le politiche sull’occupazione, o, in generale, tutto quanto può
ragionevolmente essere oggetto di una disciplina territorialmente differenziata[10]. Forse, in quel caso, la Corte – se non
avesse scelto un po’ frettolosamente di ripararsi sotto l’ampio ombrello dell’
”ordinamento civile” – avrebbe potuto constatare senza troppi problemi come
l’esclusione (totale) delle Regioni dalla definizione dei piani di emersione
del lavoro sommerso poteva comportare, forse, una violazione di quel principio
di “leale collaborazione” che dovrebbe ispirare la normazione di quei settori
su cui Stato e Regioni hanno, entrambi, titoli di competenza legislativa([11]).
Nel lavoro privato, le Regioni sembrano quasi totalmente
fuori dalla disciplina del settore; e se non v’è dubbio che il contratto di
lavoro è fortemente permeato da esigenze di uniformità ed eguaglianza che ne
giustificano la quasi integrale nazionalità, l’uso che la Corte costituzionale
ha fatto dell’ordinamento civile [che, come si è scritto altrove[12], sembra dotato di una “forza
fagocitratice” rispetto al diritto del lavoro] sembra azzerare o quasi quella
competenza che pure l’art. 117 Cost. assegna (anche) alle Regioni, laddove
identifica la materia “tutela e sicurezza del lavoro” e la colloca tra le
materie ripartite in modo concorrente tra Stato e Regioni.
5. Qualche eccezione, nella giurisprudenza costituzionale,
c’è stata, ma non ha avuto la forza di produrre nuovi orientamenti: in una
norma della finanziaria 2004 lo Stato destinava fondi per incentivare la
partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, anche attraverso la
costituzione di appositi organi dotati di poteri decisionali; una commistione
tra elementi che attengono alla sola organizzazione delle relazioni industriali
tra datori di lavoro e lavoratori (“tutela e sicurezza del lavoro”) ed elementi
che, invece, incidono sulla struttura delle imprese e delle società
(“ordinamento civile”[13]), tale da rendere illegittima la
(totale) esclusione delle Regioni, con conseguente illegittimità della
normativa impugnata.
In quel caso, l’impossibilità di ritenere “prevalente” uno
dei due titoli di competenza coinvolti ha indotto la Corte([14])
a rimettere al legislatore il compito di individuare meccanismi e/o criteri
tali da garantire un coinvolgimento anche delle Regioni in quel contesto,
proprio perché le differenze territoriali – di cui la Regione è naturale
portatrice- possono fornire utili elementi al migliore perseguimento
dell’obiettivo di fondo perseguito dalla legge (quello di coinvolgere di più i
lavoratori nella gestione delle imprese).
Esistono dunque zone del diritto del lavoro che nulla hanno
(più) a che fare col diritto privato, e che non rispondono neppure a stringenti
logiche di eguaglianza ed uniformità: al contrario, parti di esso possono dirsi
esposte ad una differenziazione plasmata su esigenze e peculiarità regionali,
che non offende l’eguaglianza, ma che, anzi, aiuta una migliore efficienza
delle regole in settori – come quello della sicurezza ([15]),
della formazione professionale ([16]), dell’emersione del lavoro sommerso,
dell’organizzazione lavorativa dei pubblici uffici regionali([17]) – nei quali l’autonomia regionale può
esplicarsi senza dare luogo a fratture irragionevoli, ma attuando, nel rispetto
dei principi generali desumibili dal diritto statale, competenze concorrenti di
cui le Regioni sono titolari. E nell’esercizio delle quali, peraltro, possono
non mancare riflessi privatistici che non superano il limite costituzionale: la
stessa Corte, d’altra parte, ha ammesso che non invade l’”ordinamento civile”
una norma di una legge regionale che dispone la caducazione di un contratto di
lavoro per il venire meno del provvedimento che conferiva all’interessato un
incarico dirigenziale, perché così disponendo la norma regionale si è limitata
“a rinviare al principio per cui gli effetti di un contratto cessano quando ne
venga meno la causa”([18]). Anche in questo ambito, pure
delicato, l’autonomia regionale necessita di soluzioni flessibili, più
rispettose dell’assetto costituzionale, e scevre da pregiudizi: che distinguano
il core egalitario del diritto del lavoro – appartenente allo Stato, e
all’”ordinamento civile”([19]) – da quelle parti che, nel diritto del
lavoro, possono senza traumi essere esposte anche a discipline regionali: fermo
restando, comunque, il rispetto dei principi generali espressi dalle leggi
statali [ma veri principi generali; non gabbie generalissime nelle quali, sostanzialmente,
tutta la legislazione statale sia considerata “di principio”!([20])], e la determinazione riservata allo
Stato dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali” [art. 117, comma 2, lett. m) cost.], che, in questo settore, può
giocare un ruolo di particolare rilievo.
5. Sul lavoro pubblico regionale, l’art. 117 Cost. non
fornisce indicazioni certe, anche se, complessivamente, le Regioni sembrano
godere, in quest’area, di qualche potere in più. La ragione è che, in questo
settore, le Regioni possono vantare un forte titolo di competenza che coincide
con la materia “ordinamento e organizzazione amministrativa delle Regioni e
degli enti locali”; essa non compare più nel nuovo art. 117 Cost. e, dunque,
dovrebbe ritenersi appartenente all’esclusiva e residuale competenza regionale
[anche perché figura invece tra quelle di esclusiva competenza statuale sotto
la veste di “ordinamento e dell’organizzazione amministrativa dello Stato e
degli enti pubblici nazionali”: art. 117, comma 2, lett. g)([21])].
Da ciò dovrebbe dedursi che una Regione può dettare regole
sul lavoro pubblico regionale nella misura in cui dette regole hanno a che fare
con la propria organizzazione amministrativa, dovendosi arrestare di fronte
alla disciplina del rapporto contrattuale, rimessa alla competenza esclusiva
dello Stato sull’ordinamento civile. Le norme (che possono qualificarsi come)
organizzative ammettono la differenziazione; quelle del rapporto contrattuale
di lavoro, invece, non la tollerano [perché l’eguaglianza, in questo diverso
ambito, implica quell’uniformità garantita da sola dalla legislazione statale,
identica su tutto il territorio nazionale].
Distinguere la norma (regionale) sull’organizzazione da
quella (che ha anche riflessi) sul contratto (e sui suoi obblighi, contenuti,
cause di risoluzione etc.) non è sempre facile tant’è che, anche in
quest’ambito, la Consulta oscilla tra chiusure (più frequenti) ed aperture (più
rare).
In una decisione del 2004 ([22])
– avente ad oggetto una disposizione dello Statuto della Calabria che rimette
alla legislazione regionale la disciplina della contrattazione con i propri
dirigenti – la Consulta salva la norma statutaria contestata, rilevando che
essa manterrebbe la sua validità solo relativamente agli aspetti di quel
rapporto di competenza regionale, e non oltre, salvo lasciare nel vago
l’individuazione di questi ambiti aperti alla disciplina regionale. In altra
occasione([23]), la Corte ha ammesso che la Regione
possa disciplinare alcuni profili concernenti la responsabilità amministrativa
dei propri dipendenti, nel senso di individuare gli obblighi dalla cui
violazione essa derivi, ma non può disciplinarne il regime, che rimane di
competenza del diritto nazionale.
Gli spazi sembrano ampliarsi sul versante del c.d. spoils-system: le Regioni possono
disciplinarlo, perché la relativa normativa non sembra interferire con
l’ordinamento civile ([24]): in una decisione già menzionata poco
sopra, la Corte salva norme della Calabria e dell’Abruzzo perché le riconduce integralmente
alla materia residuale d’esclusiva competenza regionale sull’organizzazione
amministrativa della Regione, che reputa comprensiva dell’incidenza della
stessa sulla disciplina del relativo personale. Ed ammette, come già ricordato
sopra, che questa disciplina – nella misura in cui consente la revoca dei
provvedimenti di nomina dei dirigenti - possa determinare il venire meno del
contratto di lavoro, poiché si limita “a rinviare al principio per cui gli
effetti di un contratto cessano quando ne venga meno la causa”. Le Regioni
possono dunque regolare i provvedimenti amministrativi che servono a conferire
incarichi legati all’organizzazione dell’ente (emissione, forma, revoca,
condizioni), ma debbono rimettere gli effetti di questi provvedimenti sui
singoli rapporti contrattuali di lavoro all’operare del diritto privato
generale (e nazionale).
Se ne può trarre una conclusione finale, che la sentenza
della Corte costituzionale sopra riportata sembra a pieno titolo confermare:
tutto ciò che appartiene alla sfera “organizzativa” del proprio ente può
rientrare nella competenza esclusiva regionale, con annessi possibili effetti
privatistici indiretti (e, comunque, rigorosamente rimessi al diritto nazionale
e alle sue regole); ma se, invece, una Regione intende disciplinare
direttamente il contratto di lavoro dei propri dipendenti nei suoi aspetti
tipicamente privatistici – o, comunque, legati ad una disciplina statale
uniforme su tutto il territorio nazionale - rischia di invadere la competenza
esclusiva dello Stato, producendo una normativa inevitabilmente destinata a non
passare il vaglio di costituzionalità.
Di certezze, tuttavia, non ve ne sono molte: perché è
inevitabile che disciplinando l’organizzazione del (proprio) lavoro pubblico una
Regione si possa imbattere con estrema facilità in aspetti direttamente o
indirettamente oggetto della disciplina privatistica, considerato che il lavoro
presso le pubbliche amministrazioni, Regioni comprese, è stato investito da
quella “privatizzazione” avviata negli anni novanta, che, in buona sostanza, ha
comportato la generale estensione a questo settore delle medesime regole
vigenti per i rapporti di lavoro privati.
Se, dunque, il diritto privato permea in modo così profondo
anche il lavoro pubblico, le Regioni possono detenere su di esso spazi di
regolazione molto esigui, se è vero, come si legge in una decisione della
Consulta, che “i princípi fissati dalla legge statale in materia costituiscono
tipici limiti di diritto privato, fondati sull’esigenza, connessa al precetto
costituzionale di eguaglianza, di garantire l’uniformità nel territorio
nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti fra
privati e, come tali, si impongono anche alle Regioni a statuto speciale”([25]).
La “privatizzazione” del lavoro pubblico funge quindi da
principio generale della legislazione statale, cui le Regioni non sono in grado
di apportare né deroghe né adattamenti.
Ne nasce un interrogativo: cosa resta, allora, di quella
competenza esclusiva che pure è riconosciuta alle Regioni sulla disciplina
della propria organizzazione? Forse qualcosa, ma davvero di poco significativo
se si pensa che neppure le Regioni a statuto speciale possono sottrarsi
all’operatività di questo principio, o apportarvi adattamenti, deroghe o
modifiche, anche nei casi in cui i loro Statuti speciali offrano ulteriori
titoli di competenza su questo settore ([26]).
La Valle d’Aosta, dunque, non poteva in nessun modo dettare
regole che sotto qualunque forma incidessero sui diritti e sui doveri delle
parti del rapporto di lavoro pubblico, che non possono essere oggetto di
differenziazioni regionali[27] e che, anche dopo la riforma del Titolo
V ([28]), debbono rimanere d’esclusiva
pertinenza delle fonti statali.
* Per gentile concessione della
Rivista Lavoro nelle pubbliche
amministrazioni.
([1])
Sul problema del diritto privato regionale possono vedersi: benedetti, Il diritto privato delle
Regioni, Bologna, Il Mulino, 2008, in particolare, per quanto attiene al
diritto del lavoro di fonte regionale, 259 ss.; roppo,
Diritto dei contratti, ordinamento civile, competenza legislativa
delle Regioni. Un lavoro complicato per la Corte costituzionale, in CG,
2005, 1301; roppo, Diritto
privato regionale?, in RDP, 2003, 11; alpa, Il limite del diritto privato alla potestà
normativa regionale, in CI, 2002, 597; vitucci, Proprietà e obbligazioni: il catalogo delle
fonti dall’Europa al diritto privato regionale, in EDP, 2002, 747; giova, Ordinamento civile e diritto
privato regionale, Napoli, Esi, 2008. Tra i pubblicisti: lamarque, Regioni e ordinamento
civile, Padova, Cedam, 2005. Tra i comparatisti barela, Diritto privato regionale, foral ed
autonomico. Verso un diritto europeo della persona, Torino, Giappichelli,
2009 e torino (a cura di), Il diritto
privato regionale in Spagna, Padova, Cedam, 2008.
([2])
Sull’evoluzione del diritto del lavoro verso la «autosufficienza» si può
rinviare, per tutti, al recente contributo di del
punta, Il diritto del lavoro fra
due secoli: dal protocollo Giugni al Decreto Biagi, in ichino (a cura di), Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, Milano, Giuffrè,
2008, 253 ss.
([3])
Il fatto che l’art. 117, comma 2, lett. l) cost. attribuisca il diritto privato
alla competenza esclusiva dello Stato non significa che le Regioni siano
totalmente escluse dal produrre norme aventi contenuti direttamente o
indirettamente privatistici. Sul punto, in dottrina, si rinvia ad Benedetti , Il diritto privato delle
Regioni, cit.; in giurisprudenza si è recentemente assistito da alcune
significative aperture all’autonomia legislativa regionale sul versante del
diritto privato: Corte
cost., 4 dicembre 2009, n. 318 (con nota di Benedetti
, Atti
soggetti a trascrizione, parcheggi e potestà legislativa delle Regioni;
una sintesi può trovarsi in Annuario del contratto 2009, 211-213) e Corte cost., 10
maggio 2010, n. 178 (che salva una legge veneta in materia di conciliazione
non obbligatoria nell’ambito della sanità pubblica).
([4])
Sulla costruzione della «inderogabilità» come caratteristica genetica del
diritto del lavoro vedasi voza, L’inderogabilità come attributo genetico del
diritto del lavoro. Profili storici, in RGL,
2006, 229 ss.
([5])
Di (ri)cucitura del diritto del lavoro con l’ordinamento civile parla
efficacemente nogler, La tutela del lavoro, in RE, 2007, 77.
([6])
Cfr. sul punto t. treu,
Diritto del lavoro e federalismo, in aa.vv., L’ordinamento civile nel
nuovo sistema delle fonti legislative, Milano, Giuffrè, 2003, 40-41
e 52 ss.
([8])
Corte cost., 28
gennaio 2005, n. 50, in FI, 2006,
2, 365. Per un’analisi di dettaglio dei contenuti della decisione si rinvia a gianfrancesco, La ripartizione di competenze tra Stato e Regioni in materia di tutela e
sicurezza del lavoro, in RE,
2005, 513, in partic. 525-526
([9])
Corte cost., 16
giugno 2005, n. 234, in RE, 2005,
1266, con nota di benedetti , «Ordinamento
civile» e «tutela e sicurezza del lavoratore»: un (apparente) "scontro”
tra materie?
[10]
Aperturista sembra essere treu, Diritto
del lavoro e federalismo, in aa.vv.,
L’ordinamento civile nel nuovo sistema delle fonti legislative, cit., 35
ss. Secondo di stasi, Il
diritto del lavoro nelle Regioni a statuto ordinario, in ILLeJ, vol.
VI, n. 2, 2004, https://www.labourlawjournal.it,
ISSN 1561-8048, le Regioni possono dettare norme anche sul rapporto di lavoro,
nel rispetto delle regole base dettate dalla legislazione nazionale (anche in
relazione alla competenza statale sulla determinazione dei livelli minimi
essenziali dei diritti civili e sociali).
([11])
Proprio il principio di “leale collaborazione” viene invocato per risolvere il nodo
di una legislazione concorrente che non sembra poter decollare: in questa
prospettiva, ma relativamente alla sicurezza sul lavoro, legata anche al
diritto alla salute, vedasi tullini,
Le competenze legislative in materia di sicurezza sul lavoro: i nodi
irrisolti, in Le istituzioni del federalismo, suppl. 1.2009, 15 ss.
[12] benedetti
, Il diritto privato delle Regioni, cit., 259.
([13])
Non mancano dubbi sulla riconducibilità al diritto privato di norme che
incentivano solo la sperimentazione di nuove forme di collaborazione tra datori
di lavoro e lavoratori nella gestione delle imprese (vedasi sul punto roppo, Diritto dei contratti,
ordinamento civile, competenza legislativa delle Regioni. Un lavoro complicato
per la Corte costituzionale, cit., 1312).
([15])
In materia di sicurezza sul lavoro natullo,
Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro,
in RGL, 2007, 71 ss.; l’Autore, giustamente, riconosce alle Regioni un
ruolo di integrazione dell’azione statale, sia sul piano normativo che su
quello amministrativo e conclude: «Ciò implica (…) che in un’ottica di leale e
proficua collaborazione con lo Stato e le amministrazioni centrali, a livello
regionale si punti anzitutto, nella logica della sussidiarietà, a plasmare gli
strumenti normativi e amministrativi statali per adattarli alle specifiche
esigenze poste dalle differenziate caratteristiche dei territori e dei contesti
economico-produttivi (…)», ivi, 72.
([16])
Sull’apprendistato e sulla formazione professionale si veda de salvia, La legislazione regionale sull’apprendistato professionalizzante ancora
al vaglio della Corte costituzionale, in RGL, 2007, 388. La Consulta ammette, in questo settore, che le
Regioni possano concorrere a determinare le regole della formazione c.d.
«esterna», appartenendo invece quella «interna» all’area dell’«ordinamento
civile»: per tutte Corte cost., 2 febbraio 2007, n. 21, in RGL, 2007, 383. Sugli spazi regionali in materia di formazione
professionale si segnala malzani, Il lavoro nel Titolo V della Costituzione
tra essere e dover essere, in DL,
2005, II, 59, in partic. 76 ss. Sull’apprendistato, una legge Regione Molise
(n. 3/2008) reca una disciplina di dettaglio, comprendente anche aspetti
relativi al contratti di apprendistato, che difficilmente potrebbe passare il
vaglio della Corte costituzionale e che, effettivamente, contiene norme sul
contratto di apprendistato che sembrano troppo sbilanciate verso l’ordinamento
civile.
([17])
Su cui vedasi mastinu, Il lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni regionali nel Titolo V della Costituzione, in RGL, 2007, 371 ss.
([19])
Che, dunque, non può assorbire l’intero diritto del lavoro, come sosteneva
subito dopo l’entrata in vigore del nuovo Titolo V: ballestrero, Differenze
e principio di eguaglianza, in LD,
2001, 424 ss.
([20])
Da condividere l’approccio di treu,
Diritto del lavoro e federalismo, in aa.vv.,
L’ordinamento civile nel nuovo sistema delle fonti legislative, cit.,
58, ad avviso del quale i principi generali vanno individuati in quei «principi
effettivamente irrinunciabili per l’unità dell’ordinamento statale, cioè essenzialmente
a quelli di rilevanza costituzionale».
([21])
Sui problemi sollevati da questa materia può vedersi Lamarque, Regioni e ordinamento civile, cit., 312 ss.
([24])
Corte cost., 16
giugno 2006, n. 233, su cui vedasi la nota di Salomone, Spoils-System regionale e riparto di
competenza: via libera dalla Consulta, in questa Rivista, 2006, 692
ss.
([26])
La Valle d’Aosta, per Statuto, ha competenza anche sul “regime giuridico” dei
propri dipendenti (art. 2, lett. a).
([27])
Sulla “riforma Brunetta” del lavoro pubblico e sullo scarso ruolo in essa
attribuito alle Regioni e agli enti locali si può vedere Salomone, Il lavoro pubblico
regionale e locale nella “riforma Brunetta”, in questa Rivista,
2009, 1 ss.
([28])
La riforma mostra segni di crisi proprio con riferimento all’elenco delle
“materie” di cui all’art. 117 Cost.: sul punto si possono vedere le interessanti
ed acute riflessioni di Bin R., La
legge regionale, tra “ri-materializzazione” delle materie, sussidiarietà e
resurrezione dell’interesse nazionale, in Le istituzioni del federalismo,
2009, 3-4, 439 ss.