SENTENZA N. 39
ANNO 2021
Commento alla decsione di
Chiara Doria
L’imposta di registro tra legislatore e interprete.
Nota a Corte Cost. n. 39 del 2021
per g.c. dell’Osservatorio costituzionale AIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giancarlo CORAGGIO
Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 20 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), come modificato dall’art. 1, comma 87, lettera a), numeri 1) e 2), della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), e dell’art. 1, comma 1084, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Bologna nel procedimento vertente tra la Pag Italy srl e altri e l’Agenzia delle entrate - Direzione provinciale di Bologna, con ordinanza del 13 novembre 2019, iscritta al n. 62 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2020.
Visti l’atto di costituzione della Pag Italy srl, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 9 febbraio 2021 il Giudice relatore Luca Antonini;
uditi l’avvocato Paolo Biavati per la Pag Italy srl e l’avvocato dello Stato Gianna Maria De Socio per il Presidente del Consiglio dei ministri, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020;
deliberato nella camera di consiglio del 9 febbraio 2021.
Ritenuto in fatto
1.– La Commissione tributaria provinciale di Bologna (di seguito: CTP), con ordinanza del 13 novembre 2019 (reg. ord. n. 62 del 2020), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:
a) in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dell’art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), «come risultante dall’intervento apportato» dall’art. 1, comma 87, lettera a), numeri 1) e 2), della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), «nella parte in cui dispone che, nell’applicare l’imposta di registro secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, “prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”»;
b) in subordine, in riferimento agli «artt. 3, 81 (e 97), 101 (nonché 102 e 108), 24 Cost.», dell’art. 1, comma 1084, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), in forza del quale il citato art. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017 «costituisce interpretazione autentica» del censurato art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986.
1.1.– Il rimettente riferisce che le questioni sono sorte nel corso di sei giudizi riuniti originati da autonomi ricorsi con cui le società Pag Italy srl, Immobiliare 37 spa, Immobiliare 36 spa e Immobiliare 38 spa hanno impugnato distinti avvisi di liquidazione per il recupero dell’imposta proporzionale di registro, aventi ad oggetto la riqualificazione come cessione di azienda – riqualificazione effettuata dall’ente impositore ai sensi dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 – di atti «di conferimento di ramo di azienda e successiva cessione di partecipazioni totalitarie», rogitati nel 2016 e registrati con imposta in misura fissa.
Il giudice a quo precisa che: a) le società ricorrenti hanno articolato i medesimi motivi di gravame; b) la costituita Agenzia delle entrate ha chiesto l’integrale rigetto dei ricorsi; c) le suddette società, con successive memorie illustrative, hanno invocato, a ulteriore sostegno dell’illegittimità della riqualificazione operata dall’Ufficio fiscale, lo ius superveniens di cui al citato art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018.
Ciò premesso il rimettente: a) afferma che la pretesa impositiva in contestazione nel giudizio principale si fonda sull’applicazione dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986; b) ricorda che la previgente formulazione di tale norma, ai sensi della quale «[l]’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente», è stata «per lungo tempo oggetto di dibattito» nella giurisprudenza di legittimità, che «nell’ultimo decennio» si è consolidata nel senso di attribuire prevalenza al «dato giuridico reale» anche attraverso la riqualificazione di più atti tra loro collegati; c) precisa che, per effetto del citato art. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017, «l’area di operatività del [menzionato] art. 20 tur […] risulta ristretta»; d) ribadisce che, quanto al «tema della decorrenza temporale della novella», il legislatore è da ultimo intervenuto con il già citato art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018, stabilendo che «[l]’articolo 1, comma 87, lettera a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205, costituisce interpretazione autentica dell’articolo 20, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131», così attribuendogli efficacia retroattiva.
1.2.– Quanto alla rilevanza, il rimettente, dopo aver illustrato le ragioni di infondatezza delle censure diverse da quelle relative all’interpretazione del menzionato art. 20, conclude che non è possibile decidere la controversia senza fare applicazione delle norme denunciate, in quanto retroattive.
1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, la CTP assume, in via principale, che l’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 violerebbe gli artt. 3 e 53 Cost.
Dopo aver premesso di prospettare le questioni di legittimità costituzionale richiamando i motivi già indicati dalla Corte di cassazione, sezione tributaria, nell’ordinanza di rimessione del 23 settembre 2019, n. 23549 (iscritta al n. 212 del registro ordinanze del 2019), il giudice a quo osserva che «[l]a riforma del 2017» avrebbe ridotto «la possibilità di interpretare il negozio giuridico da tassare entro limiti asfittici». In tal modo, il legislatore avrebbe impedito di tenere conto della capacità contributiva, che invece emergerebbe dalla semplice applicazione delle «regole interpretative civilistiche», idonee ad apprezzare l’atto-negozio e non solo l’atto-documento.
Sebbene al legislatore sia consentito, nella sua discrezionalità, di disciplinare in maniera diversa situazioni differenti, il suo agire – secondo il rimettente – dovrebbe essere finalizzato a realizzare una «giustizia fiscale», la quale imporrebbe «una coerenza interna alla legge tributaria; nonché una coerenza di questa con il sistema giuridico nel suo complesso».
Da ciò discenderebbe l’«ormai consolidato principio della “indisponibilità della qualificazione contrattuale ai fini fiscali”», per effetto del quale, pur nel rispetto della libertà contrattuale dei privati (art. 1322 del codice civile), l’attuazione del canone della capacità contributiva non potrebbe che «prescindere da qualsivoglia dichiarazione negoziale, richiedendo esclusivamente la misurazione del reale movimento di ricchezza».
1.4.– Ove le questioni sollevate in via principale fossero dichiarate non fondate, il rimettente prospetta in via subordinata, in riferimento agli «artt. 3, 81 (e 97), 101 (nonché 102 e 108), 24 Cost.», l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018, che qualifica come norma di interpretazione autentica l’art. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017.
La CTP, dopo aver premesso che «[i]l fenomeno di creazione di norme effettivamente innovative mascherate da norme interpretative con efficacia retroattiva non è questione decisiva ai fini dell’incostituzionalità delle stesse», a condizione però che la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altri valori o interessi costituzionalmente protetti, sostiene che il citato art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018 violerebbe, innanzitutto, l’art. 3 Cost. per tre profili di irragionevolezza.
Il primo atterrebbe innanzitutto alla mancanza di un «persistente contrasto interpretativo» da risolvere «in nome del supremo principio, nazionale e sovranazionale, di certezza del diritto»: infatti la giurisprudenza di legittimità avrebbe, «pressoché unanimemente», affermato la natura innovativa e non interpretativa dell’intervento legislativo del 2017 (sono citate le sentenze della Corte di cassazione, sezione quinta civile, 26 gennaio 2018, n. 2007; 23 febbraio 2018, n. 4407; 28 febbraio 2018, n. 4589; 28 febbraio 2018 n. 4590; 28 marzo 2018, n. 7637; 8 giugno 2018, n. 14999; 9 gennaio 2019, n. 362).
Inoltre, prima del suddetto intervento, una situazione di «certezza del diritto […] poteva dirsi raggiunta alla luce della uniforme applicazione dell’art. 20 (vecchio testo) da parte della giurisprudenza di legittimità»; anziché tutelare detto principio, il legislatore avrebbe invece irragionevolmente «forzato l’applicazione» della riformulazione operata dall’art. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017, imponendola a fattispecie poste in essere nel vigore del previgente 20 del d.P.R. n. 131 del 1986.
Il secondo profilo di irragionevolezza, strettamente collegato al precedente, riguarderebbe la non «prevedibilità del significato precisato» dalla norma indubbiata, stante – sempre ad avviso del rimettente – il «carattere della novità» dell’appena citato art. 1, comma 87.
Il terzo, infine, discenderebbe dall’impossibilità di giustificare la retroattività disposta dalla norma denunciata con «“motivi imperativi di interesse generale”», secondo il principio desumibile dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, «che la giurisprudenza costituzionale tradu[rrebbe] nell’ordinamento italiano come “tutela di principi, diritti e beni di rilievo costituzionale”»: al contrario, proprio l’intervento normativo del 2017 lederebbe i principi di parità di trattamento e di capacità contributiva di cui agli artt. 3 e 53 Cost.
La disposizione censurata recherebbe, inoltre, un vulnus agli artt. 81 e 97 Cost., sotto il profilo del «fondamentale principio dell’equilibrio di bilancio».
L’imposizione della retroattività priverebbe infatti, a parere del giudice a quo, «l’erario […] di diritti che [sarebbero] già acquisiti all’erario stesso, sia pure in nuce», con un conseguente squilibrio di bilancio e una perdita di risorse economiche «necessarie ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’Unione Europea».
Sarebbero altresì lesi gli artt. 101, 102 e 108 Cost., in quanto «[p]ur se la questione della sussistenza di una riserva di giurisdizione è tema controvertibile (e denso di implicazioni dogmatiche e politiche), non vi è dubbio che, nel caso di specie, il legislatore [sarebbe intervenuto] “a piè pari”, per interpretare una norma, in senso radicalmente difforme rispetto alla interpretazione unanime della giurisprudenza».
Risulterebbe, infine, violato l’art. 24 Cost., poiché l’art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018 menomerebbe l’Agenzia delle entrate nel diritto di difendersi «secondo la legislazione su cui aveva impostato la propria costituzione con le controdeduzioni».
Successivamente al deposito dell’ordinanza di rimessione il medesimo Collegio della CTP di Bologna ha emesso ordinanza di correzione «di errore materiale, sia pure per omissione» al fine di precisare che, nel dispositivo, la seconda questione di legittimità, ivi genericamente indicata, era da riferirsi «all’art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018».
2.– Con atto depositato il 12 giugno 2020, si è costituita la Pag Italy srl, chiedendo che tutte le questioni siano dichiarate non fondate.
2.1.– La società ritiene che la censura rivolta all’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, come risultante dall’intervento normativo del 2017, si risolverebbe «in realtà, in una critica di merito nei confronti della scelta del legislatore», senza tenere conto delle specifiche finalità dell’imposta di registro in rapporto alle quali tale scelta andrebbe invece valutata. La tesi giurisprudenziale della “prevalenza della sostanza sulla forma” sarebbe, infatti, condivisibile solo se rapportata al singolo atto, comportando invece, ove si sia al cospetto di elementi extratestuali o di atti collegati, un inammissibile controllo dell’amministrazione finanziaria sulle opzioni del contribuente. Del resto, proprio la specialità delle norme tributarie renderebbe legittimo il riferimento unicamente agli elementi intrinseci dell’atto, senza che assumano rilievo le «norme civilistiche che regolano l’interpretazione contrattuale fra privati».
2.2.– Ad avviso della Pag Italy srl, anche le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018 sarebbero non fondate.
In particolare, quanto alla prospettata violazione delle norme in tema di riserva di giurisdizione e, in specie, degli artt. 101, 102 e 108 Cost., la società innanzitutto rileva che, contrariamente a quanto asserito dal rimettente, prima dell’entrata in vigore della norma censurata una parte della giurisprudenza di merito aveva riconosciuto natura di interpretazione autentica all’art. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017 e che «neppure la Cassazione par[rebbe] totalmente granitica». Ciò premesso, la parte privata precisa che «[i]n ogni caso» sarebbero legittime le norme dirette a smentire «orientamenti, anche consolidati, dalla giurisprudenza», poiché, nel quadro costituzionale di un ordinamento democratico, «la volontà del Parlamento, eletto dal popolo», dovrebbe prevalere su quella del potere giudiziario, «che è chiamato ad applicare e non a porre le norme».
In questa prospettiva non sarebbe fondata neppure la doglianza inerente alla lesione del principio di ragionevolezza: il legislatore, «qualora reputi che la giurisprudenza stia svuotando di contenuto una norma, limitandone l’applicazione ai casi futuri e non anche a quelli pendenti», ben potrebbe intervenire richiamando «il potere giudiziario ad una lettura della norma, conforme a ciò che il Parlamento ha voluto».
Infine, non sarebbe condivisibile nemmeno la prospettata violazione dell’art. 24 Cost., in quanto «[s]emplicemente» l’amministrazione finanziaria avrebbe errato nell’interpretare il censurato art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986.
3.– Con atto depositato il 30 giugno 2020, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque manifestamente infondate.
3.1.– La difesa statale eccepisce preliminarmente l’inammissibilità delle questioni aventi a oggetto l’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, perché il rimettente avrebbe del tutto omesso di sperimentare la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme della norma censurata.
Al riguardo, l’Avvocatura generale osserva che, con l’art. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017, il legislatore avrebbe voluto «radicalmente escludere […] che l’attività di interpretazione disciplinata dall’art. 20 del D.P.R. 131/1986 venisse utilizzata per valutare ipotesi di collegamenti negoziali rilevanti in termini di abuso del diritto», confermando tuttavia il principio della prevalenza della sostanza sulla forma insito nella formulazione originaria.
Del resto, proprio il mantenimento inalterato della «proposizione reggente dell’intera disposizione» (per cui l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente) e l’art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018, con cui il legislatore ha precisato la natura interpretativa della precedente modifica, avvalorerebbero la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata del citato art. 20, conforme agli artt. 3 e 53 Cost. E infatti, in esito a un «adeguato bilanciamento semantico» tra la prima e la seconda parte di tale norma, il divieto di prendere in considerazione gli elementi extratestuali e gli atti collegati dovrebbe essere circoscritto a quelli estranei «ad un programma negoziale che risultasse obiettivamente unitario, sì da importarne l’esclusione dal concetto di “atto”».
3.2.– Nel merito, la difesa statale esamina unitariamente entrambe le censure e ribadisce che gli interventi normativi del 2017 e del 2018 non avrebbero modificato la ratio originaria dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986.
Secondo l’Avvocatura generale, infatti, nell’intenzione del legislatore del 2017 «il collegamento negoziale volontario […] risult[erebbe] rilevante ai fini dell’imposta di registro, salvo le ipotesi espressamente previste, solo nell’ambito dell’accertamento antielusivo» di cui all’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente). Con riferimento agli atti collegati, pertanto, il principio di prevalenza della sostanza sulla forma sarebbe salvaguardato non già attraverso un’estensiva applicazione dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, ma mediante il citato art. 10-bis, espressamente richiamato dall’art. 53-bis del medesimo d.P.R. n. 131 del 1986, che impone la prova dell’abuso del diritto a prescindere dalla qualificazione formale dell’atto.
Alla luce di questa interpretazione – nella prospettiva della difesa statale – l’art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018 avrebbe confermato che l’art. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017 costituirebbe «interpretazione autentica» dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, coerente con la struttura dell’imposta e il suo presupposto. La difesa dello Stato dà inoltre conto che sulla natura interpretativa di queste norme si erano registrate «talune incertezze» e che, in particolare, la giurisprudenza della Corte di cassazione – sulla base degli stessi presupposti interpretativi dell’odierno rimettente – aveva affermato la natura innovativa del citato art. 1, comma 87, lettera a). Al riguardo, l’Avvocatura generale ritiene che, conformemente alla giurisprudenza costituzionale, «[a]l di là dell’auto-qualificazione», le norme scrutinate avrebbero «realmente l’obiettivo di chiarire il senso di disposizioni preesistenti, ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla disposizione».
D’altra parte, secondo la difesa dello Stato, i limiti della palese arbitrarietà e della manifesta irragionevolezza, che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato rispetto alla discrezionalità di cui gode il legislatore nella determinazione dei singoli fatti espressivi della capacità contributiva, non sarebbero stati, in questo caso, travalicati. La coerenza del sistema impositivo, infatti, sarebbe «comunque adeguatamente tutelata dal confermato principio di prevalenza della sostanza sulla forma […] e dalla prevista possibilità di applicare l’art. 10-bis dello Statuto del Contribuente» in funzione antiabusiva.
4.– Infine, l’Associazione nazionale tributaristi italiani, sezione Lombardia (di seguito: ANTI Lombardia) ha presentato un’opinione scritta in qualità di amicus curiae, ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, a sostegno dell’inammissibilità e comunque dell’infondatezza delle questioni.
Il Presidente della Corte costituzionale, rilevata la conformità dell’opinione ai criteri previsti dal citato art. 4-ter, l’ha ammessa con decreto del 28 ottobre 2020.
In particolare, quanto all’art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018, l’ANTI Lombardia ritiene che la denunciata irragionevolezza, in violazione dell’art. 3 Cost., non sarebbe fondata poiché, innanzitutto, la giurisprudenza della Corte di cassazione avrebbe chiarito che nell’interpretazione autentica non rileva «tanto e soltanto la necessità di dipanare un contrasto interpretativo», quanto, invece, la volontà del legislatore di attribuire una efficacia retroattiva. Secondo la giurisprudenza di questa Corte e della medesima Cassazione, tale potere del legislatore di attribuire a una norma efficacia retroattiva non incontrerebbe di per sé «limiti di fonte costituzionale, salvo il rispetto di principi generali» che il rimettente vorrebbe individuare negli «artt. 24, 81, 101, 102 e 108 Cost.».
Tuttavia, ad avviso dell’amicus curiae, la questione prospettata in violazione degli artt. 101, 102 e 108 Cost. sarebbe inammissibile perché «solamente menzionata e scarsamente intellegibile».
La medesima sorte dovrebbe seguire la questione della presunta violazione dell’art. 24 Cost., poiché il rimettente avrebbe omesso di motivare «in quale modo e in che proporzione» tale diritto di difesa risulti leso. Tale doglianza, inoltre, sarebbe comunque infondata poiché le questioni interpretative prospettate dal giudice a quo non inciderebbero sull’espletamento dei poteri processuali dell’ente impositore, quanto piuttosto di quelli amministrativi di accertamento del tributo «i quali, come noto, trovano luogo prima del processo».
Infondata sarebbe, poi, la lamentata violazione dell’art. 6 CEDU per l’irragionevolezza di una norma retroattiva priva di un comprovato interesse generale. Osserva al riguardo l’ANTI Lombardia che la tesi del rimettente non troverebbe riscontro nella giurisprudenza sovranazionale né sotto il profilo soggettivo, in quanto «le norme della CEDU sono volte a tutelare i diritti del soggetto privato contro il potere dello Stato», né sotto il profilo oggettivo, in quanto – nella ricostruzione del rimettente stesso – la norma denunciata diminuirebbe e non aumenterebbe il carico impositivo del contribuente «ovvero del soggetto a cui favore sono poste le norme della CEDU».
Insussistente sarebbe, infine, il dedotto vulnus agli artt. 81 e 97 Cost., in riferimento alla sostenibilità e al pareggio del bilancio, atteso che entrambe le disposizioni denunciate avrebbero ottenuto sia il parere favorevole preventivo della Ragioneria generale dello Stato, sia quello successivo della Commissione europea.
5.– In data 18 gennaio 2021 la Pag Italy srl ha depositato memoria.
La parte osserva che, nelle more del presente giudizio, con sentenza n. 158 del 2020 questa Corte ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Corte di cassazione in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, come modificato dall’art. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017 e dall’art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018. Ad avviso della parte privata le motivazioni di tale pronuncia deporrebbero a sostegno della dichiarazione di non fondatezza di tutte le questioni sollevate dall’odierno rimettente, in quanto l’intervento del legislatore del 2018 sarebbe finalizzato a «favorire la certezza dell’ordinamento».
Considerato in diritto
1.– La Commissione tributaria provinciale di Bologna (di seguito: CTP), con ordinanza del 13 novembre 2019 (reg. ord. n. 62 del 2020), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:
a) in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dell’art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), «come risultante dall’intervento apportato» dall’art. 1, comma 87, lettera a), numeri 1) e 2), della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), «nella parte in cui dispone che, nell’applicare l’imposta di registro secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, “prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”»;
b) in subordine, in riferimento agli «artt. 3, 81 (e 97), 101 (nonché 102 e 108), 24 Cost.», dell’art. 1, comma 1084, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), in forza del quale il citato art. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017 «costituisce interpretazione autentica» dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986.
2.– Il censurato art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 dispone che «[l]’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici, dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi».
Il giudice a quo, con argomentazioni autonome, ma sostanzialmente coincidenti con quelle a suo tempo prospettate dalla Corte di cassazione, sezione tributaria – cui espressamente rinvia – nell’ordinanza di rimessione del 23 settembre 2019, n. 23549 (iscritta al n. 212 del registro ordinanze del 2019, le cui questioni sono state decise, nelle more dell’odierno incidente, con sentenza n. 158 del 2020), ritiene che tale norma vìoli gli artt. 3 e 53 Cost.
Essa, infatti, ridurrebbe «la possibilità di interpretare il negozio giuridico da tassare entro limiti asfittici», inidonei alla «misurazione del reale movimento di ricchezza», ponendosi così in contrasto con il principio di capacità contributiva, nonché con il principio di uguaglianza, che imporrebbero altresì una coerenza della legge tributaria «con il sistema giuridico nel suo complesso».
2.1.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha eccepito preliminarmente l’inammissibilità delle questioni aventi ad oggetto l’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, perché il rimettente avrebbe del tutto omesso di sperimentare la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme della norma censurata.
L’eccezione è manifestamente infondata.
L’Avvocatura generale non considera, infatti, che dal tenore complessivo dell’ordinanza emerge un’adeguata motivazione circa l’impraticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata; si tratta, peraltro, di un’eccezione già spiegata dalla stessa difesa statale in termini identici a proposito delle questioni sollevate dalla Corte di cassazione con la sopra citata ordinanza di rimessione e già dichiarata manifestamente infondata sotto il profilo che la verifica dell’esistenza e della legittimità di tale ulteriore interpretazione è questione che attiene al merito della controversia e non alla sua ammissibilità (sentenza n. 158 del 2020, punto 4 del Considerato in diritto).
2.2.– Nel merito, le questioni inerenti alla violazione degli artt. 3 e 53 Cost. sono manifestamente infondate, poiché prive di argomenti sostanzialmente nuovi rispetto a quelle già sollevate con la menzionata ordinanza del giudice di legittimità e dichiarate non fondate con sentenza n. 158 del 2020.
In tale pronuncia questa Corte ha infatti concluso che il censurato art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 «non si pone in contrasto né con il principio di capacità contributiva, né con quelli di ragionevolezza ed eguaglianza tributaria, con conseguente non fondatezza delle sollevate questioni». In particolare, al punto 5.2.3. del Considerato in diritto, si è affermato che «tali parametri [...] sul piano della legittimità costituzionale non si oppongono in modo assoluto a una diversa concretizzazione da parte legislatore dei principi di capacità contributiva e, conseguentemente, di eguaglianza tributaria, che sia diretta (come stabilito dalla norma censurata) a identificare i presupposti impositivi nei soli effetti giuridici desumibili dal negozio contenuto nell’atto presentato per la registrazione, senza alcun rilievo di elementi tratti aliunde, “salvo quanto disposto dagli articoli successivi” dello stesso testo unico. In tal modo, del resto, il criterio di qualificazione e di sussunzione in via interpretativa risulta omogeneo a quello della tipizzazione, secondo le regole del testo unico e in ragione degli effetti giuridici dei singoli atti distintamente individuati dal legislatore nelle relative voci di tariffa ad esso allegata».
3.– Avuto riguardo alle questioni formulate in via subordinata, il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018 in quanto il legislatore, nel disporre che l’art. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017 «costituisce interpretazione autentica» dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, avrebbe in realtà imposto la retroattività di quest’ultima norma «nella sua nuova ridotta portata», in violazione di plurimi parametri costituzionali.
3.1.– In particolare, il giudice a quo, dopo aver escluso in premessa – sulla scorta della consolidata giurisprudenza di questa Corte – la decisività della distinzione tra norme innovative o interpretative ai fini del vaglio di legittimità costituzionale, ritiene tuttavia che il censurato art. 1, comma 1084, vìoli, innanzitutto, l’art. 3 Cost. per tre profili di irragionevolezza.
Il primo atterrebbe alla mancanza di un «persistente contrasto interpretativo» da risolvere «in nome del supremo principio, nazionale e sovranazionale, di certezza del diritto», in quanto la giurisprudenza di legittimità avrebbe, «pressoché unanimemente», affermato la natura innovativa e non interpretativa dell’intervento legislativo del 2017 (sono citate le sentenze della Corte di cassazione, sezione quinta civile, 26 gennaio 2018, n. 2007; 23 febbraio 2018, n. 4407; 28 febbraio 2018, n. 4589; 28 febbraio 2018, n. 4590; 28 marzo 2018, n. 7637; 8 giugno 2018, n. 14999; 9 gennaio 2019, n. 362). Inoltre, poiché prima del suddetto intervento, una situazione di «certezza del diritto» «poteva dirsi raggiunta alla luce della uniforme applicazione dell’art. 20 tur (vecchio testo) da parte della giurisprudenza di legittimità», il legislatore, anziché tutelare detto principio, avrebbe in realtà «forzato l’applicazione» della riformulazione operata dall’art. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017, imponendola a fattispecie poste in essere nel vigore del previgente art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986.
Il secondo profilo di irragionevolezza, strettamente collegato al precedente, riguarderebbe la non «prevedibilità del significato precisato» dalla norma indubbiata, stante – ad avviso del rimettente – il «carattere della novità» dell’appena citato art. 1, comma 87.
Il terzo, infine, discenderebbe dall’impossibilità di giustificare la retroattività disposta dall’art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018, con «motivi imperativi di interesse generale», secondo il principio desumibile dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, «che la giurisprudenza costituzionale tradu[rrebbe] nell’ordinamento italiano come “tutela di principi, diritti e beni di rilievo costituzionale”»; al contrario, proprio l’intervento normativo del 2017 lederebbe i principi di parità di trattamento e di capacità contributiva di cui agli artt. 3 e 53 Cost.
La disposizione censurata recherebbe, inoltre, un vulnus agli artt. 81 e 97 Cost., sotto il profilo del «fondamentale principio dell’equilibrio di bilancio».
L’imposizione della retroattività priverebbe infatti, a parere del giudice a quo, «l’erario […] di diritti che [sarebbero] già acquisiti all’erario stesso, sia pure in nuce», con un conseguente squilibrio di bilancio e una perdita di risorse economiche «necessarie ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’Unione Europea».
Sarebbero altresì lesi, secondo il rimettente, gli artt. 101, 102 e 108 Cost., in quanto «[p]ur se la questione della sussistenza di una riserva di giurisdizione è tema controvertibile (e denso di implicazioni dogmatiche e politiche), non vi è dubbio che, nel caso di specie, il legislatore [sarebbe intervenuto] “a piè pari”, per interpretare una norma, in senso radicalmente difforme rispetto alla interpretazione unanime della giurisprudenza».
Risulterebbe, infine, violato l’art. 24 Cost., poiché l’art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018 menomerebbe l’Agenzia delle entrate nel diritto di difendersi «secondo la legislazione su cui aveva impostato la propria costituzione con le controdeduzioni».
3.2.– Le questioni sollevate in riferimento all’art. 3 Cost. non sono fondate.
3.2.1.– Al fine di inquadrarle correttamente, occorre innanzitutto soffermarsi sulla natura della norma censurata (art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018), che stabilisce: «[l]’articolo 1, comma 87, lettera a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205, costituisce interpretazione autentica dell’articolo 20, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131».
Si tratta a ben vedere di una peculiare vicenda normativa: la suddetta disposizione, infatti, introdotta nel 2018 con il maxiemendamento alla legge di bilancio, non detta direttamente, come spesso avviene, un contenuto che viene definito dalla stessa quale interpretazione autentica di una precedente disciplina. Essa è invece rivolta a definire, esplicitandola con la forza della legge, la natura di un pregresso intervento legislativo, quello del 2017, che non si era auto-qualificato, affermandone il carattere di interpretazione autentica e di conseguenza determinandone l’efficacia retroattiva.
Ne discende che, in questo caso, ai fini del sindacato di costituzionalità è opportuno preliminarmente misurarsi non con la norma del 2018, ma con quella del 2017.
Una volta assunta questa prospettiva, va ulteriormente precisato che non diventa però dirimente stabilire se la novella del 2017 abbia carattere innovativo o interpretativo: questione, peraltro, sulla quale la dottrina si è divisa; la giurisprudenza di legittimità, come ricordato dal rimettente, ha optato (anteriormente all’intervento del 2018) per la prima soluzione; parte di quella di merito per la seconda (ad esempio, Commissione tributaria regionale di Reggio Emilia, sezione nona, sentenza 22 gennaio 2018, n. 199).
È pur vero che questa Corte, infatti, in più occasioni, con riguardo a norme che pretendono di avere natura interpretativa, ha ritenuto che la palese erroneità di tale auto-qualificazione può costituire un indice della irragionevolezza della disposizione impugnata (in tal senso, sentenza n. 103 del 2013); così come ha affermato che la natura realmente interpretativa di una determinata disciplina può non risultare indifferente ai fini dell’esito del controllo di legittimità costituzionale (sentenza n. 108 del 2019).
Ma sia in un caso che nell’altro ha ritenuto, in ultima analisi, non dirimente tale accertamento, essendosi «ripetutamente espressa nel senso della sostanziale indifferenza, quanto allo scrutinio di legittimità costituzionale», della distinzione tra norme di interpretazione autentica e norme innovative con efficacia retroattiva, in quanto ciò che risulta realmente decisivo è che la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza – certamente valutata anche, ma non solo, alla luce dei suddetti indici – e non contrasti con altri valori e interessi costituzionalmente protetti (sentenza n. 73 del 2017).
3.2.2.– Nel caso di specie ciò che viene in considerazione non è quindi l’indirizzo giurisprudenziale maturato nel brevissimo lasso temporale intercorrente tra i due interventi normativi e che, secondo il rimettente, «aveva riconosciuto, pressoché unanimemente, la natura innovativa e non interpretativa» della «novella del 2017».
Rileva piuttosto l’intera, decennale, vicenda che ha interessato la complessa questione dell’applicazione dell’imposta di registro, caratterizzata, come questa Corte ha evidenziato nella sentenza n. 158 del 2020, da uno stratificarsi di interpretazioni, che la giurisprudenza ha sviluppato anche in risposta alle varie forme in cui l’ordinamento si andava evolvendo per volontà del legislatore (che, dapprima, ha introdotto, nella disciplina dell’imposta, l’esplicito riferimento agli «effetti giuridici» dell’atto e poi, più in generale, per tutti i tributi, ha disciplinato l’abuso del diritto).
In tale sentenza, questa Corte ha precisato che l’art. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017, «appare finalizzato a ricondurre il citato art. 20 all’interno del suo alveo originario, dove l’interpretazione, in linea con le specificità del diritto tributario, risulta circoscritta agli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione (ovverossia al gestum, rilevante secondo la tipizzazione stabilita dalle voci indicate nella tariffa allegata al testo unico)», concludendo che «proprio la clausola finale del censurato art. 20 “salvo quanto disposto dagli articoli successivi” concorre ad avvalorare la suddetta valenza sistematica dell’intervento legislativo del 2017 nell’assetto della disciplina del tributo».
Tale valenza sistematica, nella medesima sentenza, è stata peraltro evidenziata anche nel raccordo con l’abuso del diritto, precisando «sul piano costituzionale, che l’interpretazione evolutiva, patrocinata dal rimettente, di detto art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, incentrata sulla nozione di “causa reale”, provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, quantomeno a partire dall’introduzione dell’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000. Infatti, consentirebbe all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di “indebiti” vantaggi fiscali e di operazioni “prive di sostanza economica”, precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale (invece pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione europea)».
3.2.3.– Alla luce di quanto appena chiarito le questioni sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., sotto tutti i profili indicati, non sono fondate.
3.2.3.1.– Quanto al primo profilo, si deve escludere che possa essere considerato irragionevole attribuire efficacia retroattiva a un intervento che, come quello descritto, ha assunto un carattere di sistema.
Senza che sia necessario addentrarsi a stabilire se la presa di posizione del legislatore del 2017 abbia o meno esplicitato una delle possibili variabili di senso ascrivibili alla precedente formulazione dell’art. 20, rileva prima di tutto che tale intervento ha certamente fissato uno dei contenuti normativi riconducibili, più che all’ambito semantico di una singola disposizione, a quello dell’intero «impianto sistematico della disciplina sostanziale e procedimentale dell’imposta di registro», dove la sua origine storica di “imposta d’atto” «non risulta superata dal legislatore positivo» (sentenza n. 158 del 2020). Solo su un altro piano – che, essendo stato sviluppato unicamente nella prospettiva delle possibili, future, scelte legislative, però non rileva nella presente valutazione – nella medesima sentenza è stato poi precisato che «[r]esta ovviamente riservato alla discrezionalità del legislatore provvedere – compatibilmente con le coordinate stabilite dal diritto dell’Unione europea – a un eventuale aggiornamento della disciplina dell’imposta di registro che tenga conto della complessità delle moderne tecniche contrattuali e dell’attuale stato di evoluzione tecnologica, con riguardo, in particolare, sia al sistema di registrazione degli atti notarili, sia a quello di gestione della documentazione da parte degli uffici amministrativi finanziari». Né alla suddetta conclusione può opporsi quanto dedotto dal rimettente in ordine alla «certezza del diritto» che, prima dell’intervento del 2017, «poteva dirsi raggiunta alla luce della uniforme applicazione dell’art. 20 tur (vecchio testo) da parte della giurisprudenza di legittimità» (interpretazione in realtà non del tutto unanime nella stessa giurisprudenza di legittimità, come già rilevato nella sentenza n. 158 del 2020, e fortemente avversata dalla dottrina).
Infatti, la legittimità di un intervento che attribuisce forza retroattiva a una genuina norma di sistema non è contestabile nemmeno quando esso sia determinato dall’intento di rimediare a un’opzione interpretativa consolidata nella giurisprudenza (anche di legittimità) che si è sviluppata in senso divergente dalla linea di politica del diritto giudicata più opportuna dal legislatore (sentenza n. 402 del 1993).
3.2.3.2.– Il secondo profilo di irragionevolezza, strettamente collegato al precedente, atterrebbe alla non «prevedibilità del significato precisato» dalla norma censurata, stante «il carattere della novità» dell’intervento normativo sull’art. 20 operato dall’art. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017.
Anche tale censura, svolta peraltro in evidente contraddizione con la premessa formulata dallo stesso rimettente circa l’irrilevanza della distinzione tra norme innovative e interpretative, è infondata: essa rimane, infatti, integralmente assorbita dalle considerazioni appena svolte. Peraltro, i tre elementi di novità – evidenziati dal rimettente (utilizzo del singolare “atto”; divieto di valorizzazione degli elementi extratestuali e atti collegati; salvezza degli articoli successivi anche al fine di contestare l’abuso) allo scopo di dolersi della non prevedibilità e dunque dell’irragionevolezza – sono in buona parte quelli sulla cui base questa Corte nella sentenza n. 158 del 2020 ha riconosciuto «rispettata la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico».
3.2.3.3.– Il terzo profilo di irragionevolezza, infine, discenderebbe, ad avviso del rimettente, dall’impossibilità di giustificare la retroattività della norma per «motivi imperativi di interesse generale» secondo il principio desumibile dall’art. 6 CEDU, «che la giurisprudenza costituzionale traduce nell’ordinamento italiano come “tutela di principi, diritti e beni di rilievo costituzionale”»: secondo il giudice a quo proprio l’intervento normativo del 2017 lederebbe «il principio di parità di trattamento (uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost.) e di capacità contributiva (art. 53 Cost.)».
Neanche questa censura è fondata. Non solo la sentenza n. 158 del 2020 ha escluso, come detto, che la disciplina del 2017 leda gli artt. 3 e 53 Cost., ma soprattutto, come altresì notato dall’amicus curiae (l’Associazione nazionale tributaristi italiani, sezione Lombardia), nella giurisprudenza sovranazionale si riconosce che le norme della CEDU sono volte a tutelare i diritti della persona «contro il potere dello Stato e della Pubblica Amministrazione» e non viceversa, come invece, paradossalmente, rappresentato dal rimettente.
3.3.– Le questioni sollevate in riferimento agli artt. 81 e 97 Cost. sono inammissibili.
Il rimettente, infatti, non lamenta un difetto di copertura ai sensi dell’art. 81, terzo comma, Cost., ma una lesione del «fondamentale principio dell’equilibrio di bilancio», evocando in modo meramente assertivo un nesso di causalità tra la norma censurata e la perdita per l’erario delle risorse «necessarie ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’Unione Europea».
La censura, da un lato, afferma in modo contraddittorio che si tratterebbe di «diritti che sono già acquisti all’erario stesso, sia pure in nuce» e, dall’altro, trascura del tutto di considerare che la «riqualificazione in termini sostanziali di operazioni economiche complesse» di cui sarebbe stata privata, a suo dire, l’Amministrazione finanziaria, continua invece a essere praticabile dalla stessa secondo le regole procedurali e sostanziali prescritte per l’accertamento dell’abuso del diritto (art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante «Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente»).
La dedotta lesione dell’art. 97 Cost., poi, non è sostenuta da alcuna argomentazione.
Alla luce dei rilievi che precedono è evidente che il rimettente non ha assolto l’onere di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza del prospettato dubbio di legittimità costituzionale, formulando la doglianza in modo generico e finanche ipotetico.
3.4.– Altresì inammissibile è la questione inerente alla violazione degli artt. 101, 102 e 108 Cost., evocati cumulativamente.
Lo stesso rimettente premette, delimitando la propria prospettazione, che la «sussistenza di una riserva di giurisdizione è tema controvertibile (e denso di implicazioni dogmatiche e politiche)» senza tuttavia poi esplicitare alcun ulteriore argomento giuridico per cui, in confronto con gli stessi, sarebbe censurabile l’intervento del legislatore.
La questione è pertanto inammissibile, in quanto formulata in modo addirittura perplesso, così da risultare generica e, comunque, immotivata.
3.5.– Inammissibile, infine, è anche la questione sollevata in riferimento all’art. 24 Cost.
Il rimettente si limita a dolersi della violazione di un asserito diritto dell’Agenzia delle entrate a difendersi sulla base di un quadro normativo cristallizzato al tempo della predisposizione delle proprie difese. Tuttavia, tale assunto, non ulteriormente declinato attraverso adeguate argomentazioni, si risolve in una indimostrata e meramente affermata impossibilità per il legislatore di emanare norme retroattive che incidano su giudizi in corso: va conseguentemente dichiarata l’inammissibilità della questione.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), come modificato dall’art. 1, comma 87, lettera a), numeri 1) e 2), della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Bologna con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1084, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Bologna con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018, sollevate, in riferimento agli artt. 24, 81, 97, 101, 102 e 108 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Bologna con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 febbraio 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Luca ANTONINI, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 16 marzo 2021.