ORDINANZA N. 66
ANNO 2021
Commento alla decisione di
Jacopo Ferracuti
La gestione dell’emergenza Covid-19 alla prova del conflitto interorganico
Prime note sulle ordinanze di inammissibilità nn. 66 e 67 del 2021
negli Studi di questa Rivista 2021/II, 364
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giancarlo CORAGGIO
Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso da Vittorio Sgarbi, nella qualità di deputato, con ricorso depositato in cancelleria il 20 novembre 2020 ed iscritto al n. 12 del registro conflitti tra poteri 2020, fase di ammissibilità, in relazione a tutti i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri adottati, fino alla data di deposito del ricorso, per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19.
Udito nella camera di consiglio del 10 marzo 2021 il Giudice relatore Nicolò Zanon;
deliberato nella camera di consiglio del 10 marzo 2021.
Ritenuto che, con ricorso depositato il 20 novembre 2020, il deputato Vittorio Sgarbi ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, «anche nella sua qualità di rappresentante del Governo della Repubblica Italiana»;
che oggetto del conflitto sono «[t]utti i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri adottati per fronteggiare l’emergenza Covid-19-SARS-Cov2», che vengono analiticamente elencati in ordine cronologico, «nella parte in cui costituiscono esercizio della funzione legislativa da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri in contrasto con le norme sulla produzione legislativa di cui agli artt. 76 e 77 Cost.»;
che di tali atti il ricorrente chiede l’annullamento, previa dichiarazione di non spettanza al Presidente del Consiglio dei ministri e al Governo del potere di adottare le misure previste dai suddetti decreti;
che il ricorrente chiede, altresì, che la Corte costituzionale sollevi d’ufficio dinanzi a sé questione di costituzionalità di quattro decreti-legge e delle relative leggi di conversione, pure analiticamente elencati, per contrasto con una pluralità di parametri costituzionali;
che il ricorrente – membro della Camera dei deputati, appartenente al Gruppo Misto nella componente politica “Noi con l’Italia-USEI-Cambiamo!-Alleanza di Centro” – ripercorre le tappe che hanno contrassegnato l’azione del Governo nel contrasto alla pandemia da coronavirus, a partire dalla dichiarazione dello stato di emergenza del 31 gennaio 2020, allegando che, con l’emanazione del decreto-legge 23 febbraio 2020 n. 6 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 5 marzo 2020, n. 13, si sarebbe verificato un «sovvertimento dell’ordine costituzionale», con l’attribuzione al Presidente del Consiglio dei ministri di un «potere di emergenza e di deroga a tutti i diritti fondamentali costituzionalmente garantiti» e con «l’introduzione di un procedimento in deroga agli artt. 76 e 77 Cost. per l’adozione di norme di diritto»;
che, in particolare, con il d.l. n. 6 del 2020, come convertito, sarebbero state genericamente elencate una serie di misure, «consistenti nella forte limitazione o nella totale esclusione di una serie di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti», affidandone la concreta individuazione ad uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute e sentiti i ministri competenti nonché i Presidenti delle Regioni interessate (nel caso in cui le misure avessero riguardato esclusivamente una sola Regione o alcune specifiche Regioni), ovvero il Presidente della Conferenza dei Presidenti delle Regioni, nel caso di misure riferite all’intero territorio nazionale;
che, di conseguenza, venivano emanati quattro decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (il 23 e il 25 febbraio, il 1° e il 5 marzo 2020);
che, con i successivi decreti del Presidente del Consiglio dei ministri dell’8, del 9 e dell’11 marzo 2020, secondo il ricorrente, il Presidente del Consiglio dei ministri «metteva sostanzialmente in quarantena tutti i cittadini italiani sani – con pochissime eccezioni da documentare alla polizia», con ciò impedendo l’esercizio di una serie di diritti fondamentali: il diritto al lavoro (artt. 1, 4, 35 e 36 della Costituzione), la libertà personale (art. 13 Cost.), la libertà di circolazione (art. 16 Cost.), la libertà di riunione (art. 17 Cost.), la libertà di culto (art. 19 Cost.), la libertà di istruzione (art. 34 Cost.), la libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), tutti tutelati ai sensi dell’art. 2 Cost.;
che i successivi decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (adottati il 10 e il 26 aprile 2020), nella ricostruzione del ricorrente, avrebbero confermato «la sostanziale chiusura dell’intero paese e l’obbligo per i cittadini, con pochissime eccezioni, di restare chiusi nelle proprie abitazioni indipendentemente dal loro stato di salute e dal rischio concreto di contagiare ed essere infettati»;
che solo con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 17 maggio 2020 (Disposizioni attuative del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, recante misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, e del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, recante ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19) si prevedeva la progressiva riapertura delle attività economiche, mantenendo ferma però, «dall’ambito commerciale e professionale, alla scuola e all’università sino al culto e alle cerimonie religiose», una regolamentazione dettagliata che non era adottata «nemmeno dal Presidente del Consiglio», ma demandata ad una serie di protocolli, redatti «dai soggetti più diversi ed ai quali il DPCM faceva rinvio recettizio mediante la tecnica dell’allegazione»;
che, durante tutto il periodo preso in considerazione, il Presidente del Consiglio dei ministri avrebbe agito, secondo il ricorrente, «in via sostanzialmente autonoma con scarsi o pochissimi passaggi parlamentari, anche se limitati a semplici fini informativi delle proprie decisioni autocratiche»;
che, espone ancora il ricorrente, trascorso un breve periodo di «apertura durante i mesi estivi» (in forza dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri del 17 e 18 maggio, dell’11 giugno e del 14 luglio 2020), con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 7 settembre 2020 (Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, recante misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, e del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, recante ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19) sarebbe stata imposta una nuova misura, «sempre gravemente lesiva del diritto di libertà individuale di cui all’art. 13 Cost. e del divieto di imporre trattamenti sanitari di cui all’art. 32 Cost.», consistente nell’obbligo di indossare una mascherina protettiva delle vie respiratorie, dapprima nei luoghi al chiuso e, successivamente, anche all’aperto (in forza del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 13 ottobre 2020, contenente «Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 maggio 2020, n. 35, recante “Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19”, e del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 2020, n. 74, recante “Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19”»), con conseguente «grave aggressione finanche al diritto di respirare e di avere una propria immagine costituita dalla faccia, riconoscibile per tutti»;
che, nella ricostruzione del ricorrente, con la stagione autunnale e la «prevedibile ripresa dei normalissimi casi di influenza (compreso il Covid-19)», il Presidente del Consiglio dei ministri avrebbe «riattivato la distruzione del tessuto economico e sociale del paese», limitando, con il decreto 18 ottobre 2020 (Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 maggio 2020, n. 35, recante «Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19», e del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 2020, n. 74, recante «Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19»), l’attività di ristoranti, palestre e centri termali, secondo un sistema di misure calibrate «mediante la progressiva colorazione delle diverse regioni in conseguenza del ritenuto aggravamento del contagio», quest’ultimo misurato attraverso la rilevazione di soggetti positivi al coronavirus mediante una tecnologia, il tampone rino-faringeo, «che a detta del suo stesso ideatore non costitui[rebbe] uno strumento diagnostico», in quanto la «quasi totalità» dei “positivi” sarebbero «persone perfettamente sane e prive di sintomi»;
che, in punto di ammissibilità, il ricorrente sostiene che il conflitto riguarderebbe l’illegittima invasione da parte del Governo delle prerogative del singolo parlamentare, al quale sarebbe stato negato «il diritto di dire e contraddire nell’ambito del processo democratico parlamentare»;
che, secondo il ricorrente, la delega – mediante decreto-legge – da parte del Governo al suo Presidente, per l’adozione di norme aventi l’effetto di sospendere i diritti fondamentali costituzionali, violerebbe gli artt. 76 e 77 Cost., negando il ruolo del Parlamento nell’adozione delle norme di legge;
che, per il ricorrente, la funzione di controllo parlamentare spetterebbe non solo alle Camere nel loro complesso, ma altresì al singolo parlamentare, «anche e soprattutto laddove la sua voce sia in dissenso con quella della maggioranza»;
che il ricorrente ricostruisce la giurisprudenza costituzionale in tema di legittimazione del singolo parlamentare a sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, riassumendo i principi espressi dall’ordinanza n. 17 del 2019 della Corte costituzionale, alle cui statuizioni «fa espresso richiamo»;
che, in base a tali principi, come interpretati dal ricorrente, i parlamentari sarebbero titolari di distinte quote o frazioni di attribuzioni costituzionalmente garantite, nonché del diritto di rivolgersi al giudice costituzionale qualora subiscano una lesione o un’usurpazione delle loro attribuzioni da parte di altri organi parlamentari «o, è agevole soggiungere, da altri organi dello stato come il governo»;
che il ricorrente, allo scopo di allegare e dimostrare una sostanziale negazione o un’evidente menomazione della funzione costituzionalmente attribuita al singolo parlamentare, afferma che tale necessaria soglia di evidenza sarebbe «raggiunta al semplice sommario esame dei provvedimenti qui sottoposti all’esame della Consulta», dal quale emergerebbe, non solo «un’evidente invasione delle prerogative parlamentari attraverso il doppio strumento del decreto-legge e della delega al Presidente del Consiglio di funzioni legislative», ma anche «un vero e proprio snaturamento delle norme sulla produzione legislativa»;
che, di conseguenza, ogni singolo parlamentare sarebbe stato «totalmente espropriato» (e non semplicemente limitato nell’esercizio) delle sue prerogative: «il Governo prima e poi il Parlamento in sede di conversione dei decreti-legge» avrebbero «trasferito la potestà a legiferare in capo al Presidente del Consiglio»;
che ciò sarebbe avvenuto in violazione: dell’art. 76 Cost., che consente la delega di funzioni legislative all’intero Governo «nella sua composizione collegiale» e non al solo suo Presidente, esclusivamente previa determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per un tempo limitato e per oggetti definiti; dell’art. 77 Cost., che consente l’uso del decreto-legge «(sempre con la garanzia della collegialità del Consiglio dei ministri)» solo in casi di straordinaria necessità e urgenza; di diritti fondamentali inviolabili costituzionalmente garantiti;
che, dunque, le modalità di adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, anche nelle forme delineate dall’art. 1, comma 1, del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 22 maggio 2020, n. 35, sarebbero contrastanti con i suddetti parametri costituzionali, in quanto il Governo avrebbe rinunziato «in favore del suo Presidente» ad esercitare le proprie attribuzioni di decretazione d’urgenza ed avrebbe “espropriato” il Parlamento del potere di conversione in legge;
che neppure la successiva conversione in legge del d.l. n. 19 del 2020 sarebbe «in grado di risolvere la lesione delle norme costituzionali in materia di produzione legislativa», in quanto la delega al Presidente del Consiglio dei ministri sarebbe «un istituto sconosciuto al nostro diritto» e il meccanismo così delineato sottrarrebbe al Parlamento «il diritto di verificare e sottoporre a controllo le norme urgenti adottate sotto forma di DPCM di cui non è prevista alcuna approvazione parlamentare»;
che ad evitare il vulnus così prospettato, a giudizio del ricorrente, non sarebbero sufficienti né l’iniziativa del Presidente del Consiglio dei ministri – «in occasione degli ultimi DPCM» – di sottoporne il contenuto alle Camere prima della loro adozione, né l’impugnabilità dei d.P.C.m. in via giurisdizionale amministrativa, attesa la loro natura di atti amministrativi, attraverso cui sarebbe comunque possibile dettare «norme generali e astratte rivolte alla totalità dei cittadini» senza «una decisione parlamentare»;
che, per il ricorrente, si sarebbe determinata una inammissibile «sospensione delle garanzie costituzionali dei diritti fondamentali», in forza della dichiarazione di uno «stato di emergenza o di eccezione» non contemplato dalla Costituzione, al di fuori dell’ipotesi di deliberazione dello stato di guerra ai sensi dell’art. 78 Cost.;
che, a giudizio del ricorrente, la garanzia delle libertà individuali costituisce un «limite invalicabile per l’azione dello stato», mentre «lo stato di eccezione non esiste nella Repubblica Italiana», sicché le situazioni di emergenza «sono rimesse ad un livello più basso», quello della protezione civile e delle ordinanze contingibili e urgenti, che in nessun caso possono violare i diritti fondamentali costituzionalmente garantiti;
che, dunque, l’attribuzione per decreto-legge al Presidente del Consiglio dei ministri «di poteri straordinari e illimitati» costituirebbe, in questa prospettiva, una grave violazione non solo delle prerogative del Parlamento nella sua interezza ma anche di quelle del singolo parlamentare, con riguardo all’adozione di provvedimenti che, per la loro diretta incisione sui diritti fondamentali costituzionali, dovrebbero «necessariamente assumere la forma della legge ordinaria, se del caso in sede di conversione di decreti-legge»;
che il ricorrente sollecita la Corte costituzionale a sollevare innanzi a sé stessa questione di legittimità costituzionale dei decreti-legge (e relative leggi di conversione) indicati in ricorso, in quanto tali atti normativi avrebbero «lo scopo dichiarato di consentire al Presidente del Consiglio […] la sospensione per ragioni emergenziali delle libertà e dei diritti fondamentali dei cittadini», così elencati: il diritto al lavoro (presidiato dagli artt. l, 4, 35, 36 e 41 Cost.); la libertà personale (protetta dall’art. 13 Cost.); la libertà di movimento (assicurata dall’art. 16 Cost.); i diritti di riunione, di culto, alla libera manifestazione del pensiero, alla tutela giurisdizionale, a non essere assoggettati a trattamenti sanitari obbligatori e, infine, allo studio (rispettivamente garantiti dagli artt. 17, 19, 21, 24, 32 e 34 Cost.);
che il ricorrente offre una sommaria motivazione della lesione che i decreti-legge indicati, considerati nel loro complesso, recherebbero a ciascuno dei parametri costituzionali evocati;
che, in generale, i provvedimenti dell’esecutivo avrebbero privilegiato, a parere del ricorrente, il solo diritto alla salute, assegnando a quest’ultimo «una totale preminenza sugli altri», fino a consentire il totale annullamento di questi ultimi, in contrasto con il principio della pari dignità di tutti i diritti fondamentali e con la «necessità che le incisioni sul loro esercizio, oltre che rispettose della Costituzione, garantiscano il necessario bilanciamento tra i diversi diritti inviolabili»;
che, in prossimità della camera di consiglio del 10 marzo 2021, il ricorrente ha depositato memoria, in data 18 febbraio 2021 e, dunque, fuori termine.
Considerato che il deputato Vittorio Sgarbi solleva conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, «anche nella sua qualità di rappresentante del Governo della Repubblica Italiana», lamentando, da parte sua, l’esercizio della funzione legislativa «in contrasto con le norme sulla produzione legislativa» di cui agli artt. 76 e 77 della Costituzione, attraverso l’adozione delle misure previste dai decreti-legge, dalle relative leggi di conversione e dai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, posti in essere per fronteggiare l’emergenza epidemiologica COVID-19;
che, in particolare, il Governo, mediante decreto-legge, avrebbe delegato al Presidente del Consiglio dei ministri l’adozione di norme aventi l’effetto di sospendere vari diritti fondamentali costituzionalmente previsti, in contrasto con gli artt. 76 e 77 Cost., negando il ruolo del Parlamento nell’approvazione delle norme di legge;
che «il Governo prima e poi il Parlamento in sede di conversione dei decreti-legge» avrebbero così «trasferito la potestà a legiferare in capo al Presidente del Consiglio», rinunziando in favore di quest’ultimo ad esercitare le proprie attribuzioni in punto di decretazione d’urgenza, con “espropriazione” del potere di conversione in legge spettante al Parlamento;
che il meccanismo così delineato avrebbe, in particolare, sottratto al Parlamento «il diritto di verificare e sottoporre a controllo le norme urgenti adottate sotto forma di DPCM di cui non è prevista alcuna approvazione parlamentare»;
che tale meccanismo avrebbe altresì determinato l’illegittima invasione, da parte del Governo, delle prerogative del singolo parlamentare, al quale sarebbe stato negato «il diritto di dire e contraddire nell’ambito del processo democratico parlamentare»;
che la funzione di controllo parlamentare sull’attività del Governo spetterebbe non solo alle Camere nel loro complesso, ma anche al singolo parlamentare, «anche e soprattutto laddove la sua voce sia in dissenso con quella della maggioranza»;
che, pertanto, il ricorrente chiede l’annullamento di vari decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, analiticamente elencati, previa dichiarazione di non spettanza al Presidente del Consiglio dei ministri e al Governo del potere di adottare le misure previste dai suddetti decreti;
che il ricorrente chiede, altresì, che questa Corte sollevi d’ufficio dinanzi a sé questione di costituzionalità di quattro decreti-legge e delle relative leggi di conversione, pure analiticamente elencati, per contrasto con una pluralità di parametri costituzionali;
che, in questa fase del giudizio, la Corte costituzionale è chiamata a deliberare, in camera di consiglio e senza contraddittorio, sulla sussistenza dei requisiti soggettivo e oggettivo prescritti dall’art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), ossia a decidere se il conflitto insorga tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni delineata per i vari poteri da norme costituzionali;
che l’ordinanza n. 17 del 2019 di questa Corte ha riconosciuto l’esistenza di una sfera di prerogative che spettano al singolo parlamentare, e ha affermato che – qualora risultino lese da altri organi parlamentari – esse possono essere difese con lo strumento del ricorso per conflitto tra poteri dello Stato;
che la stessa ordinanza n. 17 del 2019 ha inoltre precisato che «[l]a legittimazione attiva del singolo parlamentare deve […] essere rigorosamente circoscritta quanto al profilo oggettivo, ossia alle menomazioni censurabili in sede di conflitto»;
che, in particolare, come ribadito dalle ordinanze n. 60 del 2020, n. 275 e n. 274 del 2019, tale legittimazione deve fondarsi sull’allegazione di vizi che determinano violazioni manifeste delle prerogative costituzionali dei parlamentari ed è necessario che tali violazioni siano rilevabili nella loro evidenza già in sede di sommaria delibazione;
che, ai fini dell’ammissibilità del conflitto, è insomma necessario che il singolo parlamentare alleghi «una sostanziale negazione o un’evidente menomazione» (così, ancora, ordinanza n. 17 del 2019) delle sue prerogative costituzionali;
che, nella prospettazione del ricorrente, la lesione delle prerogative del singolo parlamentare sarebbe diretta conseguenza di una sorta di “espropriazione” del potere legislativo da parte del Governo, attuata mediante una “delega” contenuta nei decreti-legge convertiti dal Parlamento in favore di un organo monocratico, quale il Presidente del Consiglio dei ministri, in contrasto con gli artt. 76 e 77 Cost.;
che questa “espropriazione” sarebbe stata legittimata da atti governativi aventi forza di legge, convertiti dallo stesso Parlamento;
che, tuttavia, dalla stessa prospettazione contenuta in ricorso, non risulta che, nell’ambito della Camera di appartenenza, al ricorrente sia stato interdetto l’esercizio delle sue prerogative;
che, infatti, lo stesso ricorrente ha ricordato come il Parlamento abbia convertito, con modificazioni, il decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19), nella legge 5 marzo 2020, n. 13, con il voto contrario di due soli deputati, l’on. Cunial e, appunto, l’on. Sgarbi, il quale ultimo, durante la discussione in aula del 26 febbraio 2020, avrebbe messo «in guardia sia dallo scarso approfondimento scientifico della questione della pandemia, sia dal grave danno che le misure approvate stavano arrecando all’economia italiana»;
che, dunque, dalla medesima narrativa del ricorso emerge come non sia mancato il confronto parlamentare (ordinanza n. 274 del 2019) e come i deputati abbiano avuto la possibilità di esercitare le proprie funzioni costituzionali (ordinanza n. 275 del 2019), nel corso dei «passaggi parlamentari», principalmente in sede di conversione in legge dei decreti-legge indicati in ricorso;
che, in definitiva, è la prospettazione stessa del ricorrente ad attestare l’inesistenza di «violazioni manifeste delle prerogative costituzionali» poste a garanzia dello status dei parlamentari nell’ambito del procedimento legislativo (ordinanza n. 275 del 2019), e in particolare della facoltà, necessaria all’esercizio del libero mandato parlamentare (art. 67 Cost.), di partecipare alle discussioni e alle deliberazioni esprimendo «opinioni» e «voti» (ai quali si riferisce l’art. 68 Cost., sia pure al diverso fine di individuare l’area della insindacabilità delle funzioni parlamentari);
che, inoltre, la lamentata distorsione degli istituti previsti dagli artt. 76 e 77 Cost., conseguente all’asserita “espropriazione” della funzione legislativa nei termini prospettati in ricorso, sarebbe semmai idonea a menomare, in ipotesi, le attribuzioni dell’intera Camera cui appartiene il deputato ricorrente, posto che la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere (art. 70 Cost.);
che, quando il soggetto titolare della sfera di attribuzioni costituzionali che si assumono violate è la Camera di appartenenza, è quest’ultima, e non il singolo parlamentare, legittimata a valutare l’opportunità di reagire avverso le supposte violazioni (ordinanza n. 129 del 2020);
che non è sufficiente affermare che anche ogni singolo parlamentare sarebbe stato «totalmente espropriato» delle sue prerogative, in quanto non è ipotizzabile alcuna concorrenza tra la legittimazione attiva del singolo parlamentare e quella della Camera di appartenenza (ordinanza n. 163 del 2018);
che, infatti, questa Corte ha già escluso, in un conflitto promosso dal singolo parlamentare nei confronti del Governo, che il primo possa rappresentare l’intero organo cui appartiene, perché il singolo parlamentare non è «titolare di attribuzioni individuali costituzionalmente protette nei confronti dell’esecutivo» (ordinanza n. 181 del 2018);
che, infine, queste assorbenti ragioni dispensano dall’esame di altri aspetti del conflitto, relativi, in particolare, all’esatta individuazione degli atti asseritamente lesivi delle attribuzioni del singolo parlamentare e alla configurabilità, quale potere dello Stato, del solo Presidente del Consiglio dei ministri, indicato nel ricorso quale legittimato passivo anche in proprio;
che, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, promosso dal deputato Vittorio Sgarbi nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, anche nella sua qualità di rappresentante del Governo, indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2021. F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 13 aprile 2021.