Sentenza n. 109 del 2021

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SENTENZA N. 109

ANNO 2021

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 240-bis, comma 1, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), come modificato dall’art. 4, comma 2, lettera hh), numero 1), del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106, promosso dal Tribunale ordinario di Lecco, prima sezione civile, nel procedimento vertente tra la R. srl e il Comune di Oggiono e altro, con ordinanza del 29 maggio 2019, iscritta al n. 171 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visti l’atto di costituzione della R. srl, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nell’udienza pubblica del 13 aprile 2021 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;

uditi l’avvocata Nicoletta Sersale per la R. srl e l’avvocato dello Stato Marco Corsini per il Presidente del Consiglio dei ministri, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 16 marzo 2021;

deliberato nella camera di consiglio del 15 aprile 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 13 maggio 2019, iscritta al registro ordinanze n. 171 del 2019, il Tribunale ordinario di Lecco, prima sezione civile, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 41 e 97 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 240-bis, comma 1, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), (d’ora in avanti, anche: cod. contratti pubblici), come modificato dall’art. 4, comma 2, lettera hh), numero 1), del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106, nella parte in cui prevede che «[l]’importo complessivo delle riserve non può in ogni caso essere superiore al venti per cento dell’importo contrattuale».

1.1.– Il rimettente espone che la parte attrice nel processo principale, l’impresa R. srl, faceva valere in giudizio sei riserve iscritte nei registri di contabilità e confermate in sede di sottoscrizione del conto finale in data 17 giugno 2015, per un ammontare complessivo di euro 473.751,18.

Tali riserve – riferisce il giudice a quo – erano state iscritte, ai sensi degli artt. 190 e 191 del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207 (Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, recante «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE»), nell’ambito di un contratto di appalto di lavori stipulato con il Comune di Oggiono, in data 15 marzo 2013, per un corrispettivo, calcolato a misura, di euro 558.751,65, oltre IVA e oneri di sicurezza.

Il Tribunale di Lecco precisa che il Comune di Oggiono non aveva promosso il procedimento di accordo bonario di cui all’art. 240 del d.lgs. n. 163 del 2006 e che, convenuto in giudizio dalla R. srl, eccepiva l’inammissibilità delle riserve ai sensi dell’art. 240-bis, comma 1, cod. contratti pubblici.

1.2.– In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che, all’esito della consulenza tecnica d’ufficio relativa alle riserve iscritte, risulterebbero fondate le pretese dell’impresa appaltatrice per la somma di euro 109.236,41, vale a dire per una cifra inferiore al venti per cento dell’importo contrattuale.

Tuttavia – prosegue il rimettente – poiché quanto dovrebbe riconoscersi all’impresa si ricava da riserve (la terza per euro 3.653,68, la quarta per euro 87.182,88 e la maggiorazione riconosciuta in fase di collaudo per euro 18.479,55), registrate dopo che ne erano state iscritte altre per un ammontare che aveva già raggiunto il limite del venti per cento dell’importo contrattuale, sarebbe preclusa la possibilità di accertare nel merito quelle annotate successivamente al superamento della soglia imposta dalla norma censurata.

Il giudice a quo sostiene, infatti, che l’unica interpretazione dell’art. 240-bis, comma 1, cod. contratti pubblici, conforme alla sua lettera ed alle intenzioni del legislatore, «sembra essere quella che attribuisce all’appaltatore la legittimazione ad iscrivere riserve solo fino alla concorrenza di un quinto dell’importo contrattuale» e non quella che riferisce tale soglia all’importo complessivo che in concreto può essere riconosciuto. Pertanto, sarebbero ammissibili, nel caso di specie, le prime tre riserve e il giudice non potrebbe valutare nel merito le altre che, viceversa, sembrerebbero fondate.

1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo rileva che, «anche in un’ottica di bilanciamento tra principi costituzionali, le esigenze di contenimento della spesa pubblica non possono giustificare la creazione di una posizione di così smaccato privilegio per la stazione appaltante, alla quale viene consentito di liberarsi dalle proprie responsabilità non solo in caso di eventi sopravvenuti imprevedibili, ma anche in caso di possibili condotte illegittime o inadempienti, tutte indistintamente ricondotte alla categoria del rischio di impresa di cui l’appaltatore dovrebbe farsi carico».

In particolare, il Tribunale di Lecco dubita della legittimità costituzionale della disposizione censurata, in relazione a molteplici parametri.

In primo luogo, ravvisa un contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., poiché l’art. 240-bis, comma 1, cod. contratti pubblici andrebbe a stravolgere l’equilibrio negoziale in favore di una sola delle parti del contratto, il che si tradurrebbe «sul piano sostanziale, in una limitazione irragionevole delle pretese patrimoniali dell’appaltatore e, sul piano processuale, in una compressione altrettanto inspiegabile del diritto d’azione».

In secondo luogo, il giudice a quo sospetta l’illegittimità costituzionale della norma in relazione all’art. 41 Cost., «concretandosi la disposizione in un’ingiustificata limitazione alla libertà d’impresa»: l’imprenditore sarebbe arbitrariamente costretto a sopportare anche il rischio di pregiudizi del tutto estranei alla sua sfera di controllo, venendo meno «qualsiasi possibile proporzionalità tra l’ablazione dei diritti dell’appaltatore e l’intento del legislatore di arginare la proliferazione delle riserve per contenere la spesa pubblica».

Infine, il giudice a quo reputa il citato art. 240-bis non conforme all’art. 97 Cost., perché la norma censurata incentiverebbe la deresponsabilizzazione dei funzionari pubblici, in contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione.

2.– Il 6 novembre 2019 si è costituita in giudizio la società R. srl, la quale, soffermandosi sulla ratio dell’istituto, ha sottolineato che le riserve, oltre a consentire alle stazioni appaltanti di avere contezza delle richieste degli appaltatori e dei possibili aumenti di spesa, sono anche lo strumento che permette alla parte privata di avanzare richieste per compensi, risarcimenti o indennizzi relativi ai lavori eseguiti. Di conseguenza, l’impossibilità di iscrivere riserve oltre una certa soglia comporterebbe, sul piano sostanziale e processuale, un irragionevole limite al diritto dell’appaltatore di ottenere quanto gli spetta sulla base del contratto e delle previsioni di legge.

2.1.– La difesa della società appaltatrice ha ripercorso, quindi, le argomentazioni spese dal giudice a quo per illustrare il dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 240-bis, comma 1, cod. contratti pubblici, in riferimento agli artt. 3, 24, 41 e 97 Cost.

2.2.– La violazione dell’art. 3 Cost. deriverebbe, in particolare, da «un insanabile contrasto con il principio di ragionevolezza»: se l’istituto delle riserve è concepito a garanzia dell’esatto e corretto adempimento del sinallagma, viceversa, l’art. 240-bis cod. contratti pubblici comporterebbe lo stravolgimento in fase esecutiva di quanto pattuito con il contratto, risultando pertanto intrinsecamente irragionevole.

Inoltre, l’inosservanza dell’art. 3 Cost. discenderebbe dall’illegittima disparità di trattamento tra operatori economici che svolgono l’attività di impresa nel settore degli appalti pubblici e quelli che si dedicano agli appalti privati, dal momento che, per questi ultimi, una simile limitazione di responsabilità sarebbe nulla, per contrarietà all’art. 1229 del codice civile, persino se fosse stata oggetto di specifica negoziazione.

2.3.– Tali considerazioni – a parere della difesa della società appaltatrice – sosterrebbero anche l’illegittimità costituzionale in riferimento all’art. 41 Cost.: infatti, talune limitazioni all’autonomia privata nelle scelte economiche ed imprenditoriali sono ben ammissibili, onde realizzare un equo contemperamento di interessi costituzionali potenzialmente confliggenti; tuttavia, nel caso di specie, tale circostanza non ricorrerebbe, non essendovi alcuna proporzionalità fra l’ablazione dei diritti dell’appaltatore e l’intento del legislatore di arginare la proliferazione di riserve, per contenere la spesa pubblica.

2.4.– Da ultimo, la società appaltatrice sostiene che la norma sia in contrasto anche con gli artt. 24 e 113 Cost.: ai sensi dell’art. 190 del d.P.R. n. 207 del 2010, l’omessa tempestiva formulazione delle riserve comporta la decadenza dal diritto di far valere, anche in sede giurisdizionale, le domande che ad esse si riferiscono. Una limitazione come quella imposta dalla norma contestata integrerebbe, perciò, una grave violazione di entrambi i parametri sopra evocati, senza che – peraltro – risulti dalla formulazione dell’art. 240-bis cod. contratti pubblici quale sia il diritto costituzionalmente riconosciuto che legittimi una tale compressione.

3.– Il 12 novembre 2019 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate.

La difesa erariale ha evidenziato che le riserve non garantiscono solo la corrispettività delle prestazioni, ma soprattutto servono alla stazione appaltante per verificare i fatti suscettibili di produrre un incremento delle spese previste, con un accertamento che si rivela meno dispendioso perché immediato e continuativo. In tal modo – osserva l’Avvocatura generale – l’Amministrazione potrebbe adottare tempestivamente le proprie determinazioni, in armonia con il bilancio pubblico, «fino ad esercitare la potestà di risoluzione unilaterale del contratto». Questo dimostrerebbe che l’istituto delle riserve presidierebbe l’esigenza di evitare modifiche sostanziali del contratto, a tutela anche dei concorrenti non aggiudicatari. Né ciò determinerebbe una lesione alla libertà di impresa o all’iniziativa economica, perché, da un lato, l’art. 240-bis cod. contratti pubblici integrerebbe il contratto d’appalto ai sensi dell’art. 1374 cod. civ. e, da un altro lato, l’insorgenza di sopravvenienze tali da stravolgere l’intima essenza del contratto potrebbe in ogni caso condurre all’attivazione degli ordinari rimedi civilistici a tutela dell’appaltatore.

4.– In prossimità dell’udienza, l’Avvocatura generale ha depositato memorie nelle quali ha ribadito quanto già argomentato in ordine alla non fondatezza delle questioni.

In particolare, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ricordato come il controllo di ragionevolezza, sviluppato sulla base dell’art. 3 Cost., sia volto a verificare la rispondenza degli interessi tutelati dalla legge ai principi costituzionali e al bilanciamento tra gli stessi, potendo da ciò inferirsi una contrarietà a Costituzione solo ove non sia possibile ricondurre la disciplina ad alcuna esigenza protetta in via primaria oppure qualora sussista una evidente sproporzione tra i mezzi approntati ed il fine perseguito.

Ebbene, nel caso di specie, tali esigenze sarebbero perseguite dalla norma censurata: l’art. 240-bis, comma 1, cod. contratti pubblici sarebbe finalizzato ad evitare modifiche sostanziali dell’appalto e a contenere la spesa pubblica. Inoltre, l’operatore economico non si troverebbe privo di autonoma determinazione e di tutela, di fronte alla possibilità che la realizzazione dei lavori ecceda il quinto del corrispettivo pattuito nel contratto: la difesa erariale richiama alcune sentenze della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato che avrebbero riconosciuto, in tali ipotesi, a favore dell’appaltatore il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. La norma censurata non comporterebbe, pertanto, alcuna violazione degli artt. 3 e 41 Cost. né contrasterebbe con gli artt. 24 e 113 Cost. D’altro canto, proprio la possibilità di agire con i rimedi risolutori, e con le azioni ad essi correlate, escluderebbe il rischio di una deresponsabilizzazione dei funzionari pubblici.

Da ultimo – rammenta sempre l’Avvocatura generale – la norma censurata integrerebbe il contratto d’appalto, rendendo l’operatore economico edotto della disciplina cui si sta assoggettando, sicché tale «consapevolezza lo indurrà ad evitare quantificazioni artatamente dilatate delle pretese avanzate con le riserve […] al solo fine di conseguire vantaggi economici».

5.– Nell’udienza del 13 aprile 2021 sono intervenute la parte costituita in giudizio e la difesa erariale, che hanno insistito per le conclusioni rassegnate negli scritti difensivi.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 13 maggio 2019, il Tribunale ordinario di Lecco ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 41 e 97 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 240-bis, comma 1, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), (d’ora in avanti, anche: cod. contratti pubblici), come modificato dall’art. 4, comma 2, lettera hh), numero 1), del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106, nella parte in cui prevede che «[l]’importo complessivo delle riserve non può in ogni caso essere superiore al venti per cento dell’importo contrattuale».

Il giudice a quo ritiene, infatti, che, anche «in un’ottica di bilanciamento tra principi costituzionali, le esigenze di contenimento della spesa pubblica non possono giustificare la creazione di una posizione di così smaccato privilegio per la stazione appaltante, alla quale viene consentito di liberarsi dalla proprie responsabilità non solo in caso di eventi sopravvenuti imprevedibili, ma anche in caso di possibili condotte illegittime o inadempienti, tutte indistintamente ricondotte alla categoria del rischio di impresa di cui l’appaltatore dovrebbe farsi carico».

1.1.– Il giudice rimettente argomenta nel senso che il tenore letterale della disposizione censurata e le intenzioni del legislatore indurrebbero ad assegnare alla norma il significato di porre un limite alla possibilità per l’appaltatore di iscrivere riserve fino alla concorrenza di un quinto dell’importo contrattuale.

Tale interpretazione renderebbe le questioni rilevanti e – secondo la prospettazione del giudice a quo – non manifestamente infondate rispetto ai su citati parametri costituzionali.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha sostenuto la non fondatezza delle questioni.

La norma censurata avrebbe introdotto una limitazione giustificata e congrua alla possibilità per l’appaltatore di far valere le proprie ragioni, poiché, da un lato, l’art. 240-bis, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006 sarebbe finalizzato ad evitare modifiche sostanziali del contratto e a contenere la spesa pubblica e, da un altro lato, l’operatore economico, conscio della disciplina normativa cui si sta assoggettando, non si troverebbe privo di autonoma determinazione e di tutela: all’insorgenza di sopravvenienze tali da rendere eccessivamente squilibrato il sinallagma contrattuale o al verificarsi di inadempimenti di non scarsa importanza della controparte potrebbe, difatti, avvalersi degli ordinari rimedi contrattuali.

3.– Si è costituita in giudizio anche la società R. srl che, oltre a richiamare gli argomenti spesi dal giudice a quo a favore della fondatezza, ha altresì ravvisato una violazione dell’art. 113 Cost. A tal riguardo, si deve, tuttavia, precisare che questa ulteriore questione prospettata dalla difesa della parte privata non è suscettibile di esame, e dunque va ritenuta inammissibile. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «l’oggetto del giudizio di costituzionalità in via incidentale è, infatti, limitato alle norme e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione, non potendo essere prese in considerazione, oltre i limiti in queste fissati, ulteriori questioni o censure di costituzionalità dedotte dalle parti, sia che siano state eccepite ma non fatte proprie dal giudice a quo, sia che siano dirette ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (sentenza n. 327 del 2010, ordinanze n. 138 del 2017 e n. 469 del 1992)» (da ultimo, sentenza n. 213 del 2017).

4.– Nel merito, le questioni non sono fondate, nei termini di seguito illustrati.

5.– La disposizione censurata è stata introdotta, nel codice dei contratti pubblici, con il decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106.

Per comprendere le ragioni di tale integrazione, occorre considerare che, nella prassi, si è fatto spesso un utilizzo improprio dell’istituto delle riserve, al fine di avanzare pretese non giustificate dal regolamento contrattuale o non conformi alle previsioni legali sulle procedure che danno accesso a possibili modifiche dell’originario accordo. Documentano la preoccupazione destata da simili condotte alcune determinazioni dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP), nelle quali si censura, in special modo, che si sia fatto ricorso alle riserve, in situazioni in cui la legge avrebbe, viceversa, richiesto la presentazione di una perizia di variante (si veda in particolare la determinazione AVCP del 30 maggio 2007, n. 5).

Non può dubitarsi, invero, che il riconoscimento di richieste con l’accordo bonario, in difformità dal chiaro dettato normativo degli artt. 132 cod. contratti pubblici e 161, commi 1, 2 ed 11 del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207 (Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, recante «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE»), faccia illegittimamente deviare l’esecuzione dell’appalto dall’interesse pubblico cristallizzato nella fase costitutiva del contratto e riflesso nella disciplina che regola le sue possibili modifiche per effetto di sopravvenienze.

L’art. 240-bis, comma 1, cod. contratti pubblici, nel prevenire simili e altri abusi nell’utilizzo dell’istituto delle riserve, ha inteso, dunque, preservare interessi riconducibili agli artt. 81 e 97 Cost. (sotto il profilo del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione) nonché, indirettamente, tutelare la concorrenza. Non era, infatti, infrequente l’aggiudicazione di appalti a favore di imprese che, confidando nella possibilità di conseguire, grazie agli accordi bonari, guadagni aggiuntivi e non dovuti, proponessero offerte notevolmente ribassate.

5.1.– Vero è che l’elemento di criticità delle prassi sopra richiamate sono gli accordi bonari e non le riserve in quanto tali. Opportunamente, a tal riguardo, il nuovo codice dei contratti pubblici, approvato nel 2016 (decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, recante «Codice dei contratti pubblici»), e non applicabile ratione temporis alla fattispecie oggetto del giudizio a quo, ha posto un limite (il quindici per cento dell’importo contrattuale) solo alla possibilità di definire le riserve tramite l’accordo bonario (art. 205, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016).

5.2.– Cionondimeno, la sussistenza di una migliore soluzione normativa rispetto a quella censurata non è di per sé sintomo di una illegittimità costituzionale della scelta legislativa meno appropriata (in termini simili, sentenza n. 122 del 2020).

Piuttosto, si tratta di accertare se l’aver riferito la soglia legale in senso lato alle riserve, anziché alle riserve definibili per accordo bonario, determini, nel bilanciamento con gli interessi che la disposizione censurata mira a preservare, un irragionevole vulnus ad altre istanze di rango costituzionale, che si desumono dalle funzioni assegnate dalla stessa legge alle riserve.

In particolare, la loro iscrizione è stata prevista dal legislatore a beneficio di un monitoraggio costante, da parte della stazione appaltante, sull’esecuzione del contratto e, per questo, è stata configurata quale onere per l’appaltatore, che intenda far valere pretese nei confronti del committente, onere il cui mancato rispetto è sanzionato con la decadenza dalle relative azioni (art. 190 del d.P.R. n. 207 del 2010).

In considerazione, dunque, dell’interesse alla trasparenza della stazione appaltante e di quello a non decadere da legittime pretese dell’impresa appaltatrice, l’esito del giudizio di costituzionalità dipende da un duplice passaggio argomentativo.

Per un verso, si tratta di chiarire in via ermeneutica se la soglia legale si riferisca alla possibilità di iscrivere riserve o a quella di accordare loro riconoscimento, in via bonaria o giudiziale, a prescindere dall’ordine con cui vengono annotate.

Per un altro verso, occorre ricostruire l’ampio ventaglio dei rimedi civilistici, che non risentono tout court dell’istituto delle riserve o che non patiscono gli effetti del limite legale posto dalla norma censurata.

6.– Il testo dell’art. 240-bis, comma 1, nel prevedere che «[l]’importo complessivo delle riserve non può in ogni caso essere superiore al venti per cento dell’importo contrattuale», non rende esplicito se il limite escluda la possibilità di far valere quelle iscritte oltre la soglia o se riguardi l’entità delle pretese annotate che, nel complesso, possono essere riconosciute.

La prima interpretazione, sostenuta dal rimettente, non risulta pienamente coerente con la collocazione sistematica della disposizione e, soprattutto, ove accolta, paleserebbe una irragionevolezza della norma, il che avrebbe dovuto suggerire al rimettente di non respingere – come invece ha ritenuto di fare, in maniera esplicita e argomentata – la richiamata interpretazione alternativa, già sostenuta da altri giudici di merito (si vedano Tribunale ordinario di Roma, sentenze 11 dicembre 2020, n. 17666 e 23 gennaio 2017, n. 1085; Tribunale ordinario di Milano, sentenza 25 marzo 2020, n. 2207).

6.1.– Sotto il profilo sistematico, la norma censurata si inserisce nella Parte IV del codice dei contratti pubblici, che non regola l’esecuzione dell’appalto e l’iscrizione delle riserve, bensì il «Contenzioso» e si colloca nel contesto di un articolo che disciplina – come precisa la rubrica – la «Definizione delle riserve». In particolare, posto che la prima parte del comma 1 stabilisce che possono essere proposte, e di conseguenza potenzialmente accolte, le domande che non superino gli importi «quantificati nelle riserve stesse», è naturale inferirne che anche la seconda parte della disposizione, nel fissare la soglia, si riferisca alle riserve che possono essere proposte e potenzialmente definite, in via bonaria o giudiziale.

6.2.– Per converso, interpretare la disposizione nel senso di escludere la possibilità di far valere le riserve iscritte oltre la soglia legale non solo si rivela asistematico, e fonte di un possibile ossimoro rispetto alle norme che impongono alle imprese appaltatrici l’onere di iscriverle per talune pretese, ma oltretutto pregiudicherebbe, in maniera irragionevole, gli interessi sopra richiamati, a partire dalla trasparenza nell’esecuzione del contratto, a beneficio della stazione appaltante.

6.2.1.– Se l’impresa appaltatrice, dopo aver annotato riserve per il venti per cento dell’importo contrattuale, perdesse automaticamente la possibilità di avanzare pretese subordinate alla loro iscrizione in riserva, non avrebbe più alcun interesse a continuare a rispettare il relativo onere. Tuttavia, poiché la legge lo prevede anche per fatti suscettibili di evidenziare inadempimenti della stazione appaltante e questi ultimi, ove di non scarsa importanza, giustificherebbero comunque pretese anche risarcitorie, ex art. 1453 del codice civile, a prescindere dall’apposizione di riserve (ex multis, Corte di cassazione, terza sezione civile, ordinanza 6 maggio 2020, n. 8517; Corte di cassazione, prima sezione civile, ordinanza 5 settembre 2018, n. 21656 e sentenza 3 novembre 2016, n. 22275), il committente si troverebbe esposto a un rischio significativo: quello di non aver avuto tempestiva contezza – a causa della mancata annotazione delle pretese – di contestazioni relative a sue stesse inadempienze, con la conseguenza di non aver potuto assumere opportune determinazioni, quale l’esercizio del recesso di cui all’art. 134 cod. contratti pubblici.

Per contro, ove si riferisca la soglia legale alle riserve suscettibili di accoglimento, residuerebbe in capo all’appaltatore un certo grado di aleatorietà in merito al raggiungimento del limite delle pretese liquidabili, subordinatamente all’onere delle riserve, e tale incertezza dovrebbe indurlo, prudenzialmente, a continuare ad annotarle, a tutto beneficio delle esigenze della trasparenza.

In tal modo, il rischio per la stazione appaltante di doversi affidare alla sua mera vigilanza viene limitato, in una maniera che – come si dirà – non sacrifica irragionevolmente il buon andamento della pubblica amministrazione, alla sola ipotesi in cui l’intera somma (il venti per cento dell’importo contrattuale) riconoscibile attraverso le riserve sia stata accettata nel corso dell’esecuzione, tramite l’accordo bonario.

6.2.2.– Quanto poi agli interessi dell’impresa appaltatrice, si palesa a fortiori la manifesta irragionevolezza dell’esito a cui condurrebbe l’interpretazione – per ciò stesso erronea – prospettata dal rimettente.

Selezionare le riserve ammissibili in base all’ordine della loro iscrizione vorrebbe dire negare all’impresa di poter agire in via giudiziale per dimostrare la fondatezza delle sue pretese, in ragione di una circostanza che è del tutto contingente, casuale e priva di intrinseca ragionevolezza, qual è l’ordine di annotazione delle richieste, condizionato dalla mera successione cronologica con cui si pongono i vari problemi nell’esecuzione del contratto.

7.– Per le ragioni esposte, merita valutare la compatibilità con la Costituzione dell’interpretazione della giurisprudenza prevalente (si veda, supra, punto 6), secondo la quale, entro il venti per cento dell’importo contrattuale, è possibile riconoscere la fondatezza delle pretese annotate con riserva, qualunque sia stato l’ordine con cui sono state iscritte.

La richiamata interpretazione della soglia legale di cui al censurato art. 240-bis rinviene, infatti, una giustificazione nella sua riferibilità al margine di possibile adattamento del contratto, previsto, in caso di sopravvenienze, dalla stessa disciplina dell’appalto pubblico. Questa, infatti, identifica nel valore di un quinto dell’importo contrattuale il discrimine che separa il grado di adeguamento tollerato del regolamento di interessi dal punto di rottura, oltre il quale o si risolve l’appalto o si giunge alla stipula di un nuovo contratto tramite un’eventuale variante.

8.– Occorre, tuttavia, precisare che questa stessa ricostruzione ermeneutica deve tenere conto della non assoluta corrispondenza fra la ratio della iscrizione delle riserve e la logica che sovraintende agli adeguamenti dell’appalto. Da un lato, infatti, le riserve non riguardano solo mutamenti del contratto, bensì anche la contestazione di inadempienze della stazione appaltante; e, da un altro lato, l’adeguamento dell’importo contrattuale in ragione di sopravvenienze è affidato ad un quadro di strumenti complesso che comprende non solo le riserve, ma anche le varianti e le compensazioni.

Di conseguenza, si deve ulteriormente valutare il profilo relativo al possibile vulnus all’interesse dell’impresa appaltatrice, che intenda far valere in via giudiziale legittime pretese contrattuali, anche al di sopra del richiamato limite.

A tal proposito, è opportuno tenere conto dell’estrema varietà di ipotesi per le quali lo stesso legislatore impone l’onere di iscrivere riserve: richieste di corretta esecuzione del contratto, a fronte di erronee contabilizzazioni da parte del committente; risarcimenti del danno per ritardi nella consegna o per sospensioni dell’esecuzione dovute alla stazione appaltante; maggiori costi derivanti dalla difformità dei luoghi e dalla loro consegna parziale; contestazioni – nel caso di variazioni inferiori al quinto dell’importo contrattuale – sia dell’equo compenso, stabilito dalla stazione appaltante quando le modifiche comportino un notevole pregiudizio economico per singole categorie di lavorazioni omogenee, sia del prezzo non concordato per lavorazioni o materiali non previsti nel contratto originario; così come il dissenso rispetto alle determinazioni del responsabile unico del procedimento (RUP) in ipotesi di controversie tecniche. E non può tacersi che – secondo la dottrina e la giurisprudenza – l’onere di iscrivere riserve ha una valenza generale e investe ogni pretesa di carattere economico che l’esecutore dei lavori intenda far valere nei confronti dell’amministrazione.

8.1.– Dinanzi al quadro sopra descritto, occorre innanzitutto segnalare che i rimedi contrattuali di natura risolutoria, e le correlate azioni anche risarcitorie, non sono, secondo un orientamento costante del diritto vivente, subordinati al rispetto dell’onere di iscrivere riserve.

Ove la soglia del venti per cento venisse superata con richieste ascrivibili a inadempimenti della stazione appaltante che, nel complesso, evidenziassero, da parte del committente, un inadempimento di non scarsa importanza, sarebbe certamente consentita, oltre alla risoluzione del contratto, anche l’azione risarcitoria per illecito contrattuale (Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenze 5 settembre 2018, n. 21656; 3 novembre 2016, n. 22275; 17 settembre 2014, n. 19531; 11 gennaio 2006, n. 388; 4 febbraio 2000, n. 1217; 17 marzo 1982, n. 1728).

Parimenti, le pretese iscritte a riserva relativamente a sopravvenienze oggettive potrebbero, nel caso concreto, dar luogo ad una risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 132 cod. contratti pubblici, così come il concorrere di plurime sopravvenienze potrebbe legittimare un’azione di risoluzione del contratto riconducibile, previa dimostrazione dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, all’art. 1467 cod. civ. (ex multis, Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenze 26 gennaio 2018, n. 2047; 18 maggio 2016, n. 10165; Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 19 agosto 2016, n. 3653).

8.2.– Svolta tale premessa, non si può, comunque, escludere che, in ragione della richiamata varietà di pretese soggette all’onere di iscrizione in riserva e dell’ovvia eventualità che possano sommarsi richieste eterogenee, residuino, oltre la soglia individuata dalla norma censurata, istanze legittime e, tuttavia, inidonee a fondare i richiamati rimedi contrattuali. Potrebbe trattarsi di richieste che facciano valere l’adempimento della prestazione contrattuale (e/o la relativa responsabilità) o di pretese che la legge riconosce all’appaltatore, regolando l’iscrizione di riserve in ipotesi di sopravvenienze contrattuali.

8.2.1.– Ebbene, ove si tratti di istanze correlate con sopravvenienze di natura oggettiva, la soglia legale posta dalla disposizione censurata alla sommatoria delle riserve si traduce, evidentemente, in un ampliamento del rischio contrattuale dell’impresa, rispetto a quello che viene disegnato dalle singole disposizioni in materia di riserve.

Tuttavia, deve precisarsi che, tenuto conto che le pretese sotto soglia vengono accolte, che le modifiche del contratto affidate alla tecnica delle riserve riguardano ipotesi alquanto marginali e che, comunque, il contratto si può sciogliere se si dimostra che le sopravvenienze determinano, anche nella loro globalità, una eccessiva onerosità sopravvenuta, il maggior rischio che va a gravare sull’appaltatore è tale da non palesare una irragionevolezza rispetto all’art. 41 Cost. Si tratta, infatti, di un sacrificio ragionevole nel bilanciamento con gli interessi di rango costituzionale – sopra richiamati – che la norma censurata tutela.

8.2.2.– Ulteriori precisazioni si impongono, poi, per l’eventualità che l’impresa si trovi a sopportare – a causa della soglia legale censurata di cui all’art. 240-bis, comma 1, cod. contratti pubblici – i costi dell’inadempimento della controparte. In tal caso, infatti, verrebbe a delinearsi un esonero legale dalla responsabilità del committente, sia pure limitato all’inadempimento non grave che ecceda la soglia delle riserve liquidabili.

La qualificazione della fattispecie quale esonero legale se, per un verso, allontana lo spettro di una violazione degli artt. 3 e 24 Cost., che si avrebbe ipotizzando un mero impedimento a far valere in via giudiziale l’azione di responsabilità contrattuale, per un altro verso, proprio in quanto segnala una compressione in radice del diritto sostanziale, non è certo priva di conseguenze e di implicazioni ermeneutiche.

Un esonero legale dalla responsabilità, infatti, in tanto può superare il vaglio di costituzionalità, sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto rispetti un doppio ordine di presupposti: l’idoneità a perseguire un obiettivo di utilità sociale e il carattere della proporzionalità (ex plurimis, sentenze n. 194 del 2018, n. 235 del 2014, n. 303 del 2011, n. 199 del 2005, n. 254 del 2002, n. 463 del 1997 e n. 420 del 1991).

Nel caso di specie, il sacrificio per l’impresa si giustifica sulla base dei già richiamati interessi di rango costituzionale tutelati dalla norma censurata.

Quanto, invece, alla proporzionalità, occorre considerare che questa Corte la esclude ove la limitazione legale si estenda all’inadempimento doloso o gravemente colposo.

L’illegittimità costituzionale di tali limitazioni discende, in particolare, dal coordinamento fra l’art. 3 e l’art. 41 Cost., nei termini di un equo contemperamento fra gli interessi contrapposti (sentenze n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991).

Simile argomentazione si adatta molto efficacemente al contesto in esame, che vede delinearsi un bilanciamento fra l’interesse a far operare il meccanismo deterrente e preventivo sotteso alla norma censurata e quello dell’impresa appaltatrice a che la stazione appaltante non sfrutti la più vantaggiosa distribuzione del rischio contrattuale, per violare dolosamente il contratto o per attenuare, in maniera gravemente colposa, il proprio impegno nell’esecuzione.

Dunque, nella misura in cui la soglia stabilita dall’art. 240-bis, comma 1, cod. contratti pubblici può tradursi in un esonero dalla responsabilità del committente, si impone una interpretazione costituzionalmente conforme di tale previsione. Non potendo l’esonero legale estendersi, nel rispetto dei principi costituzionali, all’inadempimento doloso o gravemente colposo, la relativa azione nei confronti della stazione appaltante, pur soggetta all’onere dell’iscrizione a riserva (ex multis, Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenze 5 agosto 2016, n. 16537; 28 gennaio 2015, n. 1619; 14 febbraio 2014, n. 3548), non deve, comunque, risentire del limite legale posto alla riconoscibilità delle pretese annotate.

9.– In sintesi, relativamente agli interessi che fanno capo all’impresa appaltatrice, deve ritenersi che l’interpretazione sopra prospettata della norma censurata, coordinata con la ricostruzione ermeneutica dell’apparato di tutele contrattuali, consenta di escludere un irragionevole vulnus agli invocati diritti di rango costituzionale.

Entro la soglia del venti per cento dell’importo contrattuale, qualunque pretesa dell’appaltatore può essere riconosciuta, in via bonaria o previo accertamento giudiziale.

Oltre tale limite legale è, viceversa, certamente inibito accedere all’accordo bonario, mentre non risultano precluse azioni giudiziarie, piuttosto viene lievemente potenziato il rischio contrattuale.

Infatti, per orientamento uniforme del diritto vivente, sono indifferenti all’istituto dell’iscrizione di riserve e, dunque, sono sempre ammissibili le azioni risolutorie e quelle ad esse correlate, a partire dal risarcimento del danno di cui all’art. 1453 cod. civ.

Inoltre, sulla base dell’interpretazione sopra proposta, non risente del limite legale posto dal censurato art. 240-bis, comma 1, l’azione di risarcimento del danno per inadempimento doloso o gravemente colposo della stazione appaltante, sempre che la relativa pretesa sia stata iscritta a riserva.

Per tutte le altre riserve che eccedono la soglia, la norma censurata implica: una ridefinizione del rischio oggettivo del contratto, con un suo lieve incremento, nonché un limitato esonero dalla responsabilità del committente, reso tuttavia conforme, in via ermeneutica, ai principi costituzionali.

Ne consegue che la tutela degli interessi di rango costituzionale, sottesi alla disposizione censurata, non cagiona alcuna violazione degli artt. 3 e 24 Cost.

D’altro canto, il lieve incremento del rischio contrattuale, che essa comporta, non determina un irragionevole contrasto con il combinato disposto degli artt. 3 e 41 Cost. La garanzia, che quest’ultima norma riconosce alla libera iniziativa privata e, indirettamente, all’autonomia contrattuale, non viene, infatti, intaccata nella sua sostanza e le menzionate libertà subiscono solo una minima compressione, non irragionevole, nel bilanciamento con gli interessi preservati dall’art. 240-bis cod. contratti pubblici.

10.– Da ultimo, relativamente alla questione di legittimità costituzionale che il rimettente solleva rispetto all’art. 97 Cost., deve ritenersi che il rischio di deresponsabilizzazione della pubblica amministrazione si dilegui non appena si consideri proprio la persistente responsabilità della stazione appaltante in caso di inadempimento di non lieve entità e comunque in ipotesi di dolo o colpa grave.

Ugualmente infondato è il dubbio che la norma censurata pregiudichi il buon andamento della pubblica amministrazione, e in specie l’interesse alla trasparenza della stazione appaltante. L’interpretazione adottata, nel riferire la soglia delle riserve non all’iscrizione ma al loro possibile accoglimento, conferma l’onere per l’appaltatore di iscrivere riserve e il suo persistente interesse a rispettarlo, il che preserva l’esigenza dell’amministrazione di avere una continua evidenza dei costi. Quanto poi all’ipotesi che la stazione appaltante riconosca, per accordo bonario, l’intero ammontare delle riserve liquidabili e l’impresa appaltatrice non sia più motivata ad annotarle, si tratta di un rischio limitato che il committente consapevolmente si assume e che dovrebbe suggerire – come si è già sopra anticipato – un potenziamento della vigilanza del cantiere da parte del direttore dei lavori e del responsabile unico del procedimento.

Ad ogni modo, si deve ricordare che, a difesa del buon andamento della pubblica amministrazione, concorrono, altresì, l’ampia facoltà di recesso riconosciuta alla stazione appaltante dall’art. 134 del cod. contratti pubblici nonché la responsabilità degli stessi funzionari.

La questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 97 Cost., alla luce delle soluzioni ermeneutiche in precedenza prospettate, deve, pertanto, ritenersi non fondata, mentre deve ribadirsi, per converso, che proprio l’art. 97 Cost. costituisce il principale sostrato costituzionale che ispira la disposizione censurata.

11.– In conclusione, l’art. 240-bis, comma 1, cod. contratti pubblici, interpretato nei termini sopra argomentati e coordinato con l’ampia gamma di rimedi contrattuali, che risultano impermeabili al limite legale di cui alla norma censurata, non determina alcuna violazione degli artt. 3, 24, 41 e 97 Cost.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 240-bis, comma 1, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), come modificato dall’art. 4, comma 2, lettera hh), numero 1), del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 41 e 97 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Lecco, prima sezione civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 aprile 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Emanuela NAVARRETTA, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 27 maggio 2021.