Ordinanza n. 67 del 2021

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ORDINANZA N. 67

ANNO 2021

 

Commento alla decisione di

 

Jacopo Ferracuti

La gestione dell’emergenza Covid-19 alla prova del conflitto interorganico

Prime note sulle ordinanze di inammissibilità nn. 66 e 67 del 2021

 

negli Studi di questa Rivista 2021/II, 364

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso da Sara Cunial, nella qualità di deputata, con ricorso depositato in cancelleria il 7 dicembre 2020 ed iscritto al n. 13 del registro conflitti tra poteri 2020, fase di ammissibilità, in relazione a tutti i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri e a tutti i decreti e le ordinanze ministeriali adottati, fino alla data di deposito del ricorso, per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19.

Udito nella camera di consiglio del 10 marzo 2021 il Giudice relatore Nicolò Zanon;

deliberato nella camera di consiglio del 10 marzo 2021.

Ritenuto che, con ricorso depositato il 7 dicembre 2020, la deputata Sara Cunial ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti «delle due Camere che compongono il Parlamento nazionale e, ove occorra, del Governo»;

che oggetto del conflitto sono tutti i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri e tutti i decreti e le ordinanze ministeriali adottati per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, analiticamente elencati in ordine cronologico, dei quali la ricorrente chiede l’annullamento;

che la ricorrente chiede, altresì, che la Corte costituzionale sollevi d’ufficio dinanzi a sé questione di legittimità costituzionale di tutti i decreti-legge (e relative leggi di conversione intervenute fino alla data di deposito del ricorso), adottati allo stesso scopo e pure analiticamente elencati, per contrasto con una pluralità di parametri costituzionali;

che la ricorrente – appartenente al Gruppo Misto, senza essere iscritta ad alcuna componente – espone che ciascuno dei provvedimenti indicati in ricorso «perviene, a violare, comprimere, sospendere o compromettere, in modo più o meno incisivo a seconda del periodo e di altre circostanze», una serie di disposizioni costituzionali;

che, in particolare, sarebbero lesi: il diritto al lavoro (artt. 1, 4, 35 e 36 della Costituzione); la libertà personale (art. 13 Cost.); la libertà di circolazione (art. 16 Cost.); la libertà di riunione (art. 17 Cost.), la libertà di culto (art. 19 Cost.), la libertà «di opinione e [il] diritto all’informazione» (art. 21 Cost.); il «[d]iritto alla cura, libertà dall’obbligo sanitario» (art. 32 Cost.); il diritto al libero esercizio delle arti e delle scienze e al loro libero insegnamento (art. 33 Cost.); il diritto all’istruzione (art. 34 Cost.); la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.);

che, secondo la ricorrente, il contenuto dei suddetti decreti-legge, e delle relative leggi di conversione, si ridurrebbe ad «apodittiche espressioni generiche, di principio, di mero stile, elencative di asserite astratte necessità comportamentali e di messa in atto di misure di ordine pubblico ritenute idonee al raggiungimento delle dichiarate finalità di tutela della salute collettiva»;

che, utilizzando «quale vettore il metodo di definire “legge” una formulazione contenutisticamente insufficiente», il Governo avrebbe attuato, «con coscienza e volontà, la cessione dell’effettivo concreto “potere legislativo” a favore di soggetti terzi titolari di poteri meramente esecutivi»;

che, grazie a tale «illegittima strategia», il Governo avrebbe posto in essere «una attività compulsiva avente il nomen iuris di “regolamento”, ma il contenuto di “legge” vera e propria», con l’emanazione di ventuno decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, per mezzo dei quali avrebbe “esplicitato” «le concrete misure di compressione delle libertà costituzionali», quali, ad esempio, l’obbligo di rimanere nelle mura domestiche; la chiusura delle attività commerciali; la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado e delle università; l’obbligo «generalizzato di soggiacere a plurimi trattamenti sanitari invasivi (mascherine, tamponi, termoscanner) in assenza di consenso o in carenza rilevante di consenso»;

che il Governo, in tal modo, avrebbe disciplinato «integralmente le modalità e le tempistiche dell’esercizio di essenziali diritti costituzionali rispetto ai quali avrebbe dovuto operare la riserva di legge»;

che, «sempre in correlazione con i contenuti generici dei D.L. e delle leggi di conversione in materia di asserita emergenza sanitaria», il Governo avrebbe utilizzato lo strumento dei decreti ministeriali (ne sono elencati in ricorso sessantuno) «con le medesime modalità illegittime», in quanto anch’essi contenenti «limitazioni ai diritti costituzionali»;

che, in punto di ammissibilità del conflitto, l’on. Cunial afferma che la proponibilità del ricorso, «in quanto parlamentare», sarebbe «pacifica» in forza delle pronunce della Corte costituzionale, tra le quali cita «gli arresti n. 274-275/2019 assunti in continuità con l’ordinanza 17/2019», riportando, di quest’ultima, ampi stralci dalla motivazione;

che, a parere dell’on. Cunial, sarebbe comprovata una sostanziale negazione o un’evidente menomazione della funzione costituzionalmente attribuita alla ricorrente;

che, in forza del principio di legalità sostanziale, le «norme amministrative» – quali quelle asseritamente prodotte dagli atti oggetto di conflitto – dovrebbero avere «fondamento legale» e, dunque, essere soggette a limiti «posti da leggi chiare, precise e prevedibili», perché, in caso contrario, la legalità sarebbe «solo formale e non sostanziale»;

che, invece, a giudizio della ricorrente, i decreti-legge e le leggi di conversione elencati nell’atto di promovimento del conflitto sarebbero «sprovvisti dei requisiti minimi richiesti sia dalla Carta Costituzionale sia dalla CEDU, al fine di poterli definire tali», sicché ad essi non potrebbero essere riconosciuti «i requisiti di autosufficienza per poter assurgere al rango di Legge»;

che verrebbe in rilievo, dunque, una «violazione di immediata palese evidenza» delle prerogative di parlamentare, in quanto la ricorrente avrebbe «dibattuto in Parlamento, ed espresso in quella sede il suo voto e, quindi, esercitato le sue funzioni istituzionali, con riferimento ad un vuoto simulacro», con conseguente «violazione effettiva, materiale, concreta, grave ed immediata, dei citati artt. 67-68-70-71-72 Cost.»;

che, infatti, a giudizio della ricorrente, le «norme regolamentari» contenute negli impugnati decreti (del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri che li hanno adottati) rappresenterebbero, in realtà, «l’unica vera fonte di produzione legislativa primaria, pienamente conchiusa ed autosufficiente», e che sarebbero proprio tali atti «a determinare la violazione delle citate norme costituzionali», sicché «sulle singole misure concretamente coercitive non [sarebbe] intervenuto il dibattito parlamentare e non si [sarebbe] espresso il voto»;

che, con tale modus procedendi, si sarebbe attuata «una traslazione della potestà concreta legislativa dal Parlamento e/o dal Governo su delega del medesimo, verso il Presidente del Consiglio od addirittura a favore dei singoli ministri», che avrebbero adottato «veri provvedimenti-leggi», peraltro «solo astrattamente scrutinabili in sede giudiziaria», dal momento che «la compulsività temporale della loro emissione» sarebbe «d’impedimento a qualsivoglia possibile effettivo controllo giurisdizionale»;

che, in ogni caso, sarebbe stato violato il canone della ragionevolezza, per sproporzione dei mezzi predisposti rispetto al fine perseguito, in quanto i decreti-legge e le relative leggi di conversione sarebbero stati adottati in base alla «asserita gravità per la salute pubblica conseguente alla diffusione dei contagi del virus Sars-CoV- 2», sicché la loro giustificazione sarebbe costituita dalla «asserita prevalenza dell’art. 32 Cost. su qualsiasi altro diritto costituzionale leso da quest’ultimo»;

che, secondo la ricorrente, dall’esame dei dati epidemiologici elaborati dall’Istituto superiore di sanità (ISS) in data 2 novembre 2020, si ricaverebbe la conclusione di una «minor contagiosità del covid 19 rispetto alle simil influenze coronavirus degli anni precedenti in presenza delle medesime sintomatologie»;

che, inoltre, non vi sarebbe alcuno strumento di rilevamento della «positività al covid 19» che abbia una certificazione di idoneità, sicché, a giudizio della ricorrente, i dati sui contagiati sarebbero «macroscopicamente e notoriamente inattendibili», se messi a confronto con altre elaborazioni provenienti da fonti straniere, sicché il cosiddetto «principio di precauzione» – posto a base dei provvedimenti oggetto di conflitto – sarebbe stato applicato in maniera non corretta, in quanto scollegato dal necessario rispetto del principio di proporzionalità;

che, dunque, a parere della ricorrente, l’adozione di «misure di lockdown», considerate tra le più severe al mondo, sarebbe priva di qualsiasi giustificazione, oltre ad essersi rivelata misura inefficace, in considerazione del fatto che la malattia di cui si tratta sarebbe «una similinfluenza gestibile con la messa in campo dell’ordinaria diligenza organizzativo-sanitaria»;

che, in definitiva, secondo la ricorrente, il Governo «voleva raggiungere l’obiettivo di rendere impossibile, al momento dell’esame preliminare in aula, nonché al momento del voto, che la sottoscritta parlamentare, e così altri parlamentari, potessero dispiegare compiutamente la loro volontà di verifica e controllo sui reali contenuti normativi emergenziali», derivandone la violazione degli artt. 67, 68, 70, 71 e 72 Cost;

che le argomentazioni illustrate vengono dalla ricorrente poste a base anche di una «istanza incidentale di illegittimità costituzionale di tutta la produzione normativa sopraelencata», non ricorrendo la possibilità «di addurre, quale referente normativo costituzionale, l’art. 32» Cost., sia per l’insussistenza di «alcuna emergenza per la salute pubblica dovuta al virus covid 19», sia perché quello tutelato dall’art. 32 Cost. non potrebbe prevalere su tutti gli altri diritti costituzionali;

che, in prossimità della camera di consiglio del 10 marzo 2021, la ricorrente ha depositato memoria, in data 18 febbraio 2021 e, dunque, fuori termine.

Considerato che la deputata Sara Cunial solleva conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti «delle due Camere che compongono il Parlamento nazionale e, ove occorra, del Governo», per la declaratoria della menomazione delle proprie attribuzioni, in quanto rappresentante della Nazione senza vincolo di mandato ex art. 67 della Costituzione, e, come tale, titolare pro quota del potere di determinare la politica nazionale, «nel rispetto del Regolamento di cui all’articolo 64 Cost., e [d]ella funzione legislativa ex articolo 70 Cost.»;

che la ricorrente, con riferimento ai provvedimenti adottati dal Governo per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da coronavirus, afferma che «i decreti legge e le leggi di conversione, sulle quali si è sviluppato il dibatto parlamentare, sono sprovvisti di un contenuto sostanziale di caratura effettivamente “legislativa”» e che «gli effettivi contenuti “legislativi” delle misure di compressione delle libertà costituzionali sono stati riversati dal governo nei DPCM e nei DM» oggetto del conflitto, adottati «in violazione dei requisiti di necessità e di proporzionalità»;

che, dunque, «sia il dibattito parlamentare che il voto su ciascuno dei provvedimenti legislativi di cui in epigrafe sono stati alterati dall’illegittimo richiamo all’articolo 32 Cost.», a fronte di una situazione riconducibile «esclusivamente, a negligenza nella gestione [del] sistema sanitario nazionale da parte del governo»;

che, in particolare, il Governo avrebbe operato – attraverso decreti-legge privi di “contenuto normativo”, pur se convertiti in legge – «la cessione dell’effettivo concreto “potere legislativo” a favore di soggetti terzi titolari di poteri meramente esecutivi»;

che, di conseguenza, la ricorrente avrebbe «dibattuto in Parlamento, ed espresso in quella sede il suo voto e, quindi, esercitato le sue funzioni istituzionali, con riferimento ad un vuoto simulacro», perché «l’unica vera fonte di produzione legislativa primaria» sarebbe costituita dalle «norme regolamentari» contenute negli impugnati decreti (del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri che li hanno adottati) e sulle quali non sarebbe intervenuto il dibattito parlamentare e non si sarebbe espresso alcun voto;

che, con tale modus procedendi, si sarebbe attuata «una traslazione della potestà concreta legislativa dal Parlamento e/o dal Governo su delega del medesimo, verso il Presidente del Consiglio od addirittura a favore dei singoli ministri»;

che, in definitiva, è richiesto a questa Corte di dichiarare che la ricorrente è stata privata della reale possibilità di esercitare le sue funzioni di parlamentare, non avendo potuto partecipare né al reale dibattito né all’effettivo voto sulle misure di emergenza concretamente adottate;

che, in questa fase del giudizio, la Corte è chiamata a deliberare, in camera di consiglio e senza contraddittorio, sulla sussistenza dei requisiti soggettivo e oggettivo prescritti dall’art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), ossia a decidere se il conflitto insorga tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni delineata per i vari poteri da norme costituzionali;

che l’ordinanza n. 17 del 2019 di questa Corte ha riconosciuto l’esistenza di una sfera di prerogative che spettano al singolo parlamentare, e ha affermato che – qualora risultino lese da altri organi parlamentari – esse possono essere difese con lo strumento del ricorso per conflitto tra poteri dello Stato;

che la stessa ordinanza n. 17 del 2019 ha inoltre precisato che «[l]a legittimazione attiva del singolo parlamentare deve […] essere rigorosamente circoscritta quanto al profilo oggettivo, ossia alle menomazioni censurabili in sede di conflitto»;

che, in particolare, come ribadito dalle ordinanze n. 60 del 2020, n. 275 e n. 274 del 2019, tale legittimazione deve fondarsi sull’allegazione di vizi che determinano violazioni manifeste delle prerogative costituzionali dei parlamentari ed è necessario che tali violazioni siano rilevabili nella loro evidenza già in sede di sommaria delibazione;

che, ai fini dell’ammissibilità del conflitto, è insomma necessario che il singolo parlamentare alleghi «una sostanziale negazione o un’evidente menomazione» (così, ancora, ordinanza n. 17 del 2019) delle proprie prerogative costituzionali;

che la stessa ricorrente, la quale, in prima battuta, rivolge le sue doglianze nei confronti della Camera di appartenenza, riconosce di avere partecipato, con pienezza di facoltà di espressione e di voto, al dibattito parlamentare sul contenuto dei decreti-legge e sulla loro conversione in legge;

che, dunque, dalla stessa narrativa del ricorso emerge come non sia mancato il confronto parlamentare (ordinanza n. 274 del 2019) e come i deputati abbiano avuto la possibilità di esercitare le proprie funzioni costituzionali (ordinanza n. 275 del 2019), principalmente in sede di conversione in legge dei decreti-legge indicati in ricorso;

che, in definitiva, è la stessa prospettazione della ricorrente ad attestare l’inesistenza di «violazioni manifeste delle prerogative costituzionali» poste a garanzia dello status dei parlamentari nell’ambito del procedimento legislativo (ordinanza n. 275 del 2019), in particolare della facoltà, necessaria all’esercizio del libero mandato parlamentare (art. 67 Cost.), di partecipare alle discussioni e alle deliberazioni esprimendo «opinioni» e «voti» (ai quali si riferisce l’art. 68 Cost., sia pure al diverso fine di individuare l’area d’insindacabilità delle funzioni parlamentari);

che, inoltre, la lamentata «traslazione della potestà concreta legislativa dal Parlamento e/o dal Governo su delega del medesimo, verso il Presidente del Consiglio od addirittura a favore dei singoli ministri», nei termini prospettati in ricorso, sarebbe semmai idonea a menomare le attribuzioni dell’intera Camera cui appartiene la ricorrente, posto che la funzione legislativa, per dettato costituzionale, è esercitata collettivamente dalle due Camere (art. 70 Cost.);

che, quando il soggetto titolare della sfera di attribuzioni costituzionali che si assumono violate è la Camera di appartenenza, sarà quest’ultima, e non il singolo parlamentare, legittimata a valutare l’opportunità di reagire avverso le supposte violazioni (ordinanza n. 129 del 2020);

che, per questi profili, il contenuto del ricorso dell’on. Cunial appare indirizzato a contestare il modus operandi del Governo, non a caso individuato come (ulteriore) legittimato passivo;

che, tuttavia, non è ipotizzabile alcuna concorrenza tra la legittimazione attiva del singolo parlamentare e quella della Camera di appartenenza (ordinanza n. 163 del 2018);

che, infatti, questa Corte ha già escluso, in un conflitto promosso dal singolo parlamentare nei confronti del Governo, che il primo possa rappresentare l’intero organo cui appartiene, perché il singolo parlamentare non è «titolare di attribuzioni individuali costituzionalmente protette nei confronti dell’esecutivo» (ordinanza n. 181 del 2018);

che, infine, queste assorbenti ragioni dispensano dall’esame di altri aspetti del conflitto, relativi, in particolare, all’esatta individuazione degli atti asseritamente lesivi delle attribuzioni del singolo parlamentare ed alla proponibilità del conflitto nei confronti anche del Senato della Repubblica, organo al quale non appartiene la parlamentare ricorrente;

che, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, promosso dalla deputata Sara Cunial, nei confronti della Camera dei deputati, del Senato della Repubblica e del Governo, indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 13 aprile 2021.