Ordinanza n. 8 del 2020

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ORDINANZA N. 8

 

ANNO 2020

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente: Aldo CAROSI;

 

Giudici: Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 32, 39 e 42, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nonché dell’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Siracusa nel giudizio vertente tra C. L. e l’Agenzia delle entrate - Direzione provinciale di Siracusa, con ordinanza del 26 marzo 2018, iscritta al n. 170 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2018.

 

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 4 dicembre 2019 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera.

 

Ritenuto che con ordinanza depositata il 26 marzo 2018 (reg. ord. n. 170 del 2018) la Commissione tributaria provinciale di Siracusa ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 32, 39 e 42 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nonché dell’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante «Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente» (da ora in avanti: statuto contribuente), in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 111 e 117, primo comma, della Costituzione;

 

che, per quanto emerge dall’ordinanza, il giudizio principale ha ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento inerente al recupero delle maggiori imposte dovute per IRPEF, addizionale regionale IRPEF, IRAP, IVA e correlate sanzioni, in conseguenza di ricavi non dichiarati nell’anno 2004;

 

che, come evidenziato dal rimettente, l’accertamento contestato, effettuato senza accedere presso i locali del contribuente, è disciplinato dal combinato disposto degli artt. 32, 39, comma 1, lettera d), e 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 e che il soggetto d’imposta, con il secondo motivo di ricorso, ha contestato l’illegittimità dell’atto per la mancata instaurazione del contraddittorio preventivo, avendo a suo avviso l’Agenzia delle entrate «trasferito nella sede giudiziaria la fase istruttoria»;

 

che secondo il Collegio rimettente va condivisa l’interpretazione del quadro normativo di riferimento offerta dalla giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza 9 dicembre 2015, n. 24823, in forza della quale deve ritenersi: a) per un verso, che il contraddittorio preventivo dettato dall’art. 12, comma 7, dello statuto contribuente non può esondare dagli argini definiti dal tenore letterale della relativa disposizione, rappresentati, ai sensi del comma 1 del medesimo articolo, dai soli accertamenti legati ad accessi, verifiche o ispezioni rese sui luoghi di riferimento del contribuente, così da non risultare estensibile alle verifiche, come quella di specie, rese “a tavolino” perché svolte esclusivamente presso l’ufficio che procede al controllo fiscale; b) per altro verso, che manca nel sistema tributario nazionale un principio generale che, alla stessa stregua di quanto imposto per i tributi armonizzati dall’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, imponga il contraddittorio preventivo per le imposizioni fiscali esclusivamente interne;

 

che, tuttavia, ad avviso del rimettente, muovendo da siffatta lettura interpretativa di sistema, le disposizioni censurate violerebbero, in primo luogo, l’art. 117, primo comma, Cost.;

 

che, in particolare, le norme censurate sarebbero in contrasto con l’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 4 agosto 1955, n. 848, perché, a fronte di un provvedimento dotato di immediata esecutività, assunto dall’amministrazione senza garantire il preventivo contraddittorio con il contribuente, non rispettano il canone della proporzionalità;

 

che, inoltre, le disposizioni indubbiate sarebbero in conflitto l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, perché l’atto impositivo contiene sanzioni dotate di una efficacia sostanziale non dissimile da quella propria delle sanzioni penali, così che non potrebbe prescindersi, nella relativa irrogazione, dal preventivo confronto con le ragioni del contribuente;

 

che le medesime disposizioni sarebbero altresì in contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., perché pregiudicano il diritto di difesa, il principio di parità delle parti e il diritto ad un processo “giusto”, avuto riguardo anche ai tempi di durata dello stesso;

 

che, ad avviso della Commissione rimettente, infine, le norme censurate violerebbero anche gli artt. 3 e 53 Cost., perché, in assenza di una ragionevole giustificazione, discriminerebbero la posizione dei contribuenti che subiscono accertamenti non preceduti da accessi, ispezioni o verifiche presso i locali di riferimento della relativa attività economica, senza garantire loro il diritto al contraddittorio preventivo all’attuazione impositiva, altrimenti previsto, al verificarsi dei suddetti presupposti, dal combinato disposto dei commi 1 e 7 dell’art. 12 dello statuto del contribuente;

 

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, adducendo diverse eccezioni pregiudiziali e, nel merito, concludendo per la non fondatezza delle questioni.

 

Considerato che la Commissione tributaria provinciale di Siracusa ha sollevato, con ordinanza del 26 marzo 2018, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 32, 39 e 42 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nonché dell’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante «Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente» (da ora in avanti: statuto contribuente), in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 111 e 117, primo comma, della Costituzione;

 

che, relativamente alle eccezioni pregiudiziali sollevate dalla difesa dello Stato, deve ritenersi fondata, nei termini precisati di seguito, quella inerente alla addotta inammissibilità delle questioni perché erroneamente o comunque non sufficientemente argomentate in ordine alla individuazione delle disposizioni censurate;

 

che, sotto questo profilo, va rimarcato che l’ordinanza, in linea con il complesso delle argomentazioni da essa svolte, indica più disposizioni censurate e contiene un duplice capo di domanda;

 

che, in particolare, nell’ordinanza si censurano sia gli artt. 32, 39 e 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, nella parte in cui «non prevedono l’instaurazione di alcun contraddittorio con il contribuente anteriormente all’emissione di un avviso di accertamento», sia l’art. 12, comma 7, statuto contribuente, nella parte «in cui riconosce al contribuente il diritto a ricevere copia del verbale con cui si concludono le operazioni di accertamento e di disporre di un termine di 60 giorni per eventuali controdeduzioni, limitatamente all’ipotesi in cui la Amministrazione abbia effettuato un accesso, un’ispezione, o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività del contribuente»;

 

che l’eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato di erronea o generica individuazione delle disposizioni censurate coglie nel segno con riguardo al solo fascio di norme (artt. 32, 39 e 42) ricomprese nel d.P.R. n. 600 del 1973, attinte dalle censure addotte dal Collegio rimettente;

 

che l’ordinanza, in parte qua, coinvolge indistintamente previsioni dal portato assai eterogeneo, peraltro caratterizzate, al loro interno, da contenuti in gran parte non pertinenti rispetto al tenore delle censure prospettate;

 

che, in particolare, l’art. 32 del citato decreto è caratterizzato da un evidente contenuto composito perché: a) descrive i poteri ascritti agli uffici finanziari nel procedere alla acquisizione delle informazioni e del materiale probatorio funzionali all’attuazione impositiva; b) contiene regole di procedura, destinate a modulare i possibili momenti di contatto con il contribuente o con i terzi che sono in grado di offrire dati utili al fine della corretta emersione della base imponibile di riferimento; c) detta, inoltre, regole di valutazione probatoria legate alla scelta del contribuente di non collaborare a dispetto delle sollecitazioni istruttorie rivolte dall’ufficio;

 

che l’ordinanza in esame coinvolge per intero tale articolo, senza precisare su quale segmento dello stesso dovrebbe incidere l’additiva di principio prospettata nel dispositivo, a fronte della eterogeneità di contenuti sopra rimarcata;

 

che, a sua volta, l’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 non contiene alcuna prescrizione procedimentale e, conseguentemente, non si presta all’intervento additivo sollecitato dal rimettente, mentre l’art. 42 censurato descrive il contenuto che deve possedere l’atto di accertamento anche a pena di nullità del relativo provvedimento ed attiene, dunque, ad un momento successivo rispetto a quello della formazione del provvedimento stesso che immediatamente interessa il giudizio di legittimità in esame;

 

che la descrizione che precede rende evidente l’inammissibilità delle questioni, dirette a colpire un intero gruppo di norme non conferenti rispetto alle censure prospettate e comunque caratterizzate da un contenuto assai eterogeneo;

 

che, in particolare, sotto quest’ultimo versante, viene inammissibilmente rimesso alla Corte il compito di individuare la prescrizione che sostanzia il vulnus addotto e nei confronti della quale si imporrebbe la reductio ad legitimitatem sollecitata dal rimettente attraverso l’additiva prospettata, in aperto conflitto con la costante giurisprudenza di questa Corte, in forza della quale il giudice a quo è tenuto ad individuare la norma o la parte di essa che determina la paventata lesione dei parametri costituzionali invocati (ex plurimis, sentenza n. 218 del 2014 e ordinanza n. 189 del 2017);

 

che la genericità del petitum, che connota l’atto di promovimento in esame, consente, inoltre, l’individuazione di una ulteriore ragione di inammissibilità, rilevabile d’ufficio, destinata a coprire l’intero perimetro delle questioni prospettate, comprensivo anche dell’art. 12, comma 7, statuto contribuente;

 

che, in particolare, i (due) capi che compongono il petitum dell’ordinanza non sono prospettati in termini gradatamente sequenziali, l’uno subordinato all’altro;

 

che, se risponde al vero che il giudice rimettente può addurre i possibili esiti dello scrutinio di costituzionalità in via gradata, pur senza una formale e testuale qualificazione di ciascuna conclusione rispettivamente come «principale» e «subordinata», potendosi pervenire ad una siffatta valutazione anche guardando all’intero argomentare del provvedimento di rimessione (sentenze n. 175 del 2018; n. 127 del 2017 e n. 280 del 2011), va tuttavia rimarcato che nel caso in esame una siffatta implicita subordinazione logica tra i due capi non emerge neppure dal tenore complessivo dell’ordinanza;

 

che, sotto questo ulteriore profilo, le questioni devono quindi ritenersi manifestamente inammissibili perché ancipiti, dato che il rimettente le ha prospettate in termini alternativi senza indicare quale soluzione ritiene prioritariamente imposta dalla Costituzione, rimettendo un siffatto compito, impropriamente, alla Corte (ex multis, sentenza n. 22 del 2016 e ordinanze n. 221 e n. 130 del 2017).

 

Visti gli art. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 32, 39 e 42 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nonché dell’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, e all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificati e resi esecutivi con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Commissione tributaria provinciale di Siracusa con l’ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 dicembre 2019.

 

F.to:

 

Aldo CAROSI, Presidente

 

Augusto Antonio BARBERA, Redattore

 

Roberto MILANA, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria il 31 gennaio 2020.