Sentenza n. 166 del 2024

SENTENZA N. 166

ANNO 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da: Presidente:

Augusto Antonio BARBERA

Giudici: Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 341-bis del codice penale, come modificato dall’art. 7, comma 1, lettera b-bis), del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53 (Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 2019, n. 77, promosso dal Tribunale ordinario di Trieste, sezione penale, in composizione monocratica, nel procedimento penale a carico di F. M. con ordinanza del 30 gennaio 2024, iscritta al n. 74 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2024.

Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 settembre 2024 il Giudice relatore Angelo Buscema;

deliberato nella camera di consiglio del 24 settembre 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale ordinario di Trieste, sezione penale, in composizione monocratica, con ordinanza iscritta al numero 74 del registro ordinanze 2024, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 341-bis del codice penale, come modificato dall’art. 7, comma 1, lettera b-bis), del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53 (Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 2019, n. 77, nella parte in cui prevede come minimo edittale la pena della reclusione di mesi sei.

1.1.– Riferisce il rimettente che, a seguito di decreto di citazione emesso dal pubblico ministero è stata disposta la comparizione a giudizio di F. M. per rispondere dei delitti di resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale di cui agli artt. 337 e 341-bis cod. pen. nonché della contravvenzione di cui all’art. 651 cod. pen. consistente nel rifiuto di fornire indicazioni sulla propria identità, tutti compiuti con un’unica azione esecutiva di un medesimo disegno criminoso ex art. 81 cod. pen.

1.2.– All’udienza predibattimentale del 27 novembre 2023 l’imputato presente e il difensore hanno chiesto di essere ammessi al giudizio abbreviato, che è stato ritualmente incardinato. All’esito della discussione il giudice a quo ha sollevato d’ufficio la predetta questione di legittimità costituzionale dell’art. 341-bis cod. pen.

2.– Ritiene il rimettente, quanto alla rilevanza della questione, che nel caso di specie è contestato, in aggiunta ad altre fattispecie, il reato di cui all’art. 341-bis cod. pen. e che, stante il rito speciale del giudizio abbreviato, è a lui demandato il vaglio di merito di ciascuna delle ipotesi contestate, tra le quali detto reato.

Il giudice monocratico di Trieste osserva che, essendo ciascuna delle contestazioni soggetta ad autonoma valutazione, nel caso si addivenga a pronuncia assolutoria quanto al reato di cui all’art. 337 cod. pen., emergerebbe come sia a quel punto da ritenersi più grave il reato di cui all’art. 341-bis cod. pen.

3.– Quanto alla non manifesta infondatezza rammenta il rimettente che, con la sentenza n. 341 del 1994, questa Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 341, primo comma, cod. pen. (Oltraggio a pubblico ufficiale), nella parte in cui prevedeva come minimo edittale la reclusione di sei mesi; reato che poi la legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario), ha integralmente abrogato.

3.1.– Ritiene il rimettente che il limite edittale di sei mesi, reintrodotto con d.l. n. 53 del 2019, come convertito, in ordine all’art. 341-bis cod. pen. si presterebbe a quei medesimi rilievi che supportarono la declaratoria di parziale illegittimità costituzionale ad opera della suddetta sentenza, senza che le diversità strutturali tra quella norma e l’attuale siano tali da eliderne o affievolirne la pertinenza anche all’odierna fattispecie.

3.2.– Rileva il giudice a quo che la suddetta pena minima sarebbe irragionevole in quanto l’art. 131-bis, terzo comma, numero 2), cod. pen. precluderebbe il riconoscimento della corrispondente causa di non punibilità «quando il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o agente di pubblica sicurezza o di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria nell’esercizio delle proprie funzioni».

3.3.– D’altra parte, l’irragionevolezza del minimo edittale in oggetto risalterebbe anche tenendo presente che in tal modo esso è stato determinato in misura eguale al reato più grave di resistenza a pubblico ufficiale.

Che il delitto punito dall’art. 337 cod. pen. sia più grave dell’oltraggio, rappresentandone nella sostanza, anche nell’ottica del legislatore, una sorta di progressione in termini di gravità, risalterebbe, secondo una percezione corrispondente al comune sentire, dalla connotazione oggettiva dei fatti riconducibili alle due fattispecie (atti di violenza e/o minaccia nel primo caso, mere esternazioni verbali ingiuriose nel secondo) e lo riconoscerebbe soprattutto il legislatore con il prevedere nel primo caso un massimo edittale di cinque anni di reclusione mentre nel secondo di tre anni, salvo contraddittoriamente equiparare i due reati nel minimo.

Dunque, l’equiparazione nel minimo edittale tra oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale precluderebbe al giudice rimettente di modulare la pena in modo congruo rispetto alla obiettiva gravità del fatto e si risolverebbe in una clausola irragionevole se rapportata alle stesse valutazioni del legislatore rispetto alla gravità decisamente maggiore del delitto ex art. 337 cod. pen.

3.4.– Le questioni apparirebbero non manifestamente infondate anche alla luce delle modifiche normative intervenute dopo la sentenza n. 341 del 1994, in quanto all’epoca della suddetta sentenza l’ingiuria era punita come reato mentre, nel quadro attuale, l’ingiuria verso un privato costituirebbe mero illecito civilistico e quella verso un pubblico ufficiale sarebbe punita con la reclusione di sei mesi nel minimo edittale.

3.5.– L’irragionevolezza del minimo edittale del reato di oltraggio si evincerebbe infine anche dall’art. 341-bis, ultimo comma, cod. pen. là dove prevede che il reato sia estinto solo se l’imputato abbia risarcito il danno prima del giudizio, perché, trattandosi di un delitto che lo stesso legislatore avrebbe previsto estinguibile con un ristoro pecuniario (senza che vi siano limiti alle volte in cui si possa beneficiare di detta previsione, emergendone i possibili effetti distorsivi dati dal fatto che un soggetto in grado di pagare ogni volta qualche centinaio di euro non sia mai condannabile per il reato, mentre un non abbiente rischia ogni volta una pena minima di sei mesi di reclusione), tale causa estintiva speciale costituirebbe un implicito riconoscimento della non particolare gravità del reato in sé, benché procedibile d’ufficio.

3.6.– Afferma poi il giudice a quo che la pena minima per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale risulterebbe sproporzionata in eccesso e a tal proposito i principi delineati da questa Corte con la citata sentenza n. 341 del 1994 apparirebbero oggi rafforzati dall’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo cui «[le] pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato».

Il principio di proporzionalità della pena sarebbe altresì riconosciuto esplicitamente sia dalla sentenza n. 284 del 2019, là dove questa Corte aveva rimarcato che il reato in esame trova la sua base giuridica non solo nell’art. 27, terzo comma, Cost., ma anche nell’art. 3 Cost., sia dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi, paragrafo 99; sentenza 9 luglio 2013, Vinter e altri contro Regno Unito, paragrafo 102).

4.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili per carenza di motivazione in punto di rilevanza o comunque non fondate.

4.1.– In via preliminare, la difesa statale eccepisce l’inammissibilità della questione in quanto nell’ordinanza di rimessione mancherebbe del tutto la motivazione circa l’effettiva riconducibilità dei fatti contestati a un’offesa del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice talmente lieve da far ritenere che anche il minimo edittale previsto dalla disposizione censurata sia del tutto sproporzionato, per eccesso, rispetto all’effettiva gravità dei fatti.

Tale carenza motivazionale sarebbe ancora più grave ove si tenga conto del fatto che, nell’ipotesi di condanna per tutti i reati contestati, non si potrebbe ritenere sproporzionato il minimo edittale previsto dall’art. 341-bis cod. pen., avendo il giudice rimettente correttamente affermato che, nel caso di specie, sarebbe applicabile la disciplina del reato continuato, dettata dall’art. 81 cod. pen., con conseguente determinazione della pena per il reato di cui all’art. 341-bis cod. pen. mediante aumento della pena prevista per il reato più grave, vale a dire quello previsto e punito dall’art. 337 cod. pen. e, sebbene sia prospettata l’eventualità dell’assoluzione per quest’ultimo reato, con conseguente necessità di determinare la pena per il reato di cui all’art. 341-bis cod. pen. in modo autonomo, si tratterebbe di evenienza assolutamente ipotetica.

4.2.– Le questioni sarebbero altresì non fondate in ragione delle differenze strutturali esistenti tra il delitto di cui all’art. 341 cod. pen. poi abrogato e il delitto di cui all’art. 341-bis cod. pen. così come esaminato da questa Corte nella sentenza n. 284 del 2019, in cui si darebbe conto della non irragionevolezza della scelta del legislatore nella determinazione del quadro edittale stabilito per il reato di cui all’art. 341-bis cod. pen. in ragione della stretta contestualità tra la condotta del reo e il compimento di uno specifico atto dell’ufficio da parte del pubblico ufficiale, affiancandosi alla duplice lesione dell’onore individuale del pubblico ufficiale che subisce l’offesa e del prestigio dell’amministrazione d’appartenenza una nuova dimensione di pericolo per la concreta attuazione della pubblica funzione svolta in concreto dal pubblico ufficiale.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Trieste, sezione prima penale, in composizione monocratica, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 341-bis, cod. pen., nella parte in cui punisce il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale con la pena minima della reclusione di sei mesi.

Il giudice a quo ritiene irragionevole la scelta – compiuta dal d.l. n. 53 del 2019, come convertito – di innalzare la pena minima dalla previgente soglia di quindici giorni a quella di sei mesi di reclusione, ritenendo che essa conduca all’irrogazione di pene sproporzionate, sia in rapporto all’effettiva offensività di una vasta gamma di concrete condotte sussumibili entro la fattispecie criminosa, sia rispetto alla pena, identica nel minimo, applicabile per il reato di resistenza a pubblico ufficiale, ritenuto più grave.

2.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per non avere il rimettente motivato in merito al carattere lieve dell’offesa, sì da ritenere irragionevole e sproporzionata per eccesso la pena minima prevista, tanto più che, in ipotesi di condanna anche per il più grave reato di cui all’art. 337 cod. pen. in continuazione con quello di oltraggio, la pena potrebbe essere aumentata, ex art. 81 cod. pen., anche di un solo giorno, con conseguente irrilevanza delle questioni.

3.– L’eccezione non è fondata.

Il giudice rimettente ha invero plausibilmente motivato in merito alla rilevanza delle questioni, riportando il capo di imputazione in cui è descritta in maniera chiara e dettagliata la concreta condotta oltraggiosa che è tenuto a giudicare e ha successivamente ampiamente esposto, in astratto ma mediante argomenti validi anche per il giudizio a quo, le ragioni che lo inducono a ritenere eccessiva la pena minima prevista dall’art. 341-bis cod. pen.

Peraltro, quand’anche questi decidesse di condannare l’imputato per il reato di oltraggio e per quello di resistenza a pubblico ufficiale in continuazione tra loro, la rilevanza delle questioni rimarrebbe intatta, perché, pur dovendo il rimettente, nel calcolare la pena dell’imputato, partire da quella prevista per il più grave reato di resistenza a pubblico ufficiale, suscettibile di aumento fino al triplo ex art. 81 cod. pen., è evidente che la valutazione circa l’entità concreta di tale aumento dipende dalla cornice edittale del reato di oltraggio e può essere, quindi, influenzata dall’eventuale accoglimento delle presenti questioni.

4.– Nel merito le questioni non sono fondate.

4.1.– In via preliminare, deve rilevarsi che, come si evince dalla lettura complessiva dell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo, nel censurare il minimo edittale di sei mesi di reclusione, mira a ripristinare la pena prevista per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale prima delle modifiche introdotte con il d.l. n. 53 del 2019, come convertito, in sintonia con la previsione generale dell’art. 23 cod. pen., secondo cui in assenza di una specifica indicazione la pena minima si intende fissata in 15 giorni di reclusione.

4.2.– Sempre in via preliminare, ritiene questa Corte necessaria una breve ricostruzione dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale.

L’art. 194 del codice Zanardelli del 1889 prevedeva che «[c]hiunque, con parole od atti, offende l’onore, la reputazione o il decoro di un pubblico ufficiale in sua presenza e a causa delle sue funzioni è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da lire cinquanta a tremila se l’offesa sia diretta ad un agente della forza pubblica o con la reclusione da un mese a due anni se l’offesa sia diretta ad un altro pubblico ufficiale» mentre il successivo art. 196 stabiliva che «[q]uando alcuno dei fatti preveduti negli articoli precedenti sia commesso contro il pubblico ufficiale non a causa delle sue funzioni ma nell’atto dell’esercizio pubblico di esse, si applicano le pene in esso stabilite diminuite da un terzo alla metà».

Il codice Rocco prevedeva all’art. 341 che: «[c]hiunque offende l’onore o il prestigio di un pubblico ufficiale, in presenza di lui e a causa o nell’esercizio delle sue funzioni, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni. La stessa pena si applica a chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritto o disegno, diretti al pubblico ufficiale, e a causa delle sue funzioni. La pena è della reclusione da uno a tre anni, se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Le pene sono aumentate quando il fatto è commesso con violenza o minaccia, ovvero quando l’offesa è recata in presenza di una o più persone».

Il minimo edittale di sei mesi previsto dalla norma incriminatrice è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 341 del 1994, che ha individuato «la pena minima da applicare per il reato in questione facendo riferimento al limite di quindici giorni fissato in via generale per la pena della reclusione dall’art. 23 cod. pen.».

La fattispecie incriminatrice è stata poi abrogata dall’art. 18 della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario). Le sezioni unite penali della Corte di cassazione, con la sentenza 27 giugno-17 luglio 2001, n. 29023, hanno tuttavia affermato che rimaneva comunque la possibilità che, qualora ne sussistessero in concreto i presupposti, il fatto restasse sanzionato sotto il profilo dell’offesa all’“onore” o al “decoro” ex artt. 594 (successivamente abrogato), che disciplinava il reato di ingiuria, e 61, numero 10, cod. pen. che prevede l’aggravante generica dell’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale.

Nel 2009 il reato di oltraggio è stato reintrodotto nel codice penale ad opera dell’art. 1, comma 8, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) con la stessa rubrica (oltraggio a pubblico ufficiale) ma con una nuova numerazione (non più art. 341 bensì art. 341-bis) e una nuova formulazione, prevedendosi una pena minima di quindici giorni e una massima di tre anni di reclusione.

Infine, nel 2019, la pena minima è stata innalzata dal d.l. n. 53 del 2019, come convertito, ai sei mesi di reclusione attualmente in vigore.

4.3.– La vigente formulazione del reato di oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341-bis cod. pen.) prevede che: «[c]hiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni». Sono previste due circostanze speciali: «se il fatto è commesso dal genitore esercente la responsabilità genitoriale o dal tutore dell’alunno nei confronti di un dirigente scolastico o di un membro del personale docente, educativo o amministrativo della scuola» (con aumento della pena fino alla metà) e «se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato». Se, però, «la verità del fatto è provata o se per esso l’ufficiale a cui il fatto è attribuito è condannato dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’offesa non è punibile». Il quarto comma del medesimo art. 341-bis, cod. pen., poi, stabilisce l’estinzione del reato se «l’imputato, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno, mediante risarcimento di esso sia nei confronti della persona offesa sia nei confronti dell’ente di appartenenza della medesima». Infine, l’art. 393-bis cod. pen. prevede una causa di non punibilità nell’ipotesi in cui il pubblico ufficiale abbia dato causa al fatto, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni.

4.4.– Il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale di cui al vigente art. 341-bis cod.pen., a differenza della fattispecie criminosa prevista dall’abrogato art. 341 cod. pen., richiede necessariamente e contestualmente che la condotta oltraggiosa: 1) si svolga in luogo pubblico o aperto al pubblico; 2) avvenga in presenza di più persone; 3) si svolga mentre il pubblico ufficiale compia un atto del suo ufficio; 4) offenda l’onore «ed» il prestigio di un pubblico ufficiale.

4.4.1.– I primi due elementi costitutivi del “nuovo” reato di oltraggio – non richiesti dalla precedente norma incriminatrice – consistono nel fatto che l’offesa deve essere commessa in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, il che comporta una lesione della reputazione del pubblico ufficiale e del prestigio e dell’immagine della pubblica amministrazione.

4.4.2.– Il terzo elemento specializzante, rispetto alla precedente fattispecie di oltraggio, richiede che il delitto sia integrato solo se la condotta offensiva sia posta in essere nel momento in cui il pubblico ufficiale sta compiendo un atto doveroso del suo ufficio e quindi laddove è massimo il danno che tale condotta può arrecare.

4.4.3.– L’ultimo elemento di novità richiede infine che siano offesi, al contempo, sia l’onore che il prestigio del pubblico ufficiale, a differenza di quanto previsto nella previgente norma incriminatrice, che riteneva sufficiente la lesione dell’uno o dell’altro bene (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 17 marzo-13 aprile 2016, n. 15440).

Infatti, come questa Corte ha già affermato, il “nuovo” reato di oltraggio di cui all’art. 341-bis cod. pen. con «l’introduzione di un requisito di stretta contestualità tra la condotta del reo e il compimento di uno specifico atto funzionale (requisito espresso dalla locuzione “mentre compie un atto d’ufficio”) ha configurato un “delitto offensivo anche del buon andamento della pubblica amministrazione, sub specie di concreto svolgimento della (legittima) attività del pubblico ufficiale, non diversamente da quanto accade […] per il delitto di cui all’art. 337 cod. pen.” (sentenza n. 284 del 2019)» (sentenza n. 30 del 2021).

Come pure questa Corte ha avuto modo di precisare, il requisito in parola conferisce alla fattispecie «una nuova dimensione di pericolo per la concreta attuazione dello specifico atto d’ufficio che la condotta del reo mira evidentemente ad ostacolare, e dunque per il regolare esercizio della pubblica funzione svolta in concreto dal pubblico ufficiale. Esercizio che, vale la pena rammentarlo, deve essere legittimo e non arbitrario, configurandosi altrimenti in favore del privato la scriminante di cui all’art. 393-bis cod. pen.» (sentenza n. 284 del 2019).

5.– Tali nuovi requisiti introdotti dal legislatore restringono significativamente l’ambito applicativo della nuova fattispecie di oltraggio rispetto alla precedente, oggetto della sentenza n. 341 del 1994, arricchendone la dimensione offensiva e selezionando condotte di apprezzabile gravità, che rendono non intrinsecamente sproporzionata né contraria al principio rieducativo la previsione di una pena minima di sei mesi di reclusione. Ciò alla luce del costante orientamento di questa Corte che riconosce l’ampia discrezionalità del legislatore nella definizione della politica criminale, e in particolare nella determinazione delle pene applicabili a chi abbia commesso reati, così come nella stessa selezione delle condotte costitutive di reato (ex multis, sentenze n. 207 del 2023 e n. 117 del 2021).

D’altra parte, la “nuova” fattispecie di oltraggio condivide ora con la fattispecie di resistenza a un pubblico ufficiale di cui all’art. 337 cod. pen., assunta a tertium comparationis dal rimettente, pur nella diversità delle condotte sanzionate, una medesima direzione offensiva rispetto al regolare svolgimento della pubblica funzione, bene di immediata rilevanza costituzionale ai sensi dell’art. 97, comma secondo, Cost. Ciò rende non manifestamente irragionevole, né arbitraria, la scelta del legislatore di prevedere la medesima pena minima per i entrambi i reati.

6.– Infine, non può non osservarsi che, con riferimento ai reati a citazione diretta come quello in questione, l’art. 554-bis del codice di procedura penale recentemente introdotto dall’art. 32, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), ha inserito l’udienza di comparizione predibattimentale (all’esito della quale il giudice rimettente ha sollevato la presente questione di legittimità costituzionale), per favorire il ricorso a strumenti di giustizia riparativa; è risultato infatti ampliato il momento in cui possono esplicarsi le attività per le quali è previsto, come termine, l’apertura del dibattimento e tra queste vi sono, appunto, le condotte riparatorie ex art. 162-ter cod. pen. (sentenza n. 45 del 2024).

In effetti, deve considerarsi che per questa tipologia di reato è possibile il ricorso al suddetto strumento della giustizia riparativa che consente di responsabilizzare l’autore dell’offesa e recuperare le relazioni interpersonali danneggiate dal reato, contribuendo a restituire un’immagine positiva all’azione della pubblica amministrazione (in senso analogo, sentenza n. 71 del 2024).

7.– Da tutto ciò consegue la non fondatezza delle questioni sollevate in riferimento a tutti i parametri evocati.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 341-bis, del codice penale, come modificato dall’art. 7, comma 1, lettera b-bis), del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53 (Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 2019, n. 77, sollevate dal Tribunale ordinario di Trieste, sezione penale, in composizione monocratica, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 settembre 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Angelo BUSCEMA, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 22 ottobre 2024