SENTENZA N. 42
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 631 del codice di procedura penale, promosso dalla Corte d’appello di Catanzaro nel procedimento penale a carico di C. M., con ordinanza del 5 aprile 2017, iscritta al n. 98 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 10 gennaio 2018 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.
Ritenuto in fatto
1.– La Corte d’appello di Catanzaro, con ordinanza del 5 aprile 2017 (r.o. n. 98 del 2017), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, terzo comma, e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 631 del codice di procedura penale, nella parte in cui «non prevede che gli elementi in base ai quali si chiede la revisione siano tali da dimostrare, se accertati, l’esclusione di una circostanza aggravante che abbia negativamente influito sul trattamento sanzionatorio del condannato».
La Corte rimettente riferisce di essere investita della richiesta di revisione di una sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria, con la quale il ricorrente era stato definitivamente condannato per il reato di associazione di tipo mafioso, con l’aggravante prevista dal quarto comma dell’art. 416-bis del codice penale, per essere l’associazione armata.
In primo grado il ricorrente era stato giudicato con il rito abbreviato dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Reggio Calabria, mentre altri imputati ai quali era stato contestato lo stesso reato, in quanto appartenenti alla medesima associazione di tipo mafioso, erano stati giudicati dal Tribunale di Reggio Calabria e condannati con una sentenza, divenuta anch’essa irrevocabile, che aveva ritenuto insussistente l’aggravante prevista dal quarto comma dell’art. 416-bis cod. pen.
La richiesta di revisione, relativa ad «un unico originario procedimento penale», era volta a far rilevare il contrasto di giudicati relativo alla «applicazione della predetta aggravante, con conseguente modificazione della pena».
Il Procuratore generale della Corte d’appello di Catanzaro aveva eccepito l’inammissibilità della richiesta osservando che la revisione è consentita solo nei casi in cui dall’impugnazione straordinaria può derivare «un effetto di totale proscioglimento» e non anche in quelli in cui il contrasto tra i giudicati riguarda una circostanza aggravante.
Il collegio rimettente, nel valutare in via preliminare l’ammissibilità del ricorso, ha preso atto dell’esistenza di una giurisprudenza costante volta a negare la rilevanza del contrasto tra giudicati relativo a un’aggravante, in quanto l’art. 631 cod. proc. pen. limiterebbe la revisione ai casi fondati su elementi «tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto a norma degli artt. 529, 530 o 531».
Il diritto vivente escluderebbe interpretazioni estensive della disposizione in questione, la quale consentirebbe la revisione nei soli casi che possono dar luogo a un «integrale proscioglimento del condannato».
Per effetto di questa limitazione risulterebbe violato l’art. 3 Cost., in quanto, «[se] il condannato può, sulla base di un contrasto tra giudicati, ottenere una revisione del proprio giudizio di colpevolezza nel suo intero (tertium comparationis)», sarebbe irragionevole non riconoscergli la possibilità di ottenere la «declaratoria sopravvenuta di insussistenza di una circostanza aggravante, ossia di una parte della condotta contestata che abbia effetto sulla pena, esclusa in fatto da altro giudicato».
Sarebbe violato anche l’art. 24 Cost., il quale, garantendo al cittadino «piena tutela dei propri diritti e del diritto alla difesa, riservando alla legge le sole modalità di riparazione degli errori giudiziari», implicherebbe il riconoscimento al condannato di «uno strumento di accesso per consentire di rilevare la presenza dell’errore, che non pare ragionevole limitare ai soli casi da cui discende la completa esclusione della condotta riprovevole e non soltanto una frazione della stessa, qualificata come circostanza, in grado di influire sulla pena».
Una lettura complessiva delle disposizioni richiamate indicherebbe che nessun cittadino possa essere condannato ad una pena restrittiva della libertà personale per un fatto che non sia stato completamente accertato, al di là di ogni ragionevole dubbio.
L’esclusione delle aggravanti dal giudizio di revisione contrasterebbe inoltre con l’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto «sapere di dover scontare una (parte di) pena per una circostanza che per altri imputati, per il medesimo reato, è stata da altro organo giudiziario definitivamente esclusa, appare in conflitto con la finalità rieducativa», dando al condannato l’idea di subire una sanzione ingiusta e discriminatoria.
Sarebbe violato infine l’art. 111 Cost., in quanto «la percezione di non imparzialità del giudizio» emergerebbe dal «contrasto tra opposti giudicati [– sia pure limitatamente ad un determinato aspetto della condotta –] di cui l’uno esclude la fondatezza dell’altro».
In tema di rilevanza il giudice a quo osserva che ove la richiesta venisse ritenuta ammissibile e accolta il condannato potrebbe ottenere una pena diversa da quella determinata dalla sentenza oggetto di revisione.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili e comunque non fondate.
L’Avvocatura generale dello Stato sottolinea che la revisione costituisce un’impugnazione straordinaria, fondata sul principio che nessun innocente deve essere assoggettato a pena. Non tutti gli errori sarebbero oggetto di considerazione dopo «il giudizio irrevocabile», in quanto ai fini della revisione sarebbe rilevante solo quello intervenuto «nella ricostruzione storica del fatto di reato, con riguardo alla condotta, al nesso casuale, all’evento, nonché all’attribuzione soggettiva di colpevolezza e di imputabilità».
La revisione sarebbe limitata, pertanto, solo agli elementi essenziali del reato, «con la conseguente esclusione degli errori sul fatto integrante una circostanza del reato e dell’ammissibilità di una richiesta di revisione intesa ad ottenere una condanna meno afflittiva per un reato diverso e meno grave».
L’istituto della revisione troverebbe fondamento nell’art. 24 Cost., il quale, prevedendo che «[l]a legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari», attribuirebbe al Parlamento il potere discrezionale di individuare i casi e i modi della riparazione.
Pertanto l’Avvocatura generale ritiene che a questa Corte non sarebbe consentito un intervento, come quello richiesto, destinato ad operare in un campo riservato alla discrezionalità del legislatore.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 5 aprile 2017, la Corte d’appello di Catanzaro ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, terzo comma, e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 631 del codice di procedura penale, nella parte in cui «non prevede che gli elementi in base ai quali si chiede la revisione siano tali da dimostrare, se accertati, l’esclusione di una circostanza aggravante che abbia negativamente influito sul trattamento sanzionatorio del condannato».
Ad avviso del collegio rimettente la norma censurata violerebbe l’art. 3 Cost., in quanto «se il condannato può, sulla base di un contrasto tra giudicati, ottenere una revisione del proprio giudizio di colpevolezza» sarebbe irragionevole non riconoscergli la stessa possibilità per ottenere la «declaratoria sopravvenuta di insussistenza di una circostanza aggravante, ossia di una parte della condotta contestata, che abbia effetto sulla pena, esclusa in fatto da altro giudicato».
Sarebbe violato anche l’art. 24 Cost., il quale, garantendo al cittadino «piena tutela dei propri diritti e del diritto alla difesa, riservando alla legge le sole modalità di riparazione degli errori giudiziari», implicherebbe il riconoscimento al condannato di «uno strumento di accesso per consentire di rilevare la presenza dell’errore, che non pare ragionevole limitare ai soli casi da cui discende la completa esclusione della condotta riprovevole e non soltanto una frazione della stessa, qualificata come circostanza, in grado di influire sulla pena».
L’esclusione delle aggravanti dal giudizio di revisione contrasterebbe, inoltre, con l’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto «sapere di dover scontare una (parte di) pena per una circostanza che per altri imputati, per il medesimo reato, è stata da altro organo giudiziario definitivamente esclusa, appare in conflitto con la finalità rieducativa», dando al condannato l’idea di subire una sanzione ingiusta e discriminatoria.
Sarebbe violato, infine, l’art. 111 Cost., in quanto «la percezione di non imparzialità del giudizio» emergerebbe dal «contrasto tra opposti giudicati [– sia pure limitatamente ad un determinato aspetto della condotta –] di cui l’uno esclude la fondatezza dell’altro».
2.– Le questioni sono inammissibili perché l’ordinanza di rimessione presenta una carenza di descrizione dei fatti che si traduce in difetto di motivazione sulla rilevanza.
Le questioni sollevate riguardano l’art. 631 cod. proc. pen., che regola i «[l]imiti della revisione» con la richiesta di elementi tali da dimostrare, «se accertati, che il condannato deve essere prosciolto a norma degli articoli 529, 530 e 531» cod. proc. pen., e si fondano sull’esistenza di un’ipotesi di conflitto teorico di giudicati, regolata dall’art. 630, lettera a), cod. proc. pen.
Questa disposizione consente la revisione «se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza […] o del decreto penale di condanna […] non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile […] del giudice ordinario o di un giudice speciale», e questa Corte ha già rilevato che «il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili, evocato dall’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., non può essere inteso in termini di contraddittorietà logica tra le valutazioni effettuate nelle due decisioni. Tale concetto deve, invece, essere inteso in termini di oggettiva incompatibilità tra i “fatti” (ineludibilmente apprezzati nella loro dimensione storico-naturalistica) su cui si fondano le diverse sentenze» (sentenza n. 129 del 2008).
Di questi fatti nell’ordinanza di rimessione manca qualunque descrizione.
La Corte rimettente non ha indicato quali accertamenti contenuti nella sentenza che ha escluso l’aggravante sono diversi da quelli contenuti nella sentenza oggetto della richiesta di revisione. Essa si è limitata a rilevare che la sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria, del 16 aprile 2015, nei confronti di C. M., condannato in primo grado al termine di un giudizio abbreviato, ne ha ritenuto la responsabilità per un reato di associazione di tipo mafioso aggravato dalla disponibilità di armi (art. 416-bis, quarto comma, del codice penale), mentre la sentenza del Tribunale di Reggio Calabria, n. 606 del 2014, resa all’esito di un giudizio dibattimentale, nei confronti di altre persone concorrenti nello stesso reato (in quanto appartenenti alla medesima organizzazione criminale), ha escluso tale aggravante.
Così è mancata l’indicazione degli elementi che potrebbero dare luogo al denunciato conflitto teorico di giudicati, dato che non è sufficiente a tal fine allegare il contrasto tra i “dispositivi” delle due diverse decisioni di condanna sulla sussistenza dell’aggravante della disponibilità di armi.
Deve quindi ritenersi che l’ordinanza di rimessione sia viziata da una carenza di motivazione sulla rilevanza delle questioni, perché, come è già stato osservato da questa Corte, «[n]on è la erronea (in ipotesi) valutazione del giudice a rilevare, ai fini della rimozione del giudicato; bensì esclusivamente il “fatto nuovo” (tipizzato nelle varie ipotesi scandite dall’art. 630 del codice di rito), che rende necessario un nuovo scrutinio della base fattuale su cui si è radicata la condanna oggetto di revisione» (sentenza n. 129 del 2008).
Tale conclusione tanto più si impone nel caso in esame, in cui la sentenza della quale si chiede la revisione è intervenuta successivamente a quella posta a fondamento della richiesta, ed è passata in giudicato dopo che sull’esistenza dell’aggravante in questione si era pronunciata anche la Corte di cassazione (sezione seconda penale, sentenza 9 marzo 2016, n. 12871). Questa infatti aveva dato atto dell’«ampio compendio probatorio» comprovante la disponibilità di armi e aveva giudicato irrilevante «la circostanza che, secondo la difesa, altra sentenza avrebbe escluso l’aggravante in esame».
Le questioni sollevate dalla Corte d’appello di Catanzaro risultano pertanto inammissibili.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 631 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, terzo comma, e 111 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Catanzaro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente e Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 2 marzo 2018.