SENTENZA N. 212
ANNO 2024
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da:
Presidente: Giovanni AMOROSO
Giudici: Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 635, secondo comma, del codice penale, promosso dal Tribunale ordinario di Firenze, prima sezione penale, in composizione monocratica, nel procedimento penale a carico di S. O., con ordinanza del 15 gennaio 2024, iscritta al n. 16 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2024.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 novembre 2024 il Giudice relatore Angelo Buscema;
deliberato nella camera di consiglio del 25 novembre 2024.
Ritenuto in fatto
1.– Il Tribunale ordinario di Firenze, prima sezione penale, in composizione monocratica, con ordinanza del 15 gennaio 2024, iscritta al n. 16 del registro ordinanze 2024, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 635, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui, attraverso il richiamo al primo comma dello stesso articolo, prevede la pena della «reclusione da sei mesi a tre anni» anziché quella della «reclusione da sei mesi a due anni», come stabilito per il reato di danneggiamento seguito da pericolo di incendio di cui all’art. 424, primo comma, cod. pen.
1.1.– Riferisce il rimettente che l’imputato, all’epoca detenuto presso la Casa circondariale di Sollicciano a titolo di custodia cautelare, mentre si trovava all’interno della propria cella, appiccava il fuoco ad alcuni indumenti (maglietta, pantalone, scarpe) e li gettava nel corridoio della sezione attraverso le sbarre che delimitavano la cella; gli operanti della polizia penitenziaria spegnevano subito le fiamme utilizzando un estintore. L’imputato inseriva poi un lenzuolo attraverso lo spioncino del bagno e dava fuoco pure ad esso; anche in tal caso la polizia penitenziaria spegneva le fiamme, utilizzando un idrante. In tutte le occasioni le fiamme, di dimensioni modeste, venivano spente nell’arco di pochi secondi.
Gli indumenti indicati erano di proprietà dello stesso imputato, mentre il lenzuolo era di proprietà dell’Amministrazione penitenziaria.
1.2.– L’imputato era stato tratto quindi a giudizio per rispondere del reato di danneggiamento seguito da pericolo di incendio, di cui all’art. 424, primo comma, cod. pen. Secondo il rimettente il reato contestato non sarebbe tuttavia configurabile. Si dovrebbe escludere, anzitutto, che l’imputato volesse cagionare un incendio, ossia generare fiamme che, per le loro caratteristiche e violenza, creassero un effettivo pericolo per la pubblica incolumità, essendo animato piuttosto dall’intento di danneggiare le cose dianzi indicate.
In tal senso deporrebbero i mezzi utilizzati, l’oggetto della condotta e la considerazione che – in caso di incendio – il primo a subirne le conseguenze sarebbe stato lo stesso imputato e non vi sarebbero elementi per ritenere che egli perseguisse intenti autolesivi.
I fatti non sarebbero qualificabili neppure come danneggiamento seguito da pericolo di incendio, trattandosi di reato che richiede, come elemento costitutivo, il sorgere di un pericolo di incendio.
Nel caso di specie, infatti, in ragione delle modalità e dell’oggetto della condotta e del relativo contesto spaziale, secondo il giudice a quo non vi sarebbe stato alcun pericolo di tal fatta: gli oggetti cui il fuoco era stato appiccato erano di piccole dimensioni; nell’ambiente circostante non vi erano – né nel corridoio della sezione, né nel bagno della cella – oggetti o materiali cui il fuoco potesse propagarsi facilmente, ma soltanto cemento e metallo; quand’anche non vi fosse stato l’intervento tempestivo della polizia penitenziaria (comunque prevedibile e non integrante un fattore eccezionale sopravvenuto), le fiamme – all’esito della combustione degli oggetti cui il fuoco era stato appiccato – si sarebbero estinte da sole, senza alcun rischio che potessero diffondersi.
Limitatamente al lenzuolo, secondo il rimettente, il fatto dovrebbe essere riqualificato come danneggiamento ai sensi dell’art. 635, secondo comma, cod. pen. (più precisamente art. 635, secondo comma, numero 1, cod. pen. in relazione all’art. 625, primo comma, numero 7, cod. pen.): mentre, infatti, gli indumenti e le scarpe oggetto della condotta erano di proprietà dell’imputato, il lenzuolo, a lui in uso, era di proprietà dell’Amministrazione penitenziaria. Si tratterebbe, dunque, di un bene altrui, esistente in uno stabilimento pubblico (la casa circondariale) e destinato a pubblico servizio (il corredo della cella necessario per renderla concretamente fruibile).
La riqualificazione della condotta criminosa sarebbe possibile alla luce sia della prossimità e omogeneità tra i due delitti (quello contestato in diritto e quello ritenuto dal giudice a quo), sia della formulazione in punto di fatto dell’imputazione (nell’ambito della quale si fa riferimento alla circostanza che i fatti si siano svolti all’interno dell’istituto carcerario e al fatto che l’imputato voleva danneggiare beni dell’amministrazione), sia, infine, dell’istruttoria concretamente svolta.
1.3.– Afferma il rimettente che il fatto non potrebbe ritenersi di particolare tenuità ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., in ragione del contesto in cui è stato attuato e del pregiudizio complessivo arrecato all’Amministrazione penitenziaria: oltre al danno relativo alla distruzione del lenzuolo, occorrerebbe tenere conto anche e soprattutto del disordine creato all’interno della sezione della casa circondariale, del necessario utilizzo di estintore e idrante, del successivo necessario dispiego di risorse per ripristinare la condizione preesistente del corridoio.
Un ulteriore profilo di gravità atterrebbe al fatto che la citata condotta è stata tenuta mentre la polizia penitenziaria era intervenuta altrove per risolvere alcuni disordini creati da altro detenuto.
2.– Quanto alla rilevanza della questione, osserva il rimettente che il fatto in esame non sarebbe meritevole di una pena pari al massimo edittale in quanto oggetto del danneggiamento è un semplice lenzuolo. In ragione dei fattori sopra evidenziati, però, il trattamento sanzionatorio non potrebbe assestarsi neppure sul minimo edittale, ma dovrebbe collocarsi nella fascia compresa tra quest’ultimo e il valore medio tra minimo e massimo.
Ciò renderebbe rilevante la verifica della legittimità costituzionale della pena edittale massima, il cui esito sarebbe suscettibile di incidere sul secondo dei predetti due estremi: la pena congrua nel caso di specie, nell’ambito di un arco edittale compreso tra sei mesi e tre anni, risulterebbe infatti più alta di quella determinata in relazione a un arco compreso tra sei mesi e due anni.
2.1.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo rileva che i fatti di danneggiamento previsti dall’art. 635, secondo comma, cod. pen. sono puniti, per l’appunto, con la reclusione da sei mesi a tre anni, mentre per il reato di danneggiamento seguito da pericolo d’incendio di cui all’art. 424, primo comma, cod. pen. è prevista la pena della reclusione da sei mesi a due anni.
Le due fattispecie criminose avrebbero come elemento costitutivo in comune il danneggiamento di una cosa; quest’ultima nel danneggiamento ex art. 635 cod. pen. è necessariamente altrui, mentre nel danneggiamento di cui all’art. 424, primo comma, cod. pen. può appartenere indifferentemente al soggetto agente o a terzi; la modalità del danneggiamento di cui all’art. 424 cod. pen., diversamente da quella di cui all’art. 635 cod. pen., consisterebbe inoltre necessariamente nell’appiccare il fuoco.
In entrambe le figure delittuose il dolo avrebbe a oggetto il solo danneggiamento della cosa altrui; nel reato ex art. 635 cod. pen. il dolo sarebbe generico, laddove nel reato ex art. 424, primo comma, cod. pen. l’agente dovrebbe agire allo scopo esclusivo di danneggiare la cosa altrui.
Elemento specializzante del reato di danneggiamento seguito da incendio di cui all’art. 424, primo comma, cod. pen. sarebbe la circostanza che dalla condotta derivi un pericolo d’incendio.
Per quanto anche nel reato di danneggiamento ex art. 635 cod. pen. ricorrano dei profili di specificità, la giurisprudenza di legittimità – ormai assurta, secondo il rimettente, a diritto vivente – escluderebbe che le due figure criminose possano concorrere.
Il reato di cui all’art. 424, primo comma, cod. pen. richiede, come elemento costitutivo, il sorgere di un pericolo di incendio, sicché tale fattispecie criminosa non sarebbe ravvisabile qualora il fuoco appiccato abbia caratteristiche tali da non determinare tale pericolo. In tal caso, ove la cosa altrui venga danneggiata, sarebbe configurabile il reato di danneggiamento (ex art. 635 cod. pen.).
Alla luce di quanto precede, il trattamento sanzionatorio previsto per il reato di cui all’art. 635, secondo comma, cod. pen. ad avviso del rimettente sarebbe irragionevole con riguardo al massimo edittale, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost.
Sostiene il giudice a quo che, nel caso in cui il bene cui è appiccato il fuoco sia di proprietà del soggetto agente (e non si verifichi il danneggiamento del bene altrui) e in quello in cui il bene non si identifichi in una delle cose indicate dall’art. 635, secondo comma, cod. pen. non si ravviserebbero criticità: se la condotta determina un pericolo d’incendio o un incendio, troverebbe applicazione l’art. 424, primo comma, cod. pen.; diversamente il fatto non integrerebbe nessuno dei due reati.
Viceversa, di fronte alla condotta di chi appicchi il fuoco al bene altrui rientrante in una delle ipotesi di cui all’art. 635, secondo comma, cod. pen. (come nella fattispecie in esame), si assisterebbe a un risultato assurdo: ove dalla condotta derivi un pericolo d’incendio, il soggetto sarebbe punito ai sensi dell’art. 424, primo comma, cod. pen. e, quindi, con la reclusione da sei mesi a due anni; ove, viceversa, dalla condotta non derivi alcun pericolo d’incendio, il soggetto sarebbe punito ai sensi dell’art. 635, secondo comma, cod. pen. con la reclusione da sei mesi a tre anni; cosicché a fronte di due situazioni aventi caratteristiche comuni, ma di diversa gravità, quella meno grave sarebbe sanzionata con una cornice edittale più severa.
Il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. imporrebbe di trattare in maniera uguale fattispecie che presentino un disvalore analogo e di prevedere trattamenti sanzionatori diversi per fatti con un diverso disvalore, ferma restando l’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore in ordine alle pene da comminare per i vari reati.
Nel caso in esame, la grave illogicità sopra evidenziata costituirebbe ad avviso del rimettente una violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., perché il tertium comparationis individuato (il delitto di cui all’art. 424, primo comma, cod. pen.) sarebbe pressoché sovrapponibile al delitto di danneggiamento ex art. 635, secondo comma, cod. pen. di cui si censura il trattamento sanzionatorio.
Secondo il rimettente, l’anomalia denunciata sarebbe risolvibile prevedendo per il danneggiamento ex art. 635, secondo comma, cod. pen. il medesimo trattamento sanzionatorio stabilito per il danneggiamento seguito da pericolo d’incendio di cui all’art. 424, primo comma, cod. pen.
Non sarebbe nemmeno percorribile una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata in quanto chiara e univoca nel contenuto.
Per salvaguardare la coerenza logica delle citate previsioni normative occorrerebbe – secondo il rimettente – ritenere possibile il concorso formale tra i due reati ex artt. 424, primo comma, cod. pen. e 635, secondo comma, cod. pen., ma questa soluzione non risulterebbe praticabile, dal momento che essi presenterebbero in comune il medesimo nucleo centrale, per cui – ove si ritenesse possibile il concorso formale – il soggetto agente verrebbe punito due volte per il medesimo fatto.
In ogni caso, la giurisprudenza di legittimità escluderebbe la possibilità che i due reati concorrano, affermando viceversa l’alternatività dei medesimi (se si determinasse un pericolo d’incendio sussisterebbe il reato ex art. 424, primo comma, cod. pen., mentre se detto pericolo non sorge, ricorrerebbe il reato di cui all’art. 635 cod. pen.).
3.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata manifestamente infondata.
3.1.– Secondo la difesa statale, con il secondo comma dell’art. 635 cod. pen. il legislatore mostrerebbe di aver compiuto una precisa valutazione circa il disvalore attribuito al reato previsto da tale disposizione, escludendo di volerlo parificare ad altre e diverse fattispecie, come quella richiamata nell’ordinanza di rimessione in ragione unicamente di similitudini relative al bene giuridico protetto o all’elemento psicologico richiesto.
Infatti, la norma censurata attribuisce rilievo a ipotesi di danneggiamento di beni pubblici o, comunque, di pubblico interesse o utilità (tra cui anche le cose indicate nel numero 7 dell’art. 625, primo comma, cod. pen., richiamato dal giudice rimettente) che giustificano una peculiare dimensione della forbice edittale.
Alla luce di tali considerazioni, non sarebbe irragionevole la scelta di prevedere, per il delitto di cui all’art. 424, secondo comma, cod. pen., una pena inferiore nel massimo rispetto alla diversa fattispecie del danneggiamento.
L’art. 635, secondo comma, cod. pen., pur non prevedendo il pericolo di incendio e pur condividendo, con il delitto di cui all’art. 424, primo comma, cod. pen., la necessità che la condotta dannosa sia rivolta verso un bene di proprietà altrui, prevederebbe un aumento di pena nel massimo in ragione della qualità e tipologia della cosa danneggiata, elementi dai quali il delitto di danneggiamento con pericolo di incendio prescinde.
Dunque, diversamente da quanto affermato dal rimettente, non vi sarebbe omogeneità tra i due reati posti a raffronto, atteso che, pur presenti le similitudini rilevate dal giudice a quo, tali reati risulterebbero, in realtà, strutturalmente diversi, cosicché sarebbe insussistente l’asserita violazione dell’art. 3 Cost.
Infatti, l’art. 424 cod. pen., al primo comma, contemplerebbe un reato di pericolo, mentre l’art. 635, secondo comma, cod. pen., prevederebbe un reato di danno; quanto al bene giuridico, poi, l’uno presidierebbe l’incolumità pubblica, l’altro invece il patrimonio pubblico. Al di là delle similitudini intercorrenti tra loro, le fattispecie delittuose in esame tutelerebbero un bene giuridico differente e avrebbero elementi specializzanti differenti (il pericolo d’incendio l’uno, la tipologia pubblica del bene danneggiato l’altro) che non consentirebbero la trasposizione della pena edittale massima dall’uno all’altro reato.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Firenze, prima sezione penale, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 635, secondo comma, cod. pen., nella parte in cui prevede la pena della reclusione da sei mesi a tre anni, anziché quella della reclusione da sei mesi a due anni.
Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata violerebbe il principio di eguaglianza, prevedendo per il danneggiamento delle cose in essa elencate una pena edittale più severa nel massimo di quella stabilita dall’art. 424, primo comma, cod. pen. per il delitto di danneggiamento seguito da pericolo di incendio, che comporta, oltre all’offesa al patrimonio, anche un pericolo per la pubblica incolumità.
2.– In punto di rilevanza, il rimettente evidenzia che, nell’individuare il trattamento sanzionatorio sulla base del disvalore oggettivo e soggettivo della condotta, dovrebbe determinare la pena da applicare per il fatto oggetto del giudizio a quo, qualificato come delitto di danneggiamento ai sensi della norma censurata, in una misura ricompresa tra il minimo edittale e il valore medio fra minimo e massimo. Ciò renderebbe rilevante la questione di legittimità costituzionale relativa al massimo edittale, il cui accoglimento modificherebbe il secondo dei due estremi.
3.– Nel merito, il rimettente censura la presunta illogicità di un sistema in cui la condotta di chi, appiccando il fuoco, danneggia la cosa altrui senza creare pericolo d’incendio sarebbe punita, ai sensi dell’art. 635, secondo comma, cod. pen., più severamente rispetto a quella a cui segua tale pericolo, con la conseguenza che una fattispecie meno grave, da cui non derivi nessun pericolo per la pubblica incolumità, comporterebbe l’applicazione di una pena più alta.
Chiede, di conseguenza, di uniformare la cornice edittale del reato di cui all’art. 635, secondo comma, cod. pen. a quella prevista per la fattispecie di cui all’art. 424, primo comma, cod. pen., riducendo quindi il massimo della pena comminata dalla disposizione censurata a due anni di reclusione.
4.– Occorre premettere che il reato di danneggiamento ha conosciuto, negli anni, significative modifiche normative, di cui è opportuno dar brevemente conto per la rilevanza che esse sono destinate ad assumere per la soluzione della questione rimessa a questa Corte.
Originariamente, l’art. 635, primo comma, cod. pen. puniva, con la pena alternativa della reclusione fino a un anno o della multa fino a tremila lire, il fatto di distruggere, deteriorare o rendere, in tutto o in parte, inservibili, cose mobili o immobili altrui. Nell’ipotesi base, il fatto era sanzionato a prescindere dalla qualità delle cose danneggiate, dalle modalità della condotta e dal contesto nel quale era stata realizzata.
Il secondo comma prevedeva alcune ipotesi aggravate, sanzionate con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni, in considerazione del maggior disvalore dei fatti di danneggiamento che fossero connotati da particolari modalità della condotta, da un peculiare contesto o dalla natura della res danneggiata. Tra le ipotesi aggravate in ragione della qualità della cosa danneggiata figurava quella di danneggiamento di cosa esistente in pubblico stabilimento e destinata a pubblico servizio, ex art. 635, secondo comma, numero 1), cod. pen. nella parte in cui operava un espresso richiamo all’aggravante prevista dall’art. 625, primo comma, numero 7), cod. pen.
La fattispecie incriminatrice del danneggiamento è stata successivamente oggetto di plurime modifiche, la più significativa delle quali ad opera dell’art. 2, comma 1, lettera l), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67). Con tale intervento, in particolare, il legislatore ha escluso la rilevanza penale del danneggiamento semplice, attribuendo a tale fatto un rilievo meramente civilistico.
A detta depenalizzazione si è accompagnata la previsione, come reato, delle sole forme di danneggiamento che in precedenza erano configurate come ipotesi aggravate, le quali sono state trasformate in autonome figure di reato, mantenendo inalterato il trattamento sanzionatorio, già in precedenza previsto nella pena della reclusione da sei mesi a tre anni.
Oltre a ridurre l’area di rilevanza penale dei fatti di danneggiamento, la riforma del 2016 ha ridisegnato la dimensione offensiva del reato in parola: all’esito della riscrittura della norma, il danneggiamento non è più da considerarsi come figura posta genericamente ed esclusivamente a tutela del patrimonio mobiliare e immobiliare, bensì come ipotesi che ne tutela l’integrità laddove l’aggressione si accompagni a specifiche modalità (ad esempio, violente o minacciose, ex art. 635, primo comma, cod. pen.), condizioni di contesto (ad esempio, in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico, ex art. 635, terzo comma, cod. pen.) o a una particolare qualità del bene oggetto del reato (art. 635, secondo comma, cod. pen.).
Quanto all’art. 424, primo comma, cod. pen., individuato dal giudice a quo quale tertium comparationis, negli anni tale norma ha subito solo una modifica meramente formale a seguito dell’intervento normativo di cui all’art. 11 della legge 21 novembre 2000, n. 353 (Legge-quadro in materia di incendi boschivi) al fine di coordinare l’ipotesi criminosa del danneggiamento cui segue il pericolo di incendio con la nuova figura delittuosa di incendio boschivo ex art. 423-bis cod. pen., cosicché attualmente il predetto art. 424, primo comma, cod. pen. punisce chi, fuori delle ipotesi previste dal citato art. 423-bis, «al solo scopo di danneggiare la cosa altrui, appicca il fuoco a una cosa propria o altrui […] se dal fatto sorge il pericolo di un incendio».
Coerentemente con la collocazione tra i delitti contro l’incolumità pubblica, quest’ultima ipotesi delittuosa dà rilievo a condotte di danneggiamento connotate da una proiezione lesiva che si caratterizza nel requisito specializzante del «pericolo di un incendio». Si tratta, in particolare, di una figura che anticipa la soglia della punibilità al “pericolo di un pericolo” per l’incolumità di una pluralità indeterminata di soggetti.
Quanto alle modalità della condotta, il soggetto è punito per aver dato alle fiamme un bene proprio o altrui, con finalità di danneggiamento di una res necessariamente altrui. L’elemento soggettivo della fattispecie criminosa è rappresentato dal dolo specifico, consistente nella finalità specifica ed esclusiva di danneggiare la cosa altrui, che distingue tale figura dalle più gravi ipotesi di cui agli artt. 422 (delitto di strage, connotato dal fine di uccidere) e 423 cod. pen. (delitto di incendio tout court, connotato dalla volontà di provocare un incendio).
Il delitto di danneggiamento e l’assetto dei rapporti complessivi tra quest’ultimo reato e l’art. 424, primo comma, cod. pen., all’indomani della riforma di cui al d.lgs. n. 7 del 2016, risultano profondamente mutati: in precedenza, il danneggiamento seguito da pericolo di incendio realizzato appiccando il fuoco alla cosa altrui integrava certamente anche un’ipotesi di danneggiamento penalmente rilevante; oggi, invece, affinché il reato di danneggiamento possa dirsi integrato, devono riscontrarsi quegli specifici elementi che segnano il confine della rilevanza penale del fatto ai sensi dell’art. 635 cod. pen. Nella fattispecie oggetto del giudizio principale, tali elementi consistono nella natura lato sensu pubblicistica del bene danneggiato e nella sua destinazione funzionale; elementi non richiesti per la configurabilità del reato di danneggiamento seguito da pericolo di un incendio, ai sensi dell’art. 424, primo comma, cod. pen.
5.– In punto di ammissibilità delle questioni prospettate, deve osservarsi quanto segue.
Il giudice a quo solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 635, secondo comma, cod. pen. nella parte in cui prevede la pena della reclusione «da sei mesi a tre anni» anziché quella «da sei mesi a due anni».
In particolare, il rimettente ritiene che per le modalità e le caratteristiche complessive della condotta debba essere applicata una pena di medio-bassa entità, la cui individuazione risente di entrambi i termini della cornice edittale. Ciò in quanto il trattamento sanzionatorio va determinato, tenuto conto dei criteri ex art. 133 cod. pen., sulla base della pena prevista in astratto intendendo quest’ultima come comprensiva sia del minimo che del massimo edittale.
Ad essere censurata non è, dunque, la sola previsione edittale massima (sentenza n. 284 del 2019), ma la forbice edittale complessiva entro cui la quantificazione della pena deve essere operata.
In tale prospettiva, il giudice a quo motiva in modo non implausibile la rilevanza della questione, osservando che l’individuazione di una cornice più ampia tra il minimo e il massimo edittale finisce per collocare un fatto di gravità medio-bassa (tale essendo, secondo il rimettente, l’episodio oggetto del giudizio a quo) a un livello sanzionatorio più elevato di quanto avverrebbe laddove il massimo della pena fosse più lieve (con riferimento all’ipotesi inversa, sentenza n. 138 del 2024).
Da ciò consegue che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal rimettente è rilevante e, dunque, ammissibile.
6.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 635, secondo comma, cod. pen., sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., non è fondata per le ragioni che seguono.
7.– Da un raffronto della disposizione censurata con la norma indicata quale tertium comparationis, emergono profili di evidente eterogeneità, tanto sul piano della struttura dei suddetti reati, quanto su quello dei beni giuridici oggetto di tutela.
7.1.– Le prime differenze si riferiscono alla struttura delle due fattispecie criminose di cui agli artt. 635, secondo comma, e 424, primo comma, cod. pen., rispettivamente inquadrabili in un reato di danno e in un reato di pericolo.
Mentre la prima presuppone che la condotta abbia prodotto un danno effettivo all’integrità o alla funzionalità della cosa mobile o immobile altrui, la seconda correla la punibilità della condotta, finalizzata a danneggiare la cosa propria o altrui attraverso il fuoco, all’insorgere di un pericolo di incendio.
7.2.– Quanto al bene oggetto della condotta di danneggiamento, si deve rilevare come l’art. 424 cod. pen. contempli espressamente anche l’ipotesi in cui il fuoco sia stato appiccato a una cosa di proprietà dello stesso soggetto agente. Viceversa, nell’ipotesi ex art. 635 cod. pen., è richiesto che della cosa distrutta, deteriorata o resa inservibile, sia titolare un terzo.
Ne deriva che, nelle ipotesi sanzionate dall’art. 424 cod. pen., può anche mancare del tutto un danneggiamento, laddove sia dato alle fiamme un bene proprio dell’agente, ipotesi, invece, estranea alla sfera d’incriminazione dell’art. 635 cod. pen.
7.2.1.– Inidonea a integrare il reato di cui all’art. 635 cod. pen., dopo la riforma avvenuta con il d.lgs. n. 7 del 2016, è anche la condotta che si realizzi appiccando il fuoco a una cosa altrui, laddove manchino le connotazioni modali della condotta stessa, o le condizioni di contesto indicate dai commi primo, terzo e quarto dell’art. 635 cod. pen. (uso di violenza alla persona o minaccia, commissione del fatto in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, e via dicendo); oppure sia assente il requisito previsto dal secondo comma della disposizione censurata, relativo alla particolare natura dei beni danneggiati.
7.3.– A livello soggettivo si evidenzia che, mentre l’art. 424 cod. pen. è una norma connotata dal dolo specifico, il reato di cui all’art. 635 cod. pen. è integrato da quello generico.
7.4.– Ancora più significativa è la distanza che connota le due ipotesi criminose dal punto di vista del bene giuridico rispettivamente tutelato. Come suggerisce la stessa collocazione topografica delle due norme, l’art. 424 cod. pen. è disposizione che tutela l’incolumità pubblica, mentre l’art. 635 cod. pen. si rivolge alla salvaguardia del patrimonio, in presenza di determinate condizioni o caratteristiche del fatto suscettibili di riflettersi sull’offesa tipica.
Nell’ipotesi che viene in rilievo nel caso di specie – danneggiamento di cosa esistente in ufficio pubblico o destinata a pubblico servizio – il profilo di offesa al patrimonio si somma a un particolare interesse della collettività, legato alla natura pubblicistica dei beni danneggiati.
Viceversa, l’art. 424, primo comma, cod. pen. riguarda fatti connotati da una pericolosità della condotta per la pubblica incolumità. Il medesimo art. 424 cod. pen., ai commi successivi, prevede pene più severe per condotte criminose più gravi che creino un pericolo per l’incolumità pubblica più concreto e attuale laddove al danneggiamento realizzato con il fuoco segua l’incendio comune (si applica la pena prevista dall’art. 423 cod. pen. ridotta da un terzo alla metà, ossia una pena detentiva minima di un anno e sei mesi e una massima di quattro anni e otto mesi) o boschivo (si applica la pena prevista dall’art. 423-bis cod. pen., ossia la pena della reclusione da sei a dieci anni).
Dalla ricostruzione succintamente svolta emerge che l’art. 424, primo comma, cod. pen. indicato dal rimettente come tertium comparationis, non costituisce un termine di paragone adeguato e omogeneo, in ragione delle significative differenze che caratterizzano le due ipotesi delittuose.
Non è dunque ravvisabile la denunciata violazione del principio di eguaglianza, in rapporto al trattamento sanzionatorio previsto da tale ultima disposizione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 635, secondo comma, del codice penale, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze, prima sezione penale, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 novembre 2024.
F.to:
Giovanni AMOROSO, Presidente
Angelo BUSCEMA, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 23 dicembre 2024