Con la sent. n. 135 del 2024, la Corte costituzionale dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte, dopo una breve ricognizione dello stato della sua giurisprudenza sui principi coinvolti dalle questioni medesime (attinenti al cd. suicidio assistito), ritenuti tutti, di sommo rilievo nell’ordinamento costituzionale italiano, rimarca come si chieda ad essa di estendere ulteriormente l’area della liceità delle condotte di aiuto al suicidio con riferimento ai pazienti rispetto ai quali sussistano (a) (patologia irreversibile), (b) (sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili) e (d) (capacità di prendere decisioni libere e consapevoli), ma non (c), e cioè l’essere mantenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, in quanto la persistente operatività del divieto penalmente sanzionato in queste ipotesi determinerebbe la violazione: dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento fra situazioni sostanzialmente identiche; degli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost., sotto il profilo della eccessiva compressione della libertà di autodeterminazione del paziente; del principio della dignità umana; dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione al diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, nonché al divieto di discriminazione, di cui all’art. 14 CEDU, nel godimento del medesimo diritto alla vita privata.
La risposta della Corte è di segno negativo innanzi tutto perché essa stessa a Corte non ha riconosciuto un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile, fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile, ma ha soltanto ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che – versando in quelle condizioni, e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali – già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 in conformità all’art. 32, secondo comma, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza, laddove simile ratio non si estenderebbe a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure. In secondo luogo, non sarebbe condivisibile l’assunto per cui il requisito oggetto di censura condizionerebbe l’esercizio alla libertà di autodeterminazione nella scelta delle terapie «in modo perverso», inducendo il malato ad accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale, magari anche fortemente invasivi, che altrimenti avrebbe rifiutato, al solo fine di creare le condizioni per l’accesso al suicidio assistito, in quanto il diritto fondamentale scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost., di fronte al quale è stato ritenuto non giustificabile sul piano costituzionale un divieto assoluto di aiuto al suicidio, comprende anche – prima ancora del diritto a interrompere i trattamenti sanitari in corso, benché necessari alla sopravvivenza – quello di rifiutare ab origine l’attivazione dei trattamenti stessi. Non c’è dubbio, secondo la Corte, che i principi affermati nella sentenza n. 242 del 2019 valgano sia nella situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può pretendere l’interruzione, sia in quella del paziente che, per sopravvivere, necessiti, in base a valutazione medica, dell’attivazione di simili trattamenti, che però può rifiutare. In terzo luogo, non potrebbe affermarsi che il divieto penalmente sanzionato di cui all’art. 580 cod. pen. (di prestare assistenza a pazienti che chiedano di morire in presenza di tutte le condizioni indicate nella sentenza n. 242 del 2019, salva la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale ) costringa il paziente a vivere una vita, oggettivamente, “non degna” di essere vissuta. La Corte tiene, in proposito, a sottolineare di non essere affatto insensibile alla nozione “soggettiva” di dignità, come dimostrerebbero i passaggi dell’ordinanza n. 207 del 2018 in cui proprio alla valutazione soggettiva del paziente sulla “dignità” del proprio vivere e del proprio morire si fa inequivoco riferimento. Rispetto, tuttavia, a questa nozione di dignità, in quanto finisce per coincidere con quella di autodeterminazione della persona (per cui ciascun individuo dovrebbe poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, incluse quelle che concernono la propria morte) resta necessaria la sottoposizione a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana, nell’operare il quale il legislatore deve poter disporre di un significativo margine di apprezzamento. Né, sempre secondo la Consulta potrebbe essere ravvisato un contrasto con il divieto di discriminazione ai sensi dell’art. 14 CEDU, poiché non può infatti ritenersi irragionevole la limitazione della liceità dell’aiuto al suicidio ai soli pazienti che abbiano già la possibilità, in forza del diritto costituzionale, di porre fine alla loro esistenza rifiutando i trattamenti di sostegno vitale. La Corte non ravvisa, del resto, ragioni per discostarsi, nella lettura dell’art. 8 CEDU, dalla Corte di Strasburgo per cui spetta ai singoli Stati valutare le vaste implicazioni sociali e i rischi di abuso e di errore che ogni legalizzazione delle procedure di suicidio medicalmente assistito inevitabilmente comporta.
Conclusivamente, la Corte, con riguardo, ai «trattamenti di sostegno vitale» menzionati nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, sottolinea come essi debbano essere in concreto necessari ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo; richiama la necessità del puntuale rispetto delle condizioni procedurali stabilite dalla sentenza n. 242 del 2019, essenziali per prevenire il pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili che l’aveva indotta, nell’ordinanza n. 207 del 2018, a sollecitare prioritariamente l’intervento del legislatore; ribadisce l’auspicio, già formulato nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, affinché il legislatore e il servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi fissati da quelle pronunce, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi richiamati nella pronuncia; e conferma l’appello, già contenuto nella sentenza n. 242 del 2019 affinché, sull’intero territorio nazionale, sia garantito a tutti i pazienti, inclusi quelli che si trovano nelle condizioni per essere ammessi alla procedura di suicidio assistito, una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza, in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la legge n. 38 del 2010 di porre il malato nella in condizione di vivere con intensità e in modo dignitoso la parte restante della propria esistenza.