Consulta OnLine - Corte d'appello di Torino - Sentenza 14 gennaio 1950

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Appello Torino - Sentenza 14 gennaio 1950

 

Pres. Peretti-Griva; Est. Casoli; Cotonificio Widemann (avv. Zola) - Istituto nazionale assicurazione malattie (avv. Accossato)

 

(Omissis) – L’impugnata sentenza ha fatto, ad avviso della Corte, buon governo della legge ed ha esattamente determinato lo stato attuale della legislazione in rapporto all’assistenza di malattia ai lavoratori.

L’assicurazione contro le malattie dei lavoratori e delle loro famiglie, resa obbligatoria e affidata in regime di esclusività all’I.N.A.M. dalla legge 11 gennaio 1943, num.138, rappresenta un ulteriore passo sulla via della previdenza e dell’assistenza sociale che l’Italia, adeguandosi all’esempio delle Nazioni socialmente più progredite, ha iniziata a percorrere fin da tempi ben anteriori al regime fascista e le cui tappe precedenti hanno nome assicurazione per gli infortuni sul lavoro, per le malattie professionali, per la invalidità e vecchiaia, per la disoccupazione, per la tubercolosi, per la nuzialità e la natalità. Essa risponde dunque ad una necessità sentita da tutte le civili società indipendentemente dal loro ordinamento e persegue scopi di elevazione sociale che sono ugualmente nobili e degni di tutela in qualsiasi clima politico. Da ciò deriva anzitutto che la materia in cui la detta legge incide non ha radice nell’ordinamento fascista, per essere essa rispondente ad una esigenza sociale per mera coincidenza cronologica divenuta attuale e maturatasi in concrete provvidenze al tempo di quel deprecato regime. Onde nessuna rilevanza possono, in senso contrario, spiegare i generici accenni contenuti nella legge alle dichiarazioni XXVII e XXVIII della Carta del Lavoro, nelle quali, in via meramente programmatica e teorica, è contenuta appunto l’espressione di quel generico e astratto anelito di progresso nei campi delle previdenza, dell’assistenza e comunque dell’elevazione dei lavoratori in cui sopra si è detto. Questa prima osservazione sembra già consigliare una particolare cautela nella indagine sulla pretesa abrogazione implicita o per incompatibilità ex art. 15 delle Disp. prel. al codice civile in conseguenza della distruzione del sistema corporativo e del sindacalismo fascista (art. 43 D.L. 23 ottobre 1944, n. 369), dal momento che lo scopo perseguito dal legislatore fascista non è in funzione di quel sistema, ma, si ripete, risponde ad una necessità sociale indipendente da esso ed immanente, della cui tutela la stessa Costituzione della Repubblica italiana ha preso solenne impegno.

D’altra parte è evidente che il medesimo legislatore fascista, nell’attuazione pratica dell’assistenza di malattia ai lavoratori, dovesse necessariamente tener conto dell’organizzazione ch’esso aveva — in precedenza e indipendenteménte dalla nuova legge — dato al lavoro, e si servisse degli organi e dei mezzi che quella gli offriva. Il richiamo adunque contenuto nella legge n.138 del 1943 a organismi ed istituti dell’ordinamento corporativo-sindacale fascista ha scopi puramente strumentali volti alla pratica realizzazione delle provvidenze adottate a favore dei lavoratori, il che riesce evidente quando si consideri che la legge stessa, non ostante i detti richiami, non incide nell’organizzazione corporativa, non è diretta alla sua disciplina o completamento e non deriva da quella il proprio contenuto. Né a diverso avviso può indurre l’espressione usata dall’art. 4 della legge sotto il riflesso che, essendo presupposto basilare dell’ordinamento sindacale corporativo la rappresentanza obbligatoria di tutti i lavoratori, l’obbligo della loro iscrizione all’I.N.A.M. è conseguenza di tale rappresentanza, sicché l’ordine corporativo assurge a conditio iuris della nuova disciplina giuridica. In realtà così non è, se non ci sì ferma alla espressione delle parole. Nel proclamare l’obbligatorietà dell’assistenza di malattia e quindi l’obbligatorietà della iscrizione dei lavoratori, a cura dei datori di lavoro, all’ente all’uopo istituito, - il legislatore doveva preoccuparsi di determinare, nella infinita varietà delle prestazioni lavorative, a quali lavoratori in concreto la nuova provvidenza si applicasse. Ora, appunto al fine esclusivo e limitato di determinare i destinatari del beneficio fu fatto riferimento all’ordinamento corporativo sindacale, di guisa che, con l’indicazione delle varie associazioni sindacali in cui i lavoratori erano inquadrati, divenivano immediatamente identificabili i singoli lavoratori nei cui confronti la legge doveva trovare applicazione.

Il richiamo adunque contenuto nel citato art. 4 è diretto soltanto all’individuazione delle varie categorie dei beneficiati ed ha semplice contenuto di tecnica legislativa designando con la locuzione del tempo i lavoratori dell’industria, del commercio, ecc. ai quali uti singuli si riferiva la legge. Ne deriva che l’obbligo dell’iscrizione all’I.N.A.M., e cioè della assicurazione, non è conseguenza della rappresentanza obbligatoria dei lavoratori, perché invece tale obbligo deriva dalla qualità personale dei lavoratori medesimi, che in concreto poteva senz’altro derivarsi dall’appartenenza di essi alle varie categorie professionali o di mestiere. È vero che altre leggi emanate dal medesimo governo fascista (17 agosto 1935, n. 1761 - 17 ottobre 1935, n. 1827), regolando la similare materia delle assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro e contro l’invalidità e vecchiaia, non fanno alcun cenno alle rappresentanze dei lavoratori, ma indicano nominativamente quelli di essi che sono soggetti all’assicurazione, tuttavia questa diversità non è in funzione di una intima connessione dell’assicurazione malattia al sistema corporativo, ma discende oltreché — come si disse — da una, presunta migliore tecnica legislativa, da ragioni di fatto insuperabili dal momento che le assicurazioni contro l’invalidità e vecchiaia e contro gli infortuni si rivolgevano rispettivamente anche a categorie di lavoratori non inquadrati sindacalmente, mentre non potevano rimanere esclusi lavoratori inquadrati, onde era imprescindibile il richiamo nominativo e alle categorie di lavoratori e alle singole mansioni esercitate da essi indipendentemente dalla relativa organizzazione sindacale. È quindi giocoforza concludere che l’assicurazione obbligatoria contro le malattie non presuppone il sindacato unico, non è in funzione dell’appartenenza dei lavoratori ad esso, né rappresenta una espressione dell’autoritarismo e del monopolio corporativo fascista, anche per contingenti ragioni di uniformità di sistema in relazione alle assicurazioni già esistenti (I.N.F.A.I.L. - Istituto di previdenza sociale) e per garantire una uniformità di trattamento ai beneficiati, il servizio della nuova assicurazione fu affidato, in regime di esclusività, ad un nuovo ente I.N.A.M. appositamente costituito.

Le leggi pertanto che hanno travolto il sistema corporativo fascista non hanno implicitamente abrogato la legge n. 138 del 1943.

E ciò tanto più deve dirsi se si considerano le successive provvidenze emanate dal Governo della Repubblica italiana e tutte fondate sul presupposto della sussistenza e dell’attuale efficacia della legge in questione. È vero che se la legge sia per risultare abrogata in virtù dell’art.15 Disp. prel. al codice civile, successive norme modificative di articoli della legge abrogata non potrebbero portare al taumaturgico risultato di far rivivere la legge morta. Ma, in contrario, si osserva che il richiamo alla legislazione successiva ha l’unico scopo di confortare le conclusioni dell’indagine sopra svolta, in quanto pone in evidenza che i riferimenti all’organizzazione fascista contenuti nella legge in esame sono soltanto estrinseci e non attengono alla sua essenza, una volta la legge stessa, soppressa quell’organizzazione, è stata riconosciuta tale da adempiere ugualmente al suo sostanziale contenuto. Basti, a tal proposito, accennare al D. L. Lt, 6 dicembre 1944, n. 505, che richiama la legge 138 del 1943 e determina che i lavoratori alle dipendenze delle Forze alleate hanno diritto — fra l’altro – alla assicurazione obbligatoria per le malattie in base alle disposizioni vigenti; ai D.L. n. 142, 212 e 213 del 1946 che tutti - si riferiscono alla legge istitutiva del 1943 e portano, rispettivamente, esclusione dei – lavoratori dal peso dei contributi, provvidenze particolari in ordine alle tabelle delle prestazioni in danaro e alle prestazioni sanitarie a carico dell’I.N.A.M.; ai D.L. 13 maggio 1947, n. 435 e 31 ottobre 1947, n. 1304, che richiamano la legge medesima, mutano la denominazione dell’ente, espungono le terminologie fasciste, e, dopo aver modificato gli organi dell’ente stesso in relazione alla scomparsa di quelle gerarchie, ne regolano espressamente le attribuzioni. Ond’è che potrebbe affermarsi non solo non essersi verificata l’abrogazione implicita della legge in contesa, ma anzi, essere stata essa espressamente ricevuta nel nuovo ordinamento giuridico dello Stato. Né ha maggiore fondamento, ad avviso del collegio, la tesi della incostituzionalità sotto il riflesso che la legge in esame attribuisce all’ I.N.A.M. il monopolio delle assicurazioni contro le malattie dei lavoratori, mentre l’art. 38 della costituzione, nella sua ultima parte, dispone che « l’assistenza  privata è libera ». In verità quest’ultima proposizione fa parte di un complesso di precetti a carattere programmatico che sanciscono il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale del cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi, il diritto dei lavoratori a che siano provveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia, disoccupazione involontaria, il diritto degli inabili e dei minorati all’educazione e all’avviamento professionale. Lo stesso art. 38 dispone inoltre che ai còmpiti come sopra indicati e  previsti «provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato». È quindi evidente che il principio della libertà dell’assistenza va coordinato con posizioni che precedono, come quello che si riferisce alla libertà che può coesistere pur con la disciplina che lo Stato ritenga di dare a quelle determinate branche dell’assistenza, e che non ne esauriscono certo il campo di azione. Non esiste dunque una incompatibilità contrattuale fra l’art. 38 della Costituzione e la legge di cui si contende.  Ma essenzialmente va rilevato che il sindacato sulla costituzionalità delle leggi anteriori alla costituzione deve essere esercitato ponendo quelle in relazione ai principi suscettivi di immediata applicazione, non già a quelli semplicemente precettivi che necessitino, per la loro concreta attuazione, di una successiva integrazione. Ora, non solo non può essere contestato il carattere programmatico della proclamata libertà della assistenza privata, ma è altresì evidente che tale principio, per essere tradotto in realtà e armonizzato col pari dovere di intervento dello Stato a provvedere su specifiche branche della stessa materia, dovere che attualmente si attua con istituti appositi, ha d’uopo di essere integrato con ulteriori norme che ne disciplinino la portata e la pratica attuazione. Trattasi concludendo, di una cosiddetta norma costitutiva ad efficacia differita, la quale, per la sua incompiutezza, non è suscettiva di immediata attuazione e che pertanto cede alla legge anteriore, che non ha potere dl abrogare.

Con ciò resta anche respinta la subordinata dell’appellante, il quale vorrebbe, pur nella ammessa sopravvivenza della legge 138 del 1943, che fosse quanto meno esclusa da essa la obbligatorietà dell’assicurazione di tutti i lavoratori, a cura dei rispettivi datorti di lavoro, presso l’I.N.A.M, e cioè il monopolio dl questo istituto, a cui sarebbero liberi di rivolgersi quelli soltanto che intendono servirsi di esso. Al quale proposito basti accennare da un lato che il vagheggiato smembramento della legge riesce

impossibile per l’unitarietà del principio che la sostanzia — garanzia di assicurazione ai lavoratori e garanzia di pari trattamento assistenziale — dall’altro lato che la legge indicata è, per quanto si è detto, rimasta viva ed operante nella sua totalità ed è còmpito del legislatore, non dell’Autorità giudiziaria, il dettare quelle ulteriori norme che, dirette all’integrazione e alla pratica attuazione dei principi programmatici della costituzione, rivedano il contenuto della legge in esame per armonizzarlo con la proclamata libertà dell’assistenza privata. Ond’è che i rilievi circa la capacità dell’ I.N.A.M. ad assolvere ai suoi compiti e circa eventuali diversi sistemi che, facendo tesoro dell’esperienza attuale, possano meglio corrispondere all’interesse degli assistiti, esulano dall’oggetto della controversia e potranno soltanto essere materia di considerazione da parte del legislatore al fine dei suoi futuri provvedimenti.

La sentenza impugnata va pertanto confermata. –

(Omissis)