Sentenza n. 209 del 2024

SENTENZA N. 209

ANNO 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da:

Presidente: Augusto Antonio BARBERA;

Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Siena, nel procedimento penale a carico di E. H., con ordinanza del 23 ottobre 2023, iscritta al n. 152 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2023, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 4 giugno 2024.

Udito nella camera di consiglio del 17 giugno 2024 il Giudice relatore Franco Modugno;

deliberato nella camera di consiglio del 17 giugno 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 23 ottobre 2023, iscritta al n. 152 del registro ordinanze 2023, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Siena ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 27, 101, 111 e 117 della Costituzione – quest’ultimo in relazione all’art. 7 (recte: art. 6), primo paragrafo, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e all’art. 15 (recte: art. 14) primo paragrafo, del Patto internazionale sui diritti civili e politici – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari, il quale abbia rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per ritenuta «non congruità» della pena richiesta dal pubblico ministero, sia incompatibile a pronunciare sulla nuova richiesta di decreto penale formulata per lo stesso fatto e nei confronti del medesimo imputato.

1.1.– Il rimettente premette di essere investito della richiesta di decreto penale di condanna presentata dal pubblico ministero il 16 ottobre 2023 nei confronti di una persona imputata del reato di cui all’art. 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), per aver guidato un’autovettura in stato di ebbrezza alcolica, con accertamento di un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro.

Riferisce il giudice a quo che il pubblico ministero aveva già chiesto in precedenza, nei confronti della stessa persona e per il medesimo fatto, l’emissione di un decreto penale di condanna alla pena di 2.100 euro di ammenda, determinata a partire dalla pena base di sei mesi di arresto, convertiti nella corrispondente pena pecuniaria, e 1.800 euro di ammenda, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

Il rimettente aveva rigettato la richiesta, ritenendo che la pena indicata dal pubblico ministero, pressoché pari al minimo edittale, fosse incongrua rispetto alla gravità della violazione. La concentrazione di etanolo riscontrata nel sangue dell’imputato era risultata, infatti, addirittura doppia rispetto al valore minimo di 1,5 grammi per litro, richiesto per l’integrazione della contravvenzione, in base a un primo metodo di rilevazione, e comunque sia superiore del 77 per cento a tale valore, in base all’accertamento di conferma condotto sul sangue intero.

Di seguito alla conseguente restituzione degli atti, il pubblico ministero aveva formulato la nuova richiesta di decreto penale di cui il rimettente è attualmente investito, individuando la pena da applicare in 2.950 euro di ammenda, determinata a partire da una pena base di nove mesi di arresto, convertiti nella corrispondente pena pecuniaria, e 2.100 euro di ammenda, sempre previo riconoscimento delle attenuanti generiche.

1.2.– Il giudice a quo, chiamato, in questo modo, a pronunciarsi sulla nuova richiesta di decreto penale, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non include tra i casi di incompatibilità cosiddetta “orizzontale” quello del giudice che sia chiamato a pronunciare su una richiesta di decreto penale di condanna nei confronti della stessa persona e per il medesimo fatto, dopo aver respinto una richiesta precedente in ragione della ritenuta inadeguatezza della pena proposta dal pubblico ministero.

Al riguardo, il rimettente osserva come la suddetta incompatibilità, attinente alla relazione tra la fase del giudizio e quella che immediatamente la precede, esplichi una funzione di garanzia del fondamentale principio di imparzialità e terzietà del giudice, e con esso, del giusto processo: principio la cui attuazione è posta in pericolo da tutte le situazioni che contribuiscono a far sorgere la figura del cosiddetto iudex suspectus, in ragione della forza della prevenzione generata dall’avere quest’ultimo compiuto in precedenza atti del procedimento che implichino una valutazione non meramente «formale», ma «di contenuto», della res iudicanda.

L’incompatibilità in parola presupporrebbe, quindi, una relazione tra due termini: l’“attività pregiudicante”, costituita da un’attività giurisdizionale atta a generare la forza della prevenzione, e la “sede pregiudicata”, costituita da un compito decisorio al quale il giudice che abbia posto in essere l’attività pregiudicante non risulta più idoneo.

Quanto alla “sede pregiudicata”, il giudice a quo ricorda come, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, debba intendersi per «giudizio» ogni processo che, in base a un esame delle prove, pervenga a una decisione di merito. La relativa nozione comprende, pertanto, non solo il giudizio dibattimentale, ma anche il procedimento per decreto penale, nel quale spetta al giudice, in base all’esame delle risultanze delle indagini preliminari, accogliere o respingere la richiesta del pubblico ministero (sono citate le sentenze n. 16 del 2022 e n. 346 del 1997). In tale rito speciale, il controllo demandato al giudice per le indagini preliminari attiene, infatti, al merito dell’ipotesi accusatoria, postulando una verifica del fatto storico e della responsabilità dell’imputato. A detto giudice è devoluto, fra l’altro, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, il sindacato sull’esattezza della qualificazione giuridica del fatto, sulla sufficienza degli elementi probatori e – per quanto rileva nella specie – sulla congruità della pena richiesta dal pubblico ministero: ipotesi tutte nelle quali l’esito negativo della verifica dà luogo al rigetto della richiesta.

Con riguardo poi all’“attività pregiudicante” – prosegue il giudice a quo –, questa Corte ha da tempo precisato le condizioni in presenza delle quali la previsione normativa dell’incompatibilità del giudice deve ritenersi costituzionalmente necessaria, individuandole segnatamente nella preesistenza di valutazioni, da parte dello stesso giudice, in ordine alla medesima res iudicanda; nel fatto che la valutazione concerna atti anteriormente compiuti e sia strumentale all’assunzione di una decisione; nella circostanza, infine, che tale decisione attenga al merito dell’ipotesi accusatoria e non soltanto allo svolgimento del processo.

Ad avviso del rimettente, tali condizioni ricorrerebbero anche nel caso del pregresso rigetto della richiesta di decreto penale per inadeguatezza della pena, trattandosi di provvedimento nel quale è insito il riconoscimento che, alla luce delle risultanze degli atti di indagine, il fatto per cui si procede sussiste, che è addebitabile all’imputato e che è giuridicamente qualificabile nei termini prospettati dal pubblico ministero.

La successiva proposizione di una altra richiesta di decreto penale, per lo stesso fatto storico e nei confronti del medesimo imputato, aprirebbe, d’altro canto, una nuova fase di giudizio che, per quanto omologa alla precedente, resta da essa distinta, così che la valutazione di merito precedentemente svolta esplicherebbe «una chiara “efficacia pregiudicante”».

Il caso in esame risulterebbe, per questo verso, analogo a quello oggetto della sentenza n. 16 del 2022 di questa Corte, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari, che abbia rigettato la richiesta di decreto penale per mancata contestazione di una circostanza aggravante, sia incompatibile a pronunciare sulla nuova richiesta di decreto penale formulata dal pubblico ministero in conformità ai rilievi del giudice stesso.

La mancata previsione dell’incompatibilità nell’ipotesi in discussione si porrebbe, quindi, in contrasto con il principio di imparzialità e terzietà del giudice, collegato alla garanzia del giusto processo: principio i cui «referenti costituzionali e sovranazionali» andrebbero individuati, «in via principale», nell’art. 111 Cost., e secondariamente negli artt. 3, 24, 25, 27, 101 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, primo paragrafo, CEDU e all’art. 14, primo paragrafo, PIDCP.

1.3.– Il rimettente esclude, da ultimo, che vi siano margini per una interpretazione conforme a Costituzione della disposizione censurata, stante il carattere eccezionale e tassativo dei casi di incompatibilità “endoprocessuale” da essa previsti: il che renderebbe necessario invocare l’intervento additivo di questa Corte, al fine di estendere anche alla fattispecie in questione l’elenco delle ipotesi di operatività dell’istituto.

Considerato in diritto

1.– Il GIP del Tribunale di Siena dubita della legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari, il quale abbia rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per ritenuta «non congruità» della pena indicata dal pubblico ministero, sia incompatibile a pronunciare sulla nuova richiesta di decreto penale formulata per lo stesso fatto e nei confronti del medesimo imputato.

Ad avviso del giudice rimettente, la norma censurata violerebbe, in parte qua, il principio di imparzialità e terzietà del giudice, collegato alla garanzia del giusto processo: principio che troverebbe i suoi «referenti» primariamente nell’art. 111 Cost., e in secondo luogo negli artt. 3, 24, 25, 27, 101 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, primo paragrafo, CEDU e all’art. 14, primo paragrafo, PIDCP.

2.– In via preliminare, va dichiarata l’inammissibilità delle questioni sollevate con riferimento agli artt. 3, 24, 25, 27, 101 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, primo paragrafo, CEDU e all’art. 14, primo paragrafo, PIDCP, indicati cumulativamente dal rimettente quali «referenti costituzionali e sovranazionali della disciplina» di cui alla disposizione censurata.

Una tale motivazione difetta dei requisiti minimi fissati dalla costante giurisprudenza di questa Corte per la motivazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, non chiarendo in alcun modo le ragioni per le quali ciascuno dei parametri menzionati risulterebbe violato dalla disciplina censurata. La motivazione in parola risulta, dunque, meramente apodittica, con conseguente inammissibilità delle questioni formulate in riferimento a tali parametri.

Ammissibile è, dunque, la sola questione sollevata con riferimento all’art. 111 Cost., rispetto alla cui non manifesta infondatezza il rimettente spende ampia motivazione.

3.– La questione non è fondata.

3.1.– Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 179 e n. 74 del 2024, n. 16 del 2022 e n. 183 del 2013), le norme sulla incompatibilità del giudice, derivante da atti compiuti nel procedimento, sono poste a tutela dei valori della terzietà e della imparzialità della giurisdizione, presidiati dagli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., risultando finalizzate ad evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla forza della prevenzione – ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o mantenere un atteggiamento già assunto – scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda.

Più in particolare, un’incompatibilità costituzionalmente necessaria, in forza dei principi menzionati, sussiste a) allorché il medesimo giudice abbia già svolto, in relazione alla medesima res iudicanda, un’“attività pregiudicante”, e b) sia nuovamente chiamato a svolgere un compito decisorio in una “sede pregiudicata” dalla propria precedente attività.

3.2.– Quanto anzitutto all’“attività pregiudicante”, secondo la citata giurisprudenza di questa Corte, essa sussiste in presenza di quattro condizioni essenziali. Anzitutto, le valutazioni devono cadere sulla medesima res iudicanda. In secondo luogo, il giudice deve essere stato chiamato a effettuare una valutazione di atti anteriormente compiuti, in maniera strumentale all’assunzione di una decisione (e non semplicemente aver avuto conoscenza di essi). In terzo luogo, tale valutazione deve attenere al merito dell’ipotesi accusatoria (e non già al mero svolgimento del processo). Infine, le precedenti valutazioni devono collocarsi in una diversa fase del procedimento.

Nell’ipotesi, in questa sede all’esame, in cui il GIP abbia rigettato una richiesta di decreto penale di condanna per ritenuta non congruità della pena richiesta dal pubblico ministero, e sia successivamente investito di una nuova richiesta di decreto penale di condanna formulata in relazione allo stesso fatto e allo stesso imputato, tutte e quattro le menzionate condizioni devono ritenersi sussistenti.

Se la presenza della prima e della seconda condizione è qui evidente, anche il riscontro relativo alla terza ha esito positivo. Nella sentenza n. 74 del 2024, questa Corte ha, invero, ritenuto che non implichi una valutazione sul merito dell’esame accusatorio il mero riscontro, da parte del GIP, dell’illegalità della pena richiesta dal pubblico ministero. E ciò in quanto tale illegalità risulta già dalla «mera lettura della richiesta di decreto penale di condanna, senza la necessità di avviare ponderazioni del merito della richiesta stessa e a prescindere da eventuali considerazioni circa la fondatezza dell’ipotesi accusatoria». Tuttavia, laddove il rigetto della richiesta di decreto penale di condanna sia motivato non già dalla illegalità della pena, bensì dalla sua mera non congruità rispetto alla concreta gravità del fatto addebitato all’imputato, il rigetto non può che presupporre un esame del merito della richiesta, sulla base degli atti di indagine che la supportano; e necessariamente implica una valutazione di fondatezza dell’ipotesi accusatoria, senza la quale non avrebbe senso per il GIP interrogarsi sulla adeguatezza della pena richiesta dal pubblico ministero.

Parimente sussiste, per le ragioni già indicate nella sentenza n. 16 del 2022, connesse agli effetti del rigetto della richiesta di decreto penale, la quarta condizione, relativa alla diversità di fase nell’ambito del medesimo procedimento.

3.3.– Resta, però, da chiarire se la valutazione cui il GIP è chiamato per effetto della nuova richiesta del pubblico ministero costituisca attività indebitamente influenzata dalle precedenti valutazioni; e se, dunque, il compito decisorio del GIP, in questa ipotesi, sia destinato a svolgersi – per riprendere la formula abitualmente utilizzata dalla giurisprudenza di questa Corte – in una “sede pregiudicata” dalla forza della prevenzione.

Ritiene questa Corte che, in seguito a una nuova richiesta del pubblico ministero che – come nel caso di specie – si limiti a modificare la pena nei confronti dello stesso imputato per la stessa imputazione sulla base dei medesimi elementi probatori, in adesione ai rilievi del GIP contenuti in un precedente decreto di rigetto, il medesimo GIP non sia più chiamato ad alcuna nuova valutazione né sull’esattezza della qualificazione giuridica, né sulla sufficienza degli elementi probatori, né – ancora – sulla insussistenza di cause di non punibilità ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen.

In questa ipotesi, in effetti, il GIP ha già necessariamente compiuto tali valutazioni allorché ha rigettato la richiesta del pubblico ministero non già per ragioni attinenti all’an della responsabilità dell’imputato o alla correttezza della qualificazione giuridica del reato a lui contestato, ma semplicemente in relazione alla determinazione della pena. Né vi sarebbe ragione, per il medesimo GIP, di procedere una seconda volta a tali valutazioni in seguito alla nuova richiesta del pubblico ministero, e tanto meno per pervenire a diverse soluzioni, trattandosi di prospettiva chiaramente non funzionale rispetto alle finalità di speditezza processuale proprie del procedimento speciale per decreto, in quanto atta a determinare un ripetuto e ingiustificato passaggio del procedimento tra GIP e PM, anteriormente alla stessa instaurazione del contraddittorio con l’imputato. L’unico compito decisorio che, a questo punto, residua al GIP attiene alla verifica se la nuova determinazione della sanzione risulti adeguata rispetto alla gravità di un fatto di reato, che è stato già compiutamente apprezzato e valutato nella precedente attività decisoria.

Non vi è dunque, nella situazione in esame, alcuna duplicazione di attività decisoria sulla medesima regiudicanda, proprio perché la valutazione del GIP sulla seconda richiesta del pubblico ministero ha un oggetto ormai circoscritto e delimitato dagli esiti della precedente attività decisoria, sul cui esito finale il giudice non è più chiamato a ritornare.

3.4.– La situazione ora all’esame può, dunque, distinguersi tanto da quella esaminata da questa Corte nella sentenza n. 16 del 2022, quanto da quella oggetto della più volte citata sentenza n. 74 del 2024.

Nel primo caso, questa Corte ha ritenuto la sussistenza di una incompatibilità costituzionalmente necessaria del GIP che abbia rigettato una prima richiesta di decreto penale di condanna del pubblico ministero, per non avere quest’ultimo contestato una circostanza aggravante la cui sussistenza sia desumibile dagli atti di indagine. La nuova richiesta di decreto penale di condanna in cui tale circostanza sia contestata, con conseguente mutamento del capo di imputazione, esige in effetti da parte del GIP una nuova valutazione sul merito dell’accusa, che necessariamente si sovrappone a quella compiuta in occasione della prima richiesta, e che da essa potrebbe risultare pregiudicata.

Ma la situazione è, altresì, strutturalmente differente anche da quella – oggetto della sentenza n. 74 del 2024, che ha invece escluso l’incompatibilità – in cui la prima richiesta sia stata rigettata in relazione alla riscontrata illegalità della pena. In questa specifica ipotesi, infatti, il rigetto della prima richiesta si fonda esclusivamente – come poc’anzi rammentato – sull’esame estrinseco della compatibilità della pena determinata dal pubblico ministero con le disposizioni applicabili alla fattispecie contestata nel capo di imputazione, sicché il GIP in realtà non compie ancora alcuna valutazione sul merito della regiudicanda. La ragione della ritenuta insussistenza di incompatibilità, dunque, è qui speculare e opposta rispetto a quella posta a base della presente decisione, dal momento che è soltanto in seguito alla seconda richiesta che il GIP è chiamato, ex novo, a esaminare compiutamente le risultanze probatorie, e conseguentemente a valutare la sufficienza di tali elementi, la correttezza della qualificazione giuridica del fatto, l’insussistenza di cause di non punibilità ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., oltre che la stessa congruità della pena rispetto alla gravità del fatto.

3.5.– Per tali ragioni, deve escludersi che il rigetto di una prima richiesta di decreto penale di condanna per mera incongruità della pena rispetto alla gravità del fatto renda il GIP incompatibile, per necessità costituzionale, a decidere su una successiva richiesta del pubblico ministero, in cui quest’ultimo si limiti ad adeguare la pena per un fatto configurato in maniera identica, sulla base delle medesime risultanze probatorie già sottoposte al medesimo GIP e da questi già compiutamente valutate in occasione della prima richiesta.

Dal che la non fondatezza della questione sollevata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 27, 101 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, primo paragrafo, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e all’art. 14, primo paragrafo, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Siena con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., sollevata, in riferimento all’art. 111 Cost., dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Siena con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 giugno 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 19 dicembre 2024