SENTENZA
N. 142
ANNO
2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME
DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI
Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto
Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale
dell’art. 2 della legge
2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che
modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la
Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e
dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007) e dell’art. 2, commi 3
e 3-bis, della legge
13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle
funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), come
modificato dall’art. 2, comma 1, lettera c), della legge
27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati),
promosso dal Tribunale ordinario di Enna nel procedimento vertente tra
l’Azienda sanitaria provinciale di Enna e Angela Restivo,
con ordinanza
del 14 marzo 2016, iscritta al n. 103 del registro ordinanze 2016 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale,
dell’anno 2016.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di
consiglio del 24 gennaio 2018 il Giudice relatore Franco Modugno.
Ritenuto
in fatto
1.– Con ordinanza del 14 marzo 2016, il
Tribunale ordinario di Enna ha sollevato, in riferimento agli artt. 24, 101 e 104 della Costituzione,
questioni di legittimità costituzionale:
a) dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130
(Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato
sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni
atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il
13 dicembre 2007), nella parte in cui:
- «ai sensi dell’art. 288» del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del
Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge n. 130 del
2008, «così come interpretato dalla costante giurisprudenza della Corte di
Giustizia, si prevede che la decisione della Commissione rivolta agli Stati,
ormai divenuta inoppugnabile dinnanzi agli organi giurisdizionali comunitari,
sia obbligatoria e vincolante in tutti i suoi elementi, anche per i giudici
nazionali»;
- «ai sensi dell’art. 267 TFUE, così come
interpretato nella sentenza
della C.G.U.E., 30 settembre 2003, causa 224/01, si prevede che
nell’attività interpretativa il giudice debba tenere conto delle posizioni
espresse dalle istituzioni europee non giurisdizionali»;
b) dell’art. 2, commi 3 e 3-bis, della legge 13
aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle
funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), come modificato
dall’art. 2, comma 1, lettera c), della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina
della responsabilità civile dei magistrati), «nella parte in cui include tra le
ipotesi di manifesta violazione del diritto dell’Unione europea il contrasto
tra un atto o un provvedimento giudiziario e l’interpretazione espressa dalla
Corte di giustizia dell’Unione europea sulla vincolatività delle decisioni
della Commissione europea per il giudice nazionale».
1.1.– Il giudice a quo riferisce di essere
investito del giudizio di opposizione al decreto con il quale il Presidente del
Tribunale ordinario di Enna aveva ingiunto all’Azienda sanitaria provinciale
della medesima città il pagamento di una somma di denaro in favore di un
allevatore di bestiame, a titolo di indennità per l’abbattimento di quattordici
bovini ai sensi dell’art. 1 della legge della Regione Siciliana 5 giugno 1989,
n. 12 (Interventi per favorire il risanamento e il reintegro degli allevamenti
zootecnici colpiti dalla tubercolosi, dalla brucellosi e da altre malattie
infettive e diffusive e contributi alle associazioni degli allevatori). La
citata disposizione regionale prevede che, in vista del risanamento degli
allevamenti, ai proprietari di bovini, ovini o caprini abbattuti in quanto
affetti da determinate patologie (tubercolosi, brucellosi o leucosi) è
corrisposta un’indennità, nella misura indicata nella tabella allegata alla
legge regionale, in aggiunta a quella prevista dalle vigenti disposizioni
nazionali.
Il rimettente riferisce, altresì, che «[t]ra i motivi a sostegno dell’opposizione», l’Azienda
sanitaria aveva dedotto, «in via preliminare», che il fondo previsto dalla
legge regionale in questione non era stato reintegrato, a partire dal 1997, dal
competente assessorato regionale, in quanto gli indennizzi erano stati
considerati «aiuti di Stato» rilevanti ai fini dell’art. 87, paragrafo 1, del
Trattato che istituisce la Comunità economica europea (CEE), firmato a Roma il
25 marzo 1957, entrato in vigore il 1° gennaio 1958 (oggi dell’art. 107 TFUE).
Secondo quanto si legge nell’ordinanza di
rimessione, la Regione Siciliana aveva adempiuto all’obbligo di comunicazione
previsto dall’art. 88, paragrafo 3, Trattato CEE (ora dall’art. 108, paragrafo
3, TFUE), al fine di ottenere, per ogni singola annualità, l’autorizzazione al
pagamento degli indennizzi. Con la decisione C(2002)4786
dell’11 [recte: del 6] dicembre 2002, indirizzata
all’Italia, la Commissione europea, pur qualificando la misura come aiuto di
Stato – e deplorando, perciò, che ad essa fosse stata data esecuzione in
violazione del citato art. 88, paragrafo 3, Trattato CEE (ossia prima della
decisione finale circa la sua compatibilità con il mercato comune) – ne aveva
autorizzato l’erogazione per gli anni dal 1993 al 1997. Tale decisione dovrebbe
ritenersi, allo stato, «inoppugnabile poiché nessuna delle parti in causa ha
dedotto di averla impugnata e neppure ne [ha] contestato, incidentalmente, la
validità».
Di contro, per gli anni dal 2000 al 2006,
nonostante l’art. 25, comma 16, della legge della Regione Siciliana 22 dicembre
2005, n. 19 (Misure finanziarie urgenti e variazioni al bilancio della Regione
per l’esercizio finanziario 2005. Disposizioni varie) avesse previsto un
apposito rifinanziamento del fondo, la Regione – a seguito dell’ordinanza del
Ministero della sanità del 14 novembre 2008 e in ragione «della nebulosità del
testo normativo» – non aveva a ciò provveduto, omettendo, pertanto, la
comunicazione alla Commissione.
1.2.– Risulterebbe
dunque evidente – secondo il giudice a quo – come, ai fini della risoluzione
della controversia, occorra valutare se l’indennizzo previsto dalla legge reg.
Siciliana n. 12 del 1989 rientri nella nozione di aiuto di Stato.
Al riguardo, il giudice a quo osserva che,
secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (è
citata, in particolare, la sentenza
della grande sezione 18 luglio 2007, in causa C-119/05, Lucchini spa), è
demandato, «in prima battuta», al giudice nazionale il compito di valutare se
una misura, adottata senza seguire il procedimento di controllo preventivo di
cui all’art. 88, paragrafo 3, Trattato CEE (ora art. 108, paragrafo 3, TFUE),
debba esservi o meno soggetta. In tale contesto, il giudice nazionale può
essere chiamato a interpretare la nozione di aiuto di Stato, salva restando, in
caso di dubbio, la possibilità di chiedere chiarimenti alla Commissione europea
o, in alternativa, di sottoporre la questione pregiudiziale alla Corte di
giustizia (facoltà, quest’ultima, che diviene un obbligo ove si tratti di
giudice di ultima istanza). Al giudice nazionale non è consentito, invece,
pronunciarsi sulla compatibilità con il mercato interno della misura
qualificata come aiuto di Stato, essendo tale questione di competenza esclusiva
della Commissione europea, che opera sotto il controllo del giudice
dell’Unione.
Sempre secondo la Corte di giustizia, tale
competenza esclusiva – costituente principio vincolante nell’ordinamento
giuridico nazionale, in quanto corollario della preminenza del diritto comunitario
– esclude che i giudici nazionali possano adire essa Corte di Lussemburgo ai
sensi dell’art. 234 Trattato CEE (oggi dell’art. 267 TFUE), al fine di
interrogarla sulla compatibilità con il mercato comune di un aiuto di Stato.
1.3.– Ciò posto, occorrerebbe tuttavia chiedersi
se i vincoli interpretativi ora ricordati siano compatibili con i principi
supremi di indipendenza del giudice e della
separazione dei poteri contemplati dalla nostra Costituzione.
Quanto al giudizio di compatibilità tra un provvedimento
nazionale e il mercato comune, la valutazione espressa dalla Commissione
potrebbe integrare, in effetti, «un’ipotesi di limite esterno della
giurisdizione», implicando apprezzamenti «di opportunità politica e
amministrativa».
Secondo la Corte di giustizia, peraltro, il
giudice nazionale rimarrebbe vincolato dalle decisioni della Commissione
europea, divenute inoppugnabili, anche con riguardo alla qualificazione di una
determinata misura come aiuto di Stato: con la conseguenza che egli dovrebbe astenersi
dall’applicare le norme interne la cui attuazione potrebbe ostacolare
l’esecuzione della decisione (sono citate le sentenze 9 marzo 1994, in causa
C-133/92, Andresen, e 21
maggio 1987, in causa 249/85, Albako). Il
principio risulterebbe – a parere del rimettente – di tale chiarezza da
escludere la necessità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia:
rinvio che risulterebbe, in ogni caso, «non pertinente», posto che il giudice a
quo non dubita della validità della decisione della Commissione sopra indicata,
né sussisterebbero dubbi interpretativi riguardo alla sua portata.
Nel giudizio a quo non verrebbe, in effetti, in
rilievo la correttezza o la validità della decisione della Commissione, ma la
sua efficacia vincolante, in conseguenza della quale il rimettente si
troverebbe assoggettato alle determinazioni assunte dalle autorità
amministrative europee. Le decisioni della Commissione, benché inquadrabili tra
i provvedimenti amministrativi, verrebbero in questo modo a influenzare i
giudizi in corso, impedendo al giudice «di vagliare l’ambito di applicazione
delle norme nazionali e delle norme comunitarie».
Le ricordate affermazioni della Corte di
giustizia troverebbero, peraltro, pieno riscontro nella costante giurisprudenza
della Corte di cassazione, secondo la quale le decisioni adottate dalla
Commissione europea e non più impugnabili né dallo Stato membro designato come
destinatario, né dalla parte direttamente e individualmente interessata, per il
decorso del termine di due mesi dal giorno in cui questa ha avuto conoscenza
del provvedimento, hanno efficacia vincolante per il giudice nazionale, in
forza del principio desumibile dagli artt. 288, paragrafo 4, e 263 TFUE.
L’imperatività delle pronunce della Corte di
giustizia – anche nella parte in cui attribuiscono forza vincolante alle
decisioni amministrative adottate dalle istituzioni europee – risulterebbe
inoltre assicurata dal sistema di responsabilità dello Stato per atto
giurisdizionale delineato dalla giurisprudenza della stessa Corte di Lussem-burgo. Secondo quanto affermato nella sentenza
30 settembre 2003, in causa C-224/01, Köbler,
infatti, la «posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria»
costituisce parametro per fondare la responsabilità dello Stato per violazione del
diritto comunitario da parte dell’organo giurisdizionale di ultima istanza.
In questa prospettiva, i commi 3 e 3-bis
dell’art. 2 legge n. 117 del 1988, come novellata dalla legge n. 18 del 2015,
nel regolare la responsabilità dello Stato per i danni causati nell’esercizio
delle funzioni giudiziarie, includono tra le ipotesi di colpa grave del giudice
– peraltro, anche non di ultima istanza – la manifesta violazione del diritto
dell’Unione europea, da determinare tenendo conto dell’interpretazione espressa
dalla Corte di giustizia.
Il giudice europeo avrebbe dunque delineato, «in
via pretoria», un sistema di responsabilità dello Stato per violazione del
diritto comunitario, non previsto espressamente dai Trattati, che consentirebbe
alle istituzioni dell’Unione di influenzare i giudizi in corso tramite
l’espressione di una mera «posizione» e l’adozione di provvedimenti
amministrativi.
1.4.– Tale interferenza, incidendo
sull’indipendenza esterna della magistratura, si scontrerebbe, tuttavia, con le
previsioni degli artt. 101 e 104 Cost., costituenti
attuazione di quel principio di separazione dei poteri che, in relazione
al potere giudiziario, «si atteggia a principio supremo e strutturale della
tradizione costituzionale liberale», non suscettibile di attenuazioni. La
giurisprudenza costituzionale ha, infatti, costantemente affermato che il
principio di indipendenza della magistratura non può essere inciso da atti
vincolanti provenienti dalle pubbliche amministrazioni o da qualsiasi altra
volontà che non sia quella obiettiva della legge.
L’indipendenza della magistratura da ogni
interferenza esterna rappresenta, peraltro, anche una fondamentale garanzia del
giusto processo. La sua menomazione implicherebbe, pertanto, anche la
violazione del diritto di accesso al giudice da parte dei consociati,
consacrato «quale diritto supremo e universale» dall’art. 24 Cost., e
integrante perciò esso pure un limite invalicabile per il diritto comunitario.
1.5.– Quanto, infine, alla rilevanza delle
questioni, il giudice rimettente ricorda come la Corte costituzionale, con la sentenza n. 18 del
1989, nel decidere una serie di questioni di legittimità costituzionale
attinenti a disposizioni della legge n. 117 del 1988, abbia chiarito che – ai
fini del riscontro del requisito della rilevanza – debbono considerarsi
influenti sul giudizio principale anche le norme che, sebbene non direttamente
applicabili in esso, attengono «allo status del giudice, alla sua composizione
nonché, in generale, alle garanzie e ai doveri che riguardano il suo operare».
Il giudice, d’altra parte, non rimarrebbe
indifferente all’esito del giudizio di responsabilità promosso nei confronti
dello Stato, giacché l’obbligo di rivalsa stabilito dall’art. 9 [recte: 7] della citata legge n. 117 del 1988 e i riflessi
di detto giudizio in ambito disciplinare, previsti dal successivo art. 10 [recte: 9], influirebbero, di per sé, «sulla corretta
determinazione dell’organo giurisdizionale».
Nella specie, per «non rischiare di incorrere in
un’ipotesi di responsabilità dello Stato per fatto del magistrato», il
rimettente dovrebbe escludere a priori qualsiasi opzione interpretativa diversa
da quella adottata dalla Commissione europea, vedendo così menomata la libertà
di interpretazione assicuratagli dall’art. 101 Cost. Correlativamente, il
cittadino ricorrente verrebbe privato del diritto alla tutela giurisdizionale
davanti a un giudice indipendente e imparziale.
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente inammissibili o,
comunque sia, non fondate.
2.1.– Secondo l’interveniente, l’inammissibilità
delle questioni si apprezzerebbe sotto un duplice profilo.
In primo luogo, il rimettente si sarebbe
limitato a riferire che «tra i motivi a sostegno dell’opposizione» a decreto
ingiuntivo proposta dall’Azienda sanitaria provinciale vi è quello basato sul
carattere di aiuto di Stato della misura in discussione, senza indicare quali
siano gli altri motivi di opposizione, né le ragioni della loro eventuale
infondatezza. In questo modo, il giudice a quo avrebbe affermato in via
puramente assertiva il rapporto di pregiudizialità tra i quesiti di legittimità
costituzionale e la definizione del giudizio principale, impedendo alla Corte
costituzionale ogni controllo sulla loro effettiva rilevanza.
Per altro verso, poi, il rimettente avrebbe
ricostruito in modo lacunoso e incompleto il quadro normativo di riferimento,
precludendosi così anche la possibilità di pervenire a un’interpretazione
conforme ai parametri costituzionali evocati.
2.2.– Nel merito, le questioni sarebbero, in
ogni caso, infondate.
È, in effetti, indiscutibile che, secondo la
costante giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, la
valutazione di compatibilità con il mercato interno di una misura nazionale
qualificabile come aiuto di Stato è demandata alla competenza esclusiva della
Commissione, la quale agisce sotto il controllo del giudice dell’Unione, con la
conseguenza che i giudici nazionali non hanno il potere di pronunciarsi al
riguardo.
A prescindere, peraltro, dalla «sottile
questione» relativa alla natura giuridica delle decisioni della Commissione
europea – se si tratti effettivamente, cioè, come sostiene il giudice a quo, di
provvedimenti amministrativi – risulterebbe evidente come la disciplina ora
ricordata, lungi dal contraddire il principio di separazione dei poteri, ne
costituisca logico corollario. Non diversamente da quanto avviene nei rapporti
di diritto interno, tale principio postula, infatti, l’esistenza di regole che
escludano l’ingerenza del potere giurisdizionale nelle attività e nelle
valutazioni riservate agli organi del potere esecutivo e che, conseguentemente,
affidino alla giurisdizione esclusivamente il controllo di legittimità sull’uso
di tali poteri.
Nel sistema dei trattati europei, tale esigenza
risulterebbe garantita dall’art. 263 TFUE, in base al quale la Corte di
giustizia dell’Unione europea «esercita un controllo di legittimità», tra gli
altri, sugli «atti della Commissione», pronunciandosi «sui ricorsi per
incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione dei trattati o di
qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione, ovvero per
sviamento di potere».
Il rimettente – senza contraddire, in apparenza,
tali pacifici assunti – sembrerebbe, tuttavia, dolersi della mancata
disponibilità, da parte del giudice nazionale chiamato a pronunciarsi su una
controversia in materia di diritti soggettivi, di un potere di disapplicazione
dell’atto, non caducato dal giudice competente a pronunciarsi sui ricorsi di
annullamento, sul modello di quanto previsto dall’art. 5 della legge 20 marzo
1865, n. 2248, recante «Legge sul contenzioso amministrativo (All. E)». Il giudice a quo non avrebbe, peraltro,
considerato che l’indisponibilità di un simile potere non è conseguenza
dell’asserita soggezione del potere giurisdizionale alle decisioni
amministrative, ma discende dall’esclusiva competenza giurisdizionale della
Corte di giustizia a conoscere della validità degli atti delle istituzioni
europee: competenza che – per intuitive ragioni – non può tollerare (neanche)
l’eccezione costituita dalla delibazione incidentale di validità dell’atto, in
relazione all’oggetto dedotto nel giudizio nazionale.
In una simile cornice, il potere di
disapplicazione da parte del giudice del singolo Stato membro rimarrebbe
surrogato dal meccanismo del rinvio pregiudiziale di validità, previsto
dall’art. 267, paragrafo 1, lettera b), TFUE, a tenore del quale la Corte di
giustizia è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale, sulla validità,
oltre che sull’interpretazione, degli «atti compiuti dalle istituzioni, dagli
organi o dagli organismi dell’Unione». Il giudice nazionale che dubiti della
validità di una decisione della Commissione europea non può, quindi, sottrarsi
alla vincolatività di tale decisione – stabilita dall’art. 288, paragrafo 4,
TFUE – attraverso il meccanismo della disapplicazione, ma deve, sul punto,
adire in via pregiudiziale la Corte di giustizia.
Da ciò non discenderebbe, peraltro, alcun vulnus
al principio di soggezione del giudice soltanto alla legge, trattandosi
dell’applicazione di una regola di riparto del potere giurisdizionale che
deriva dall’adesione ai Trattati e che trova copertura costituzionale nell’art.
11 Cost.
2.3.– Il giudice a quo parrebbe lamentare,
tuttavia – secondo l’Avvocatura generale dello Stato – anche l’indisponibilità,
nel caso concreto, del rimedio del rinvio pregiudiziale, in
quanto la decisione della Commissione di cui si discute sarebbe divenuta
inoppugnabile «poiché nessuna delle parti in causa ha dedotto di averla
impugnata e neppure ne [ha] contestato, incidentalmente, la validità».
Al riguardo, sarebbe peraltro palese che nessun
ostacolo di natura processuale si frapponeva a un eventuale rinvio
pregiudiziale, posto che – come affermato da tempo dalla giurisprudenza di
legittimità – il giudice, sia pure nel rispetto del principio dispositivo che
regola il processo, ha il dovere di porsi d’ufficio il problema
dell’applicazione del diritto dell’Unione europea e, pertanto, di rilevare
anche di propria iniziativa tutte le questioni di interpretazione o di validità
che l’applicazione di tale diritto comporta. In ogni caso, ove pure si dovesse
ritenere che, nel giudizio di cui il rimettente è investito, la valutazione
della validità della decisione resti preclusa in ragione della mancata
contestazione di essa ad opera della parte interessata, tale preclusione
discenderebbe da norme processuali interne, e non già da una inesistente
soggezione del potere giurisdizionale alle decisioni della Commissione europea.
2.4.– Quanto all’altro principio affermato dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia – quello per cui il giudice nazionale
sarebbe vincolato dalla decisione della Commissione in ordine
alla qualificazione di una determinata misura nazionale come aiuto di
Stato – esso rappresenterebbe il naturale riflesso della previsione del già
citato art. 288, paragrafo 4, TFUE, secondo cui «la decisione è obbligatoria in
tutti i suoi elementi». Tale disposizione comporta che la decisione della
Commissione europea – sino a quando non venga annullata dalla Corte di
giustizia, ossia dal suo giudice naturale – è vincolante anche per i giudici
degli Stati membri.
Ciò non esclude, tuttavia, che il giudice
nazionale possa dubitare della validità della decisione e rimettere la relativa
questione al giudice competente, secondo quanto precedentemente posto in
evidenza.
2.5.– Sotto altro profilo, il giudice a quo,
movendo da un riferimento, in sé corretto, alla giurisprudenza della Corte di cassazione, avrebbe tratto la conclusione che il
rinvio pregiudiziale di validità della decisione della Commissione resti
precluso dalla mancata impugnazione, in via principale, della decisione stessa
da parte degli interessati. Tale convincimento sarebbe frutto, peraltro, di una
«sostanziale incomprensione del fenomeno».
La preclusione ipotizzata, infatti, non
esisterebbe: o, meglio, esisterebbe solo quale eccezione, resa necessaria dalla
riconosciuta facoltà degli interessati di adire direttamente la Corte di
giustizia con ricorso per annullamento. Al riguardo, verrebbe segnatamente in
rilievo la nota giurisprudenza della Corte di giustizia – inaugurata dalla sentenza
9 marzo 1994, in causa C-188/92, TWD Textilwerke Deggendorf – secondo la quale il beneficiario di un
aiuto di Stato, oggetto di una decisione della Commissione direttamente
indirizzata soltanto allo Stato membro in cui era residente tale beneficiario,
ma che avrebbe potuto impugnare senza dubbio detta decisione e che ha lasciato
decorrere il termine perentorio previsto dall’art. 263, paragrafo 6, TFUE, si
vede preclusa la possibilità di contestare utilmente la legittimità della
decisione davanti ai giudici nazionali.
Questa regola – che può trovare applicazione nei
soli casi in cui il beneficiario dell’aiuto fosse chiaramente legittimato ad
impugnare direttamente la decisione – trova agevole giustificazione nella
considerazione che, diversamente, si finirebbe per riconoscere al beneficiario
dell’aiuto la possibilità di eludere il termine di impugnazione stabilito, a
pena di decadenza, dal Trattato. Pur dopo il decorso di tale termine,
l’interessato potrebbe, infatti, contestare la decisione davanti al giudice
nazionale, il quale avrebbe la facoltà (o, trattandosi di un giudice di ultimo
grado, il dovere) di proporre questione pregiudiziale di validità della
decisione. Si tratterebbe, quindi, di una regola posta a presidio della
certezza del diritto, che riposa sulle medesime esigenze sottese alla
previsione di termini perentori di impugnazione dei provvedimenti
amministrativi.
La regola in questione è destinata, d’altra
parte, a operare nei soli casi di aiuti individuali o, comunque sia, di
decisioni su aiuti di Stato che consentano la chiara identificazione di destinatari
individuali, i quali ne ripetono, così, la legittimazione ad impugnare
direttamente la decisione. Diverso è il caso – che ricorrerebbe chiaramente nel
giudizio a quo – dei cosiddetti aiuti concessi in forma di regime, nel quale
l’identificazione dei destinatari ha luogo solo in sede di diniego individuale
del beneficio, ovvero di richiesta di restituzione del beneficio già erogato
nelle ipotesi di ritenuta violazione dell’obbligo di comunicazione preventiva
della misura alla Commissione da parte dello Stato membro ai sensi dell’art.
108, paragrafo 3, TFUE (diniego o richiesta di restituzione a fronte dei quali
soltanto il beneficiario diviene legittimato a contestare la decisione della
Commissione).
In una simile cornice, nessuna lesione del
diritto di difesa potrebbe essere ipotizzata. Al privato sarebbe, in ogni caso,
assicurata la possibilità di sottoporre la decisione alla verifica di un
giudice terzo: mediante ricorso per annullamento, ove direttamente legittimato,
mediante rinvio pregiudiziale, negli altri casi.
2.6.– Con riguardo, poi, alle questioni
attinenti alla disciplina della responsabilità dello Stato per violazioni del diritto dell’Unione europea commesse nell’esercizio
delle funzioni giurisdizionali, l’Avvocatura generale dello Stato ricorda come
le disposizioni censurate siano state introdotte dalla legge n. 18 del 2015, a
modifica della legge n. 117 del 1988, in adesione a specifiche indicazioni
provenienti dalle istituzioni europee.
Pronunciandosi, a seguito di rinvio
pregiudiziale, sul previgente testo della legge n. 117 del 1988, la grande
sezione della Corte di giustizia ha, infatti, affermato, con la sentenza
13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa, che il
diritto comunitario osta a una legislazione nazionale che escluda, in maniera
generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli
a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo
giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione consegua a una
interpretazione delle norme o a una valutazione delle prove operate da tale
organo giurisdizionale; e che osta, altresì, a una legislazione nazionale che limiti
la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del
giudice, ove una tale limitazione conduca a escludere la responsabilità dello
Stato membro interessato in altri casi in cui sia commessa una violazione
manifesta del diritto vigente, quale quella precisata ai punti da 53 a 56 della
sentenza
30 settembre 2003, in causa C-224/01, Köbler. In
quest’ultima pronuncia, la Corte di giustizia aveva affermato che la
responsabilità dello Stato per una decisione di un organo giurisdizionale di
ultimo grado, pur potendo essere assoggettata, in ragione della particolarità
della funzione esercitata, a un regime attenuato rispetto a quello che caratterizza
la responsabilità per fatti ascrivibili al potere legislativo o al potere
esecutivo, non poteva, tuttavia, essere esclusa nel caso in cui il giudice
avesse violato in maniera manifesta il diritto europeo vigente. Ai fini di tale
valutazione, occorre avere riguardo al grado di chiarezza e precisione della
norma violata, al carattere intenzionale della violazione, alla posizione
eventualmente adottata da un’istituzione dell’Unione, nonché alla eventuale
violazione dell’obbligo del giudice di ultimo grado di effettuare il rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia. La violazione manifesta sussiste, in
ogni caso, quando la decisione è stata adottata ignorando manifestamente la
giurisprudenza della Corte di giustizia.
A seguito della sentenza
Traghetti del Mediterraneo, la Commissione europea, rilevando che l’Italia
non aveva adeguato il proprio ordinamento ai principi enunciati nella sentenza
stessa, ha avviato una procedura di infrazione per violazione del diritto
dell’Unione. Violazione che la Corte di giustizia ha, in effetti, riscontrato
con la sentenza
24 novembre 2011, in causa C-379/10, Commissione contro Italia.
Di qui, dunque, l’intervento novellistico sulla
legge n. 117 del 1988, che ha portato all’introduzione degli attuali commi 3 e
3-bis dell’art. 2: disposizioni che il giudice a quo censura nella parte in cui
includono «tra le ipotesi di manifesta violazione del diritto dell’Unione
europea il contrasto tra un atto o un provvedimento giudiziario e
l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea sulla
vincolatività delle decisioni della Commissione europea per il giudice
nazionale».
Anche tali questioni risulterebbero infondate.
Il rimettente avrebbe, infatti, travisato i principi affermati dalla Corte di
giustizia, la quale – come detto – si sarebbe limitata ad affermare la regola
che discende dall’art. 288, paragrafo 4, TFUE (secondo cui la decisione, sino a
quando non è annullata dal giudice competente, è obbligatoria). Che la
violazione del principio affermato dalla Corte di Lussemburgo determini la
responsabilità dello Stato membro nei confronti dei singoli rappresenterebbe,
poi, un corollario necessario al fine di conferire effettività al diritto
dell’Unione, nel quadro del processo di integrazione europea. Il settore della
concorrenza – entro il quale si colloca la disciplina degli aiuti di Stato – è,
d’altra parte, tra quelli maggiormente interessati dal fenomeno di
trasferimento della sovranità consentito dall’art. 11 Cost. e in cui, quindi,
più «pervasiva» è la presenza del diritto eurounitario.
Peraltro, come già accennato, la Corte di
giustizia, in considerazione della delicatezza e della rilevanza della funzione
giurisdizionale, ha attenuato la responsabilità dello «Stato-giudice»,
affermando che questa ricorre solo nel caso di violazione «manifesta» del
diritto dell’Unione.
2.7.– Con riferimento, infine, al dubbio di
legittimità costituzionale della legge di ratifica del Trattato di Lisbona,
nella parte in cui, attraverso di essa, avrebbe avuto ingresso il principio
secondo il quale «nell’attività interpretativa il giudice [deve] tenere conto
delle posizioni espresse dalle istituzioni europee non giurisdizionali», il
giudice rimettente avrebbe travisato, ancora una volta, il significato della
giurisprudenza della Corte di giustizia, la quale non avrebbe, in realtà, mai
affermato che il giudice sia vincolato, nella propria interpretazione, dalle
valutazioni di organi non giurisdizionali.
Come si evincerebbe chiaramente dalla citata sentenza
Köbler, nella quale il principio è stato
enunciato, la Corte di giustizia si è limitata, in realtà, a chiarire che la
scusabilità dell’errore del giudice nazionale è più difficilmente riscontrabile
nel caso in cui egli disponesse di una interpretazione delle norme controverse
da parte di una istituzione europea e, ciò nonostante, se ne sia discostato,
senza procedere a un rinvio pregiudiziale. La Corte di giustizia ha ritenuto,
peraltro, riscontrabile la violazione manifesta del diritto dell’Unione solo
nel fatto del giudice nazionale di ultima istanza, il quale, ai sensi dell’art.
267, paragrafo 3, TFUE, ha l’obbligo, e non solo la facoltà, di disporre il
rinvio pregiudiziale: obbligo che – alla luce della giurisprudenza della stessa
Corte di giustizia – sussiste allorché l’interpretazione della norma
dell’Unione non si imponga con tale evidenza da non dare adito a ragionevoli
dubbi. Sarebbe, peraltro, del tutto evidente come, in presenza di
un’interpretazione di un’istituzione europea che contraddica quella che intende
seguire il giudice nazionale, si debba escludere che l’interpretazione del
diritto dell’Unione non dia adito a «ragionevoli dubbi».
Considerato
in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Enna solleva
questioni di legittimità costituzionale:
a) dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130
(Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato
sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni
atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il
13 dicembre 2007), nella parte in cui:
- «ai sensi dell’art. 288» del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del
Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge n. 130 del
2008, «così come interpretato dalla costante giurisprudenza della Corte di
Giustizia, si prevede che la decisione della Commissione rivolta agli Stati,
ormai divenuta inoppugnabile dinnanzi agli organi giurisdizionali comunitari,
sia obbligatoria e vincolante in tutti i suoi elementi, anche per i giudici
nazionali»;
- «ai sensi dell’art. 267 TFUE, così come
interpretato nella sentenza
della C.G.U.E., 30 settembre 2003, causa 224/01, si prevede che
nell’attività interpretativa il giudice debba tenere conto delle posizioni
espresse dalle istituzioni europee non giurisdizionali»;
b) dell’art. 2, commi 3 e 3-bis, della legge 13
aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle
funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), come modificato
dall’art. 2, comma 1, lettera c), della legge 27 febbraio 2015, n. 18
(Disciplina della responsabilità civile dei magistrati), «nella parte in cui
include tra le ipotesi di manifesta violazione del diritto dell’Unione europea
il contrasto tra un atto o un provvedimento giudiziario e l’interpretazione
espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea sulla vincolatività delle
decisioni della Commissione europea per il giudice nazionale».
Ad avviso del rimettente, le disposizioni
censurate violerebbero gli artt. 101 e 104 della Costituzione, in quanto
interferirebbero sull’indipendenza esterna della magistratura, costituente attuazione
del principio supremo di separazione dei poteri, consentendo alle istituzioni
dell’Unione europea di influenzare i giudizi in corso anche tramite
l’espressione di una mera «posizione» e l’adozione di provvedimenti
amministrativi.
Le medesime disposizioni si porrebbero, altresì,
in contrasto con l’art. 24 Cost., menomando il diritto alla tutela
giurisdizionale davanti a un giudice indipendente e imparziale: diritto
qualificabile anch’esso come principio supremo dell’ordinamento costituzionale
e, dunque, come "controlimite” all’ingresso del diritto dell’Unione europea.
2.– Con i quesiti di legittimità costituzionale
sottoposti a questa Corte il Tribunale rimettente si duole, nella sostanza, del
fatto che, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione
europea, il giudice nazionale sia vincolato dalle decisioni della Commissione
europea (e, in particolare, dalle decisioni in materia di aiuti di Stato): e
ciò anche agli effetti dell’insorgenza, in caso di mancato adeguamento, di una
responsabilità dello Stato per danni causati nell’esercizio delle funzioni
giudiziarie. In questo modo, il giudice finirebbe per essere assoggettato alle
determinazioni assunte da autorità amministrative europee – quale, appunto, la
Commissione – in violazione dei principi supremi di soggezione del giudice
soltanto alla legge e di indipendenza della magistratura (artt. 101 e 104
Cost.), e con compromissione, altresì, del diritto di accesso del cittadino a
un giudice indipendente e imparziale, desumibile dall’art. 24 Cost. e
qualificabile anch’esso come principio supremo dell’ordine costituzionale.
Secondo il giudice a quo, le questioni sarebbero
rilevanti nel giudizio principale, avente ad oggetto l’opposizione al decreto ingiuntivo
emesso nei confronti di una Azienda sanitaria provinciale per il pagamento, a
favore di un allevatore, dell’indennità per l’abbattimento di capi di bestiame
infetti prevista dall’art. 1 della legge della Regione Siciliana 5 giugno 1989,
n. 12 (Interventi per favorire il risanamento e il reintegro degli allevamenti
zootecnici colpiti dalla tubercolosi, dalla brucellosi e da altre malattie
infettive e diffusive e contributi alle associazioni degli allevatori). La
rilevanza delle questioni si connetterebbe segnatamente al fatto che l’Azienda
sanitaria ha dedotto, quale motivo preliminare di opposizione, che il fondo
previsto dalla citata legge regionale non era stato reintegrato, a partire dal 1997, dal competente assessorato regionale, in
quanto gli indennizzi in questione erano stati qualificati come «aiuti di
Stato» dalla Commissione europea con la decisione C(2002)4786 dell’11 [recte: del 6] dicembre 2002.
Tale decisione non riguarda, in realtà,
direttamente la legge reg. Siciliana n. 12 del 1989, ma successive disposizioni
regionali che hanno aumentato i finanziamenti per il pagamento delle indennità
previste dalla citata legge in relazione a malattie del bestiame verificatesi
negli anni dal 1993 al 1997 (ciò, a fronte della riscontrata insufficienza
degli stanziamenti precedenti).
Nell’occasione, la Commissione ha fatto
applicazione degli indirizzi espressi, in termini generali, nella comunicazione
2000/C 28/02, relativa agli «orientamenti comunitari per gli aiuti di Stato nel
settore agricolo», pubblicata nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee
del 1° febbraio 2000. In particolare, ha rilevato che l’indennità in parola,
volta a compensare l’allevatore per la perdita di alcuni capi di bestiame a
causa di malattia, rientra nella nozione di aiuto di Stato delineata dall’art.
87, paragrafo 1, del Trattato che istituisce la Comunità economica europea
(CEE), firmato a Roma il 25 marzo 1957, entrato in vigore il 1° gennaio 1958
(ora art. 107, paragrafo 1, TFUE), trattandosi di misura finanziata con risorse
statali che favorisce il settore zootecnico in Sicilia, e pertanto
potenzialmente idonea a falsare la concorrenza in un mercato – quale quello
degli animali vivi di specie bovina, ovina e caprina e delle loro carni –
altamente integrato a livello comunitario.
Pur deplorando il fatto che all’aiuto fosse
stata data esecuzione prematuramente, in violazione dell’art. 88, paragrafo 3,
Trattato CEE (ora art. 108, paragrafo 3, TFUE), la Commissione ha, tuttavia,
approvato la misura (quanto alle annualità considerate) ai sensi dell’art. 87,
paragrafo 3, lettera c), Trattato CEE (ora art. 107, paragrafo 3, lettera c,
TFUE), in base al quale gli aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune
attività possono essere considerati compatibili con il mercato comune ove non
alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse. Si
è ritenuto, infatti, che ricorressero i quattro requisiti richiesti a questo
fine nel punto 11.4 dei citati «orientamenti» (presenza di una malattia di interesse
per le pubbliche autorità; finalità preventiva o compensativa dell’aiuto;
conformità dell’aiuto alla normativa comunitaria nel settore veterinario;
esclusione di una compensazione eccessiva).
In simile situazione, il giudice a quo rileva
come, ai fini della risoluzione della controversia sottoposta al suo esame,
occorra valutare se l’indennizzo previsto dalla legge reg. Siciliana n. 12 del
1989 sia effettivamente riconducibile alla nozione di aiuto di Stato: verifica
che verrebbe, tuttavia, preclusa al giudice nazionale dal censurato vincolo di
adeguamento alle decisioni della Commissione.
3.– Le eccezioni di inammissibilità delle
questioni formulate dall’Avvocatura generale dello Stato non sono fondate.
Quanto alla mancata esposizione, da parte del rimettente,
degli ulteriori motivi dedotti dall’Azienda sanitaria a sostegno
dell’opposizione a decreto ingiuntivo oggetto del giudizio principale e delle
ragioni della loro eventuale infondatezza, va rilevato come il giudice a quo
abbia riferito che il motivo basato sul carattere di aiuto di Stato della
misura in discussione – al quale ineriscono le questioni sollevate – assume
rilievo preliminare ai fini della decisione della controversia. Si tratta di
valutazione che, per sua natura, compete al giudice rimettente e che giustifica
– sul piano dell’assolvimento dell’onere di motivazione sulla rilevanza –
l’omessa analisi del complesso delle altre doglianze della parte opponente.
L’ulteriore eccezione della difesa
dell’interveniente, connessa al carattere, in assunto, lacunoso e incompleto
della ricostruzione del quadro normativo di riferimento operata dal giudice a
quo, attiene, nella specie, più propriamente al merito delle questioni.
4.– Nel merito, le questioni aventi ad oggetto
l’art. 2 legge n. 130 del 2008 non sono fondate.
4.1.– Al riguardo, giova preliminarmente
rammentare che l’art. 107 TFUE vieta, in linea di principio – dichiarandoli
«incompatibili con il mercato interno» – «gli aiuti concessi dagli Stati,
ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma» (formula che abbraccia
pacificamente anche gli aiuti provenienti da amministrazioni pubbliche non
centrali, quali Regioni o altri enti territoriali) «che, favorendo talune
imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza»,
«nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri».
Il divieto non è, tuttavia, assoluto e
incondizionato. Lo stesso art. 107 TFUE prevede, infatti, una serie di deroghe,
distinguendole in due categorie: da un lato, le ipotesi di compatibilità "di
pieno diritto”, ricorrendo le quali la Commissione non ha poteri discrezionali
in merito (paragrafo 2), dall’altro, i casi di aiuti "potenzialmente
compatibili”, i quali possono essere autorizzati all’esito di una valutazione
discrezionale delle istituzioni europee (paragrafo 3).
Il successivo art. 108 TFUE prefigura una
rigorosa procedura di controllo sulla compatibilità degli aiuti con la
disciplina del Trattato, che vede come protagonista la Commissione e che si
svolge con modalità diverse, secondo che si tratti di aiuti già esistenti
ovvero di aiuti nuovi (nozione che abbraccia anche le modifiche di aiuti
esistenti).
In base alla costante giurisprudenza della Corte
di giustizia, la valutazione della compatibilità di un aiuto di Stato con il
mercato interno rientra nella competenza esclusiva della Commissione, che opera
sotto il controllo del giudice dell’Unione, con la conseguenza che ai giudici
nazionali non è consentito pronunciarsi sul punto (ex plurimis, Corte
di giustizia, sentenza 26 ottobre 2016, in causa C‑590/14 P, Dimosia Epicheirisi Ilektrismou AE; sentenza
15 settembre 2016, in causa C‑574/14, PGE Górnictwo
i Energetyka Konwencjonalna
SA; sentenza
19 marzo 2015, in causa C‑672/13, OTP Bank Nyrt).
Nell’attuazione del sistema del controllo degli
aiuti, ai giudici nazionali spetta un ruolo "complementare e distinto”. Ad essi
compete, in specie, la salvaguardia, fino alla decisione definitiva della
Commissione, dei diritti dei singoli in caso di inadempimento dell’obbligo di
notifica preventiva della misura alla Commissione da parte degli Stati membri,
previsto dall’art. 108, paragrafo 3, TFUE. A tal fine, i giudici nazionali
possono interpretare e applicare la nozione di «aiuto di Stato» per valutare se
un provvedimento adottato senza seguire il procedimento di controllo preventivo
debba esservi o meno soggetto, salva restando, in caso di dubbio, la
possibilità di chiedere chiarimenti alla Commissione o, in alternativa, di
sottoporre la questione in via pregiudiziale alla Corte di giustizia (facoltà,
quest’ultima, che diviene un obbligo ove si tratti di giudice di ultima
istanza, ai sensi dell’art. 267, paragrafo 3, TFUE). Inoltre, spetta ai giudici
nazionali trarre tutte le conseguenze della violazione del citato art. 108,
paragrafo 3, TFUE, sia per quanto riguarda la validità degli atti che
comportano l’attuazione delle misure di aiuto, sia per quanto attiene al
recupero degli aiuti concessi in violazione di tale norma.
Sempre per affermazione della Corte di
giustizia, in forza dell’art. 288, paragrafo 4, TFUE, la decisione della
Commissione, una volta intervenuta – e fin tanto che non venga rimossa nei modi
previsti (profilo sul quale si tornerà poco più avanti) – è, peraltro,
obbligatoria in tutti i suoi elementi (dunque, anche in relazione alla
qualificazione della misura come aiuto di Stato) nei confronti dello Stato
destinatario. L’obbligatorietà vale per tutti gli organi dello Stato, compresi
i giudici (Corte
di giustizia, sentenza 13 febbraio 2014, in causa C‑69/13, Mediaset spa),
imponendo loro – in base al principio di "primazia” del diritto dell’Unione –
di non applicare le norme interne contrastanti (che potrebbero ostacolare,
cioè, l’attuazione della decisione stessa) (in termini generali, Corte
di giustizia, sentenza 21 maggio 1987, in causa 249/85, Albako).
Si tratta di conclusione recepita in modo
uniforme anche dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (tra le altre,
sezione lavoro, sentenza 5 settembre 2013, n. 20413; sezione quinta civile, 12
settembre 2012, n. 15207; sezione quinta civile, 11 maggio 2012, n. 7319).
4.2.– Ciò premesso, con particolare riguardo ai
modi con i quali possono essere fatti valere eventuali vizi che inficino la
decisione della Commissione, occorre muovere dal rilievo che, per costante
giurisprudenza della Corte di giustizia, i giudici nazionali non sono
competenti a dichiarare l’invalidità degli atti delle istituzioni dell’Unione (ex plurimis, Corte
di giustizia, grande sezione, sentenza 18 luglio 2007, in causa C-119/05,
Lucchini spa; grande
sezione, sentenza 10 gennaio 2006, in causa C-344/04, International Air Transport Association e altro).
Al fine di garantire l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione, l’art.
263 TFUE attribuisce, infatti, in via esclusiva il controllo sulla legittimità
di tali atti alla Corte di giustizia. Si tratta di una regola sulla
giurisdizione che – lungi dall’attentare ai «principi supremi» di soggezione
del giudice alla sola legge e di indipendenza della magistratura – si correla
alla partecipazione dell’Italia all’Unione europea, trovando copertura nel
quadro delle limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost.
Ciò non significa, peraltro, che il giudice
nazionale, il quale, per motivi dedotti dalle parti o rilevati d’ufficio,
dubiti della validità di un atto delle istituzioni dell’Unione – e, in specie,
di una decisione della Commissione in materia di aiuti di Stato – debba, ciò
nonostante, uniformarsi senz’altro ad essa. Al contrario, in tal caso egli può
– e anzi deve – sospendere il giudizio in corso e investire la Corte di
giustizia di un procedimento pregiudiziale per accertamento di validità, ai
sensi dell’art. 267, paragrafo 1, lettera b), TFUE (per tutte, Corte
di giustizia, grande sezione, 10 gennaio 2006, in causa C-344/04, International
Air Transport Association e
altro; sentenza
22 ottobre 1987, in causa 314/85, Foto-Frost).
4.3.– Il rimettente si duole, nondimeno,
specificamente del fatto che – alla luce di quanto affermato tanto dalla Corte
di giustizia, quanto dalla giurisprudenza di legittimità – il rinvio
pregiudiziale di validità non sia ammesso quando ci si trovi a fronte di
decisioni ormai definitive, in quanto non impugnate né dallo Stato
destinatario, né dai privati interessati con ricorso di annullamento nel
termine previsto dall’art. 263, paragrafo 6, TFUE (due mesi dalla notificazione
o dalla conoscenza dell’atto), così come sarebbe avvenuto – in assunto – nel
caso oggetto del giudizio principale.
La doglianza non è, tuttavia, fondata, proprio
alla luce della giurisprudenza richiamata.
L’art. 263 TFUE consente, in effetti, di
proporre il ricorso di annullamento non solo agli Stati membri e alle
istituzioni europee (paragrafo 2), ma anche ai privati («[q]ualsiasi
persona fisica o giuridica»), quando si tratti di atti adottati nei loro
confronti, o che li riguardino «direttamente e individualmente» (paragrafo 4).
A fronte di ciò, la Corte di giustizia – con
giurisprudenza costante, a partire dalla sentenza
9 marzo 1994, in causa C-188/92, TWD Textilwerke Deggendorf – ha affermato che il soggetto legittimato
ad impugnare una decisione della Commissione in materia di aiuti di Stato, il
quale abbia lasciato inutilmente decorrere il relativo termine perentorio, non
può poi contestare la validità della decisione davanti ai giudici nazionali (in
tal senso, tra le molte, Corte
di giustizia, sentenza 5 marzo 2015, in causa C‑667/13, Banco Privado Português SA e altro;
sentenza
9 giugno 2011, nelle cause riunite C-71/09 P, C-73/09 P e C-76/06 P, Comitato
«Venezia vuole vivere» e altri; grande
sezione, 18 luglio 2007, in causa C-119/05, Lucchini spa). Tale preclusione
non implica, peraltro, affatto – nemmeno essa – una subordinazione della
funzione giurisdizionale (nazionale) a quella amministrativa (europea), ma
discende – come chiaramente indicato dalla stessa Corte di giustizia – da una
elementare esigenza di certezza del diritto (evitare che atti dell’Unione,
produttivi di effetti giuridici, possano essere messi in discussione
all’infinito). Adottando una soluzione contraria, infatti, l’interessato
potrebbe agevolmente eludere il carattere definitivo della decisione nei suoi
confronti, conseguente alla scadenza del termine perentorio di impugnazione,
contestando in qualsiasi tempo la validità dell’atto davanti al giudice
nazionale, in modo da indurlo (o da obbligarlo) a proporre un rinvio
pregiudiziale di validità (in senso conforme, nella giurisprudenza di
legittimità, Corte di cassazione, sezione quinta civile, 11 maggio 2012, n.
7319, citata dallo stesso rimettente).
La preclusione in parola opera, peraltro –
sempre secondo la richiamata, costante giurisprudenza della Corte di giustizia
– soltanto nei confronti del soggetto che era legittimato a impugnare
direttamente la decisione. Alla luce della ricordata previsione dall’art. 263,
paragrafo 4, TFUE, nel campo degli aiuti di Stato tale legittimazione sussiste
solo quando si discuta di un aiuto di Stato individuale o, comunque sia, quando
si possa ritenere che la decisione concerna specificamente il soggetto a causa
di determinate sue qualità particolari o di una situazione di fatto che lo
caratterizza rispetto a qualsiasi altro e, quindi, lo individua in modo analogo
al destinatario della decisione stessa. In presenza di un regime di aiuti rivolto
a un determinato settore, non basta, quindi, che il soggetto eserciti
un’impresa appartenente al settore interessato e sia, perciò, un beneficiario
meramente potenziale della misura, affinché egli possa ritenersi abilitato a
impugnare in via diretta la decisione della Commissione inerente a detto regime
(ex plurimis,
Corte
di giustizia, sentenza 17 settembre 2015, in causa C‑33/14 P, Mory SA e altri; sentenza
29 aprile 2004, in causa C-298/00 P, Italia contro Commissione; sentenza
19 ottobre 2000, nelle cause riunite C-15/98 e C-105/99, Italia e Sardegna
Lines contro Commissione). In una simile evenienza, quindi, la preclusione
a dedurre l’illegittimità della decisione davanti ai giudici nazionali non
scatta.
Proprio questa è, in effetti – con ogni evidenza
– la situazione che ricorre nel giudizio a quo. Nella specie, si discute,
infatti, di un regime di indennizzi destinato in modo indifferenziato a tutti
gli allevatori di bovini, ovini e caprini siciliani: regime che ha assunto
rilievo in capo all’allevatore ingiungente solo nel momento in cui, avendo
abbattuto dei capi di bestiame infetti, si è visto denegare il beneficio.
Contrariamente a quanto si afferma nell’ordinanza di rimessione, nessun
ostacolo incontra, dunque, per questo verso, l’eventuale rinvio pregiudiziale
di validità da parte del giudice rimettente. E ciò a prescindere dal rilievo
che, in qualche pronuncia, la Corte di giustizia ha ritenuto che il giudice
possa proporre, comunque sia, il rinvio pregiudiziale di validità d’ufficio,
allorché le parti del giudizio, legittimate a impugnare la decisione della
Commissione e decadute dalla relativa facoltà per scadenza del termine, non ne
abbiano fatto richiesta (Corte
di giustizia, sentenza 10 gennaio 2006, in causa C-222/04, Cassa di Risparmio
di Firenze spa e altri).
4.4.– Il sistema in discorso – che, per quanto
detto, non reca alcun vulnus ai principi espressi dagli artt. 101 e 104 Cost. –
non menoma neppure l’evocato «diritto di accesso a un giudice» (indipendente e
imparziale) da parte del soggetto interessato, che il rimettente ricollega alla
previsione dell’art. 24 Cost.
La Corte di giustizia ha sottolineato, in
effetti, in più occasioni come il sistema di tutela giurisdizionale
dell’Unione, fondato su due livelli – europeo e nazionale – tra loro
comunicanti, sia completo e coerente (per tutte, Corte
di giustizia, sentenza 5 ottobre 2006, in causa C-232/05, Commissione contro
Francia). Alla sua stregua, infatti, il privato che vi abbia interesse
beneficia, comunque sia, (almeno) di un rimedio processuale per far valere
l’illegittimità delle decisioni della Commissione. Egli può ricorrere
direttamente alla Corte di giustizia per l’annullamento dell’atto, se attinto
da esso in modo diretto e individualizzato; in caso contrario, può contestare,
comunque sia – indipendentemente dal termine per il ricorso di annullamento –
la sua validità davanti ai giudici nazionali, affinché chiedano alla Corte di
pronunciarsi al riguardo con domanda pregiudiziale.
4.5.– Alla luce delle considerazioni che precedono, le questioni relative all’art. 2 della legge n.
130 del 2008 vanno dichiarate, dunque, non fondate.
5.– Le medesime considerazioni rendono, altresì,
inammissibili per difetto di rilevanza le questioni aventi ad oggetto l’art. 2,
commi 3 e 3-bis, legge n. 117 del 1988, nel testo novellato dalla legge n. 18
del 2015.
Tali disposizioni sono, infatti, censurate dal
Tribunale rimettente nella parte in cui si prestano a configurare come ipotesi
significativa, ai fini dell’insorgenza di una responsabilità per danni
conseguenti all’esercizio delle funzioni giudiziarie, «il contrasto tra un atto
o un provvedimento giudiziario e l’interpretazione espressa dalla Corte di
giustizia dell’Unione europea sulla vincolatività delle decisioni della Commissione
europea per il giudice nazionale». L’insussistenza, nel caso oggetto del
giudizio a quo – per le ragioni dianzi indicate – dell’obbligo di adeguamento
alla decisione della Commissione europea in materia di aiuti di Stato, nei
termini in cui è postulato dal giudice rimettente, fa sì che le questioni
risultino senz’altro prive di rilevanza, venendo meno il presupposto della
ipotizzata responsabilità civile.
Per tale assorbente motivo, la ragione
pregiudiziale in precedenza indicata, le questioni relative all’art. 2, commi 3
e 3-bis, legge n. 117 del 1988, nel testo novellato dalla legge n. 18 del 2015,
vanno dichiarate, dunque, inammissibili.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2 della
legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che
modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la
Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e
dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), sollevate, in riferimento
agli artt. 24, 101 e 104 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Enna
con l’ordinanza indicata in epigrafe.
2) dichiara
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 3 e
3-bis, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati
nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei
magistrati), come modificato dall’art. 2, comma 1, lettera c), della legge 27
febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati),
sollevate, in riferimento agli artt. 24, 101 e 104 della Costituzione, dal
Tribunale ordinario di Enna con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 gennaio 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 luglio 2018.