Sentenza n. 48 del 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da: Presidente:

Augusto Antonio BARBERA;

Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 529 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, nel procedimento penale a carico di D. B., con ordinanza del 20 febbraio 2023, iscritta al n. 37 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2023, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 5 marzo 2024.

Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 marzo 2024 il Giudice relatore Stefano Petitti;

deliberato nella camera di consiglio del 6 marzo 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 20 febbraio 2023, iscritta al n. 37 del registro ordinanze 2023, il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 529 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3, 13 e 27, terzo comma, della Costituzione, «nella parte in cui, nei procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso».

Il rimettente espone di dover giudicare sulle imputazioni per omicidio colposo aggravato da violazione delle norme antinfortunistiche e pertinenti reati contravvenzionali in materia di sicurezza sul lavoro, ascritte a D. B. per avere questi cagionato, quale titolare della ditta esecutrice dei lavori di riparazione del tetto di un capannone, in concorso con B. N., committente dell’opera, la morte di N. B., dipendente “in nero” dello stesso D. B. e suo nipote ex fratre, precipitato dalla copertura dell’edificio a causa del cedimento del piano di lavoro, ove si era sviluppato un incendio, in mancanza dei prescritti dispositivi anticaduta.

1.1.– A proposito della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, il Tribunale di Firenze assume che «l’imputato, per effetto della propria condotta e più precisamente in relazione alla morte del nipote che egli stesso ha contribuito a cagionare, ha certamente già patito una sofferenza morale proporzionata alla gravità del reato commesso, con la conseguenza che un’ulteriore pena inflitta con la sentenza di condanna risulterebbe sproporzionata».

A migliore definizione della fattispecie, l’ordinanza di rimessione aggiunge che D. B. «era l’unico membro della famiglia di origine del nipote presente in Italia e costituiva un punto di riferimento per lo stesso», tanto che la notte precedente il sinistro il ragazzo aveva dormito a casa dello zio; quest’ultimo d’altronde lavorava nello stesso cantiere, esposto ai medesimi rischi, e infatti, al loro arrivo sul posto, i carabinieri l’avevano trovato «accovacciato vicino al giovane, nel disperato e vano tentativo di rianimarlo».

Secondo il rimettente, dunque, nella specie, «qualora fosse introdotta l’auspicata possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere – onde evitare l’applicazione di una pena che risulterebbe sproporzionata in considerazione del dolore già patito dall’autore del reato – l’imputato potrebbe senz’altro beneficiarne».

1.2.– A proposito della non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo ritiene che la denunciata lacuna normativa violi i principi costituzionali di necessità, proporzionalità e umanità della pena.

Evocata la teorica della poena naturalis, come recepita da alcuni ordinamenti stranieri (quello tedesco innanzitutto) e più volte trattata nell’elaborazione dei progetti di riforma della legislazione italiana (in particolare nell’ambito dei lavori delle Commissioni “Pagliaro” e “Pisapia”), il rimettente argomenta che la pena potrebbe risultare «non necessaria ed eccessiva qualora, per effetto dello stesso fatto illecito, il relativo autore abbia già subito un’afflizione paragonabile a quella che lo Stato vorrebbe produrre con la propria sanzione o addirittura notevolmente superiore, quale quella normalmente conseguente alla morte di un prossimo congiunto», secondo la definizione che dei «prossimi congiunti» fornisce l’art. 307, quarto comma, del codice penale.

La sanzione irrogata in aggiunta a una pena naturale di per sé sufficiente sarebbe percepita dai consociati e dal condannato alla stregua di «un crudele accanimento dello Stato», inidonea quindi ad assolvere la funzione rieducativa, oltre che inefficace nella prospettiva di ogni possibile declinazione finalistica della pena (generalpreventiva, specialpreventiva e retributiva); essa si risolverebbe in un trattamento contrario al senso di umanità, «fredda conseguenza di rigidi automatismi, quasi l’applicazione di un sillogismo, noncurante della sottostante vicenda umana di sofferenza».

Ad avviso del Tribunale di Firenze, gli evocati principi costituzionali imporrebbero dunque di «riservare al giudice la possibilità – una volta valutate la gravità della colpa, la relazione tra vittima e autore del reato e le altre circostanze del caso concreto – di astenersi dal condannare l’imputato».

I denunciati profili di illegittimità costituzionale non sarebbero esclusi dall’astratta possibilità della sospensione condizionale della pena, della quale potrebbero non sussistere in concreto i presupposti e la cui concessione precluderebbe comunque un ulteriore riconoscimento del beneficio in relazione a fatti diversi.

Ritenuta insussistente una soluzione costituzionalmente obbligata, il rimettente propone come adeguata quella dell’integrazione delle cause di improcedibilità, sottolineando d’altronde come, alla luce del tenore letterale della disposizione censurata, ne risulti impraticabile un’interpretazione adeguatrice.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi le questioni inammissibili o non fondate.

2.1.– L’inammissibilità discenderebbe dai seguenti concorrenti assunti.

In primo luogo, la rilevanza della pena naturale non potrebbe essere introdotta nell’ordinamento giuridico se non dal legislatore, che, tra l’altro, nell’esercizio della sua discrezionalità, dovrebbe stabilire il grado di parentela significativo a questi fini.

Inoltre, la sentenza di non doversi procedere ex art. 529 cod. proc. pen. non si attaglierebbe alla fattispecie in esame, perché essa è atto di natura strettamente processuale, mentre la rilevanza della pena naturale richiederebbe comunque un accertamento di fatto.

Il rimettente non avrebbe poi valutato, e dovrebbe quindi farlo previa eventuale restituzione degli atti, se nella specie sia applicabile una pena sostitutiva della pena detentiva breve, a norma degli artt. 20-bis cod. pen. e 545-bis cod. proc. pen., introdotti rispettivamente dagli artt. 1, comma 1, lettera a), e 31, comma 1, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari).

Da ultimo, il giudice avrebbe comunque la possibilità di moderare la pena in relazione al grado della colpa del reo e ai suoi rapporti con l’offeso, in applicazione delle circostanze soggettive del reato di cui all’art. 70 cod. pen., a tal fine soccorrendo altresì l’istituto delle attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen. e i criteri dosimetrici dell’art. 133 del medesimo codice.

2.2.– Nel merito, le questioni sarebbero non fondate, perché inficianti «il fondamento stesso della punibilità colposa».

Infatti, quale reato non intenzionale, il reato colposo produrrebbe sempre nell’autore un’«acuta sofferenza» per aver egli danneggiato qualcuno senza volerlo.

Pertanto, ammessa la rilevanza della pena naturale per i reati tra congiunti, i confini della non punibilità verrebbero poi a includere quasi tutte le ipotesi di reato colposo, anche nei rapporti non familiari, «quali ad esempio quello intercorrente tra maestro e allievo (nell’ipotesi di lesione o morte a seguito di omissione di sorveglianza) o anche medico-paziente, fino ad estendersi anche nei confronti del pedone sconosciuto».

Risulterebbe così vanificato l’intero sistema della punibilità per colpa, nonostante esso protegga i soggetti più fragili, appunto perché «[l]a posizione di garanzia espone il destinatario al maggiore onere di attenzione e di diligenza nei confronti del soggetto tutelato, che, a ben vedere, raggiunge naturalmente il suo apice laddove si tratti di un congiunto».

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 529 cod. proc. pen., «nella parte in cui, nei procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso».

A causa di tale omessa previsione, la disposizione censurata violerebbe gli artt. 3, 13 e 27, terzo comma, Cost., sotto i profili della necessità, proporzionalità e umanità della pena, in quanto costringerebbe il giudice a infliggere una sanzione che, atteso il dolore già patito dal reo per la perdita del familiare, risulterebbe in concreto inutile, eccessiva e crudele.

Questo potrebbe accadere nella fattispecie oggetto del giudizio principale, relativa all’omicidio colposo con violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro, imputato a uno zio per la morte del nipote, suo dipendente.

Occorrerebbe pertanto «riservare al giudice la possibilità – una volta valutate la gravità della colpa, la relazione tra vittima e autore del reato e le altre circostanze del caso concreto – di astenersi dal condannare l’imputato».

2.– Intervenuto in giudizio tramite l’Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per molteplici aspetti.

2.1.– Le questioni di legittimità costituzionale sarebbero inammissibili poiché il rimettente non avrebbe considerato la possibilità di applicare una pena sostitutiva della pena detentiva breve, a norma degli artt. 20-bis cod. pen. e 545-bis cod. proc. pen., introdotti rispettivamente dagli artt. 1, comma 1, lettera a), e 31, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2022, né la possibilità di moderare l’entità della pena mediante l’esercizio della discrezionalità regolata dall’art. 133 cod. pen. e il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

2.1.1.– L’eccezione non è fondata. Giacché riguarda la qualità e la quantità della pena, essa non risulta, infatti, conferente alle sollevate questioni, che attengono più in radice all’an della sanzione, la quale, secondo il petitum additivo, non dovrebbe essere irrogata affatto, concludendosi il procedimento con una sentenza in rito.

2.2.– La difesa statale ha eccepito l’inammissibilità delle questioni anche sotto il profilo della discrezionalità riservata al legislatore nella configurazione della sanzione penale e delle cause di improcedibilità.

2.2.1.– Anche tale eccezione non è fondata.

Da sempre questa Corte ha riconosciuto l’ampia discrezionalità del legislatore nella definizione della politica criminale, con il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle sue scelte.

Orbene, il Tribunale di Firenze assume che l’omessa previsione di una causa di improcedibilità per le ipotesi indicate nell’ordinanza di rimessione segnali appunto un’irragionevolezza manifesta, una lacuna capace di determinare la torsione della pena da sanzione rieducativa a «crudele accanimento dello Stato».

Dunque, anche da tale punto di vista, la denuncia può accedere allo scrutinio di merito.

3.– Nel merito, le questioni non sono fondate.

4.– Il rimettente evoca la nozione di “pena naturale”, sintagma che rimanda al potere giudiziale – configurato in alcuni ordinamenti europei – di non irrogare la pena, o di irrogarla in misura attenuata, quando l’autore del reato abbia patito un danno significativo in conseguenza del reato stesso (paragrafo 60 del codice penale tedesco, paragrafo 34 del codice penale austriaco, articolo 29 del codice penale svedese).

L’ordinanza di rimessione espone tuttavia un petitum talmente ampio da risultare incompatibile con la tesi della sussistenza di un corrispondente vincolo costituzionale, e questa valutazione trova conferma nelle caratteristiche peculiari della fattispecie oggetto del giudizio principale.

5.– L’eccessiva latitudine della richiesta di pronuncia additiva si manifesta sotto tre distinti aspetti, ognuno dei quali sufficiente ad inficiarne la fondatezza.

5.1.– In primo luogo, riferendosi indistintamente ai «procedimenti relativi a reati colposi», il giudice a quo chiede di introdurre la causa di improcedibilità con riguardo a ogni condotta colposa che abbia causato la morte di un congiunto del reo.

L’indicazione della natura colposa del reato è sufficiente a escludere l’omicidio preterintenzionale (art. 584 cod. pen.) e la morte come conseguenza non voluta di un delitto doloso (art. 586 cod. pen.), ma, attesa la sua portata generale, non vale a distinguere in alcun modo all’interno della nozione di colpa, che pure ha carattere ontologicamente multiforme.

5.1.1.– Ai sensi dell’art. 43, primo comma, cod. pen., il delitto «è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline».

Le varie specie di colpa enucleabili da questa nozione omnicomprensiva – colpa generica («negligenza o imprudenza o imperizia») e colpa specifica («inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline»), colpa incosciente (senza previsione dell’evento) e colpa cosciente (con previsione dell’evento), colpa comune (fondata su una posizione di garanzia non tecnica) e colpa professionale (fondata su una posizione di garanzia qualificata) – sono considerate dal rimettente in maniera ellittica, senza alcun distinguo interno.

Esse possono viceversa corrispondere a ipotesi molto diverse tra loro sotto il profilo criminologico e della protezione dei beni, e non soltanto perché la natura cosciente della colpa integra una circostanza aggravante comune (art. 61, primo comma, numero 3, cod. pen.), ma anche per la particolare pregnanza della colpa specifica e professionale, nella quale tipicamente incorrono gli agenti titolari di un obbligo di garanzia regolato a protezione di soggetti particolarmente esposti (tra questi il datore di lavoro nei confronti dei dipendenti, a norma dell’art. 2087 del codice civile).

Peraltro, il riferimento del petitum del Tribunale di Firenze ai «reati» colposi – e non ai soli delitti – lascia intendere che la prospettata causa di improcedibilità dovrebbe investire anche le contravvenzioni, le quali, per tali fini, andrebbero considerate appunto reati colposi, in base all’art. 43, secondo comma, cod. pen., ciò che svilirebbe la funzione preventiva delle pertinenti norme incriminatrici (nel giudizio a quo risultano ascritte all’imputato numerose contravvenzioni per inosservanza delle misure di sicurezza dei lavoratori).

5.2.– Ad avviso del rimettente, la sentenza di non doversi procedere dovrebbe potersi pronunciare per il reato colposo che cagioni la morte di un «prossimo congiunto» dell’agente, sul presupposto che la perdita di un familiare infligga all’agente medesimo una sofferenza intima – una pena naturale appunto – tale che l’ulteriore pena irrogata nel processo risulterebbe inutile.

Ciò postula che tra il reo e la vittima sussista un rapporto affettivo considerato dall’ordinamento – in base all’id quod plerumque accidit – di una tale intensità da far presumere l’equivalenza sostanziale tra pena naturale e pena giuridica.

5.2.1.– La nozione penalistica di «prossimo congiunto» è fornita dall’art. 307, quarto comma, cod. pen., per cui, «[a]gli effetti della legge penale, s’intendono per prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti».

Si tratta di un novero soggettivo molto ampio, che si estende ben oltre la famiglia nucleare, fino a includere rapporti di parentela in linea collaterale di grado inferiore al secondo (come quello di specie, tra zio e nipote), e persino vincoli di affinità (tranne che sia morto il coniuge e non vi sia prole, come precisa lo stesso art. 307, quarto comma).

Non ha riscontri nei termini di un vincolo costituzionale la tesi che intende coprire questo esteso spettro di relazioni personali con una causa di improcedibilità fondata sul dolore patito dal reo per la morte del familiare colposamente determinata.

5.3.– Censurando l’art. 529 cod. proc. pen., il Tribunale di Firenze chiede che sia attribuita al giudice la possibilità «di emettere sentenza di non doversi procedere» in favore dell’agente che abbia cagionato per colpa la morte del congiunto.

Ad oggetto dell’additiva viene quindi indicata la formula terminativa di maggior favore per l’autore del reato, sull’implicito presupposto che, negli ipotizzati casi di rilevanza della pena naturale, sia necessario risparmiargli anche la sofferenza dell’instaurazione o della prosecuzione del processo.

5.3.1.– Come questa Corte ha osservato a proposito della tenuità del fatto, configurare un evento quale causa di non procedibilità ha effetti ben diversi che farne una causa di non punibilità, in particolare, riguardo all’iscrizione della pronuncia nel casellario giudiziario, all’idoneità della stessa a formare il giudicato sull’illiceità penale della condotta e, di conseguenza riguardo all’impugnabilità della pronuncia medesima (sentenza n. 120 del 2019).

Orbene, non vi sono ragioni costituzionali in base alle quali la pena naturale da omicidio colposo del prossimo congiunto debba integrare una causa di non procedibilità, anziché, in thesi, un’esimente di carattere sostanziale, ovvero ancora una circostanza attenuante soggettiva.

6.– Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Firenze devono quindi essere dichiarate non fondate.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 529 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 13 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 marzo 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Stefano PETITTI, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 25 marzo 2024