ANNO 2017
Commenti alla decisione di
I. Roberto Valli, La Consulta interviene sulla nozione di "rilievo" aprendo una zona grigia nella determinazione dei confini di applicabilità dell'art. 360 c.p.p., per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
II. Giuseppe Centamore, Rilievi e accertamenti nel codice di procedura penale nell'attività di prelievo di reperti utili alla ricerca di DNA. Un nodo irrisolto, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 360 del codice di procedura penale, promosso dalla Corte d’assise d’appello di Roma, nel procedimento penale a carico di P. L., con ordinanza del 25 ottobre 2016, iscritta al n. 16 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visti l’atto di costituzione di P. L., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 26 settembre 2017 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;
uditi l’avvocato Andrea Sereni per P. L. e l’avvocato dello Stato Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– La Corte d’assise d’appello di Roma, con ordinanza del 25 ottobre 2016 (r.o. n. 16 del 2017), ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 360 del codice di procedura penale, «ove non prevede che le garanzie difensive previste da detta norma riguardano anche le attività di individuazione e prelievo di reperti utili per la ricerca del DNA».
Il giudice a quo premette di essere investito del giudizio di rinvio in seguito alla pronuncia della Corte di cassazione che, su impugnazione del Procuratore generale, aveva annullato la sentenza della Corte d’assise d’appello di Roma del 21 maggio 2013, per l’avvenuta derubricazione in concorso anomalo, ai sensi dell’art. 116 del codice penale, dell’originaria imputazione di omicidio volontario.
Il collegio rimettente ricorda che l’imputato, per il reato di omicidio aggravato, ai sensi degli artt. «61 nn. 2 e 5, 575, 576 n. 1, c.p.», e per quello di tentata rapina aggravata, ai sensi degli artt. «81, 56 – 628 commi 1 e 3 nn. 1 e 3-bis, 61 n. 5 c.p.», era stato condannato alla pena di 22 anni di reclusione e che la decisione era stata riformata dalla Corte d’assise d’appello di Roma, che aveva rideterminato la pena in 12 anni di reclusione.
Nell’udienza del 29 maggio 2015, in sede di rinvio, la Corte d’assise d’appello aveva sollevato delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 360 cod. proc. pen. uguali a quelle oggetto del presente giudizio, e questa Corte, con ordinanza n. 118 del 23 marzo 2016, le aveva dichiarate manifestamente inammissibili.
Ripreso il giudizio di rinvio, su sollecitazione dell’imputato, la Corte d’assise d’appello ha riproposto le medesime questioni, rilevando che la pronuncia di inammissibilità non era preclusiva, perché era stata determinata da una carenza di motivazione dell’ordinanza di rimessione.
Secondo quanto riferisce il collegio rimettente, la sentenza della Corte d’assise d’appello del 21 maggio 2013 aveva posto a base della derubricazione in concorso anomalo dell’originaria contestazione di omicidio volontario «la nullità (con conseguente inutilizzabilità ai fini della decisione) degli atti di ispezione e prelievo eseguiti il 5 maggio 2010 e delle successive analisi che avevano accertato la presenza del DNA della vittima in una traccia di sangue nell’appartamento abitato dall’imputato il giorno del delitto (appartamento sito al piano superiore di quello della vittima), nonché la presenza congiunta del DNA della vittima e di quello dell’imputato nelle tracce di sangue rinvenute sul parapetto della scala che portava dall’appartamento della vittima a quello abitato in quei giorni» dall’imputato.
La sentenza della Corte di cassazione, nel motivare l’annullamento della decisione della corte di merito sul punto relativo alla derubricazione, ha ritenuto che dagli elementi di prova oggetto di valutazione da parte del giudice di appello erroneamente erano stati espunti i risultati dell’attività genetica eseguita dai carabinieri del Reparto investigazioni scientifiche (R.I.S.) nel prelevare le tracce ematiche repertate il 5 maggio 2010.
Da ciò conseguirebbe la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 360 cod. proc. pen., laddove non prevede il rispetto delle garanzie difensive anche per le attività di «prelievo di reperti utili per la ricerca del DNA», in quanto l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della norma in questione «nei termini già proposti» comporterebbe la nullità delle attività di prelievo delle tracce ematiche, effettuate dal R.I.S. il 5 maggio 2010, con «riflesso» sulla valutazione del compendio probatorio, così da incidere, quantomeno, sulla qualificazione della condotta criminosa dell’imputato come omicidio volontario ovvero come concorso anomalo ai sensi dell’art. 116 cod. pen.
Non costituirebbe oggetto di contestazione nel giudizio di rinvio il fatto che l’imputato all’atto del prelievo, il 5 maggio 2010, rivestisse «la qualità d’indagato di reato (anche se formalmente non iscritto nel registro ex art. 335 cpp)».
La distinzione effettuata dalla Corte di cassazione tra «“rilievi”» e «“accertamenti”», per cui solo rispetto a questi ultimi rileverebbe il requisito dell’irripetibilità, benché conforme a un consolidato orientamento giurisprudenziale, sarebbe di dubbia legittimità costituzionale ove fosse ritenuta applicabile anche ai prelievi di materiale biologico. Infatti le operazioni di asporto e raccolta di tracce di materiale genetico non potrebbero qualificarsi come mere attività esecutive, perché gli esperti incaricati di tale asporto e raccolta sono tenuti al rispetto di «severi» protocolli cautelari «quali la delimitazione dei percorsi di accesso e di camminamento, l’uso di tute “ad hoc”, il cambiamento di strumenti e dotazione in corso d’opera, il filmaggio delle operazioni».
Perciò queste operazioni non sarebbero «omologabili» ad altre più tradizionali attività di repertazione. Si sarebbero infatti consolidati nella prassi articolati e sofisticati protocolli che, implicando un rilevante tasso di valutazione tecnico-scientifica, non consentirebbero di qualificare tali operazioni come «meramente materiali e/o esecutive», in quanto costituirebbero anch’esse degli «“accertamenti”», pur se di contenuto e profilo diversi dai successivi esami di laboratorio volti alla ricerca del DNA.
La loro riconduzione alla categoria degli accertamenti troverebbe un riscontro normativo nel combinato disposto degli artt. 360 e 364, comma 5, cod. proc. pen.
Queste disposizioni, se, da un lato, prevedono la possibilità di un atto ispettivo «“a sorpresa”», proprio al fine di evitare l’alterazione delle tracce del reato, dall’altro, statuirebbero che «le analisi sulle tracce “salvate” dall’alterazione» devono essere «compiute in contraddittorio», data l’irripetibilità delle operazioni di ricerca e repertazione in questione, alle quali dovrebbe estendersi l’intero regime di garanzia previsto dall’art. 360 cod. proc. pen.
Pertanto l’inosservanza del diritto dell’indagato di «intervenire, secondo le procedure previste dal disposto dell’art. 360 cpp, nell’attività tecnico-scientifica di ricerca ed asportazione delle tracce di materiale biologico» contrasterebbe non solo con il diritto di difesa «tutelato dall’art. 25 [recte: 24] della Costituzione», ma anche con il «principio ispiratore del giusto processo» consacrato nell’art. 111 Cost., secondo il quale la prova deve formarsi nel contraddittorio delle parti.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che «la questione» sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.
L’Avvocatura generale rileva che il collegio rimettente non ha chiarito le circostanze sulla base delle quali ritiene rilevanti le questioni dedotte. In particolare, non sarebbero stati riportati nell’ordinanza i motivi posti a sostegno della decisione di primo grado, né quelli che avevano indotto il giudice di appello a qualificare il fatto in termini di concorso cosiddetto anomalo, una volta ritenuti inutilizzabili gli esiti dell’esame del DNA sui reperti.
Inoltre l’avviso all’indagato non sarebbe stato dovuto perché questo al momento dell’ispezione non era ancora stato iscritto nel registro delle notizie di reato e comunque non risulterebbe l’esistenza di elementi che avrebbero imposto tale iscrizione.
Nel merito, l’Avvocatura generale osserva che l’attività di prelievo dei campioni di tracce biologiche, da utilizzare per l’estrazione del DNA e la individuazione della mappatura genetica, rappresenterebbe, nella maggior parte dei casi, operazione «routinaria» svolta dalla polizia giudiziaria, la quale opererebbe secondo protocolli scientifici standardizzati. Inoltre non sarebbe dimostrato che nel caso in esame si trattava di prelievi particolarmente complessi, non rientranti nell’attività ordinaria svolta dall’organo scientifico di polizia giudiziaria.
3.– Si è costituito in giudizio l’imputato del processo principale, chiedendo che le questioni siano dichiarate fondate.
La parte privata sostiene che sussiste la rilevanza delle questioni, in quanto, in base alla sentenza di annullamento della Corte di cassazione, il giudice di rinvio deve «procedere a nuova integrale valutazione degli elementi di prova, inclusa quella genetica erroneamente non utilizzata», al fine di ritenere o meno configurabile «la diminuente» di cui all’art. 116 cod. pen.
Con i «nuovi» accertamenti tecnici disposti dal pubblico ministero ed eseguiti il 5 maggio 2010, non solo erano state riacquisite le tracce già prelevate il 16 aprile, ma si era anche proceduto all’acquisizione di nuove tracce, e non sarebbe logicamente concepibile alcuna «assimilazione di disciplina tra atto ispettivo a sorpresa e attività di prelievo/asportazione di materiale biologico, con cancellazione della traccia stessa dal luogo di ritrovamento, e con conseguente irripetibilità radicale dell’atto».
Le attività di asporto e raccolta di tracce richiederebbero il rispetto di regole tecniche e di protocolli cautelari, volti a eliminare o perlomeno a minimizzare i rischi di contaminazione o di manipolazione.
1.– La Corte d’assise d’appello di Roma, con ordinanza del 25 ottobre 2016, ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 360 del codice di procedura penale, «ove non prevede che le garanzie difensive previste da detta norma riguardano anche le attività di individuazione e prelievo di reperti utili per la ricerca del DNA».
Ad avviso del giudice rimettente, la disciplina censurata violerebbe non solo il diritto di difesa, «tutelato dall’art. 25 [recte: 24] della Costituzione», ma anche il «principio ispiratore del giusto processo», consacrato nell’art. 111 Cost., secondo cui la prova deve formarsi nel contraddittorio tra le parti.
2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, perchè l’ordinanza di rimessione non avrebbe esplicitato le ragioni che le rendono rilevanti. In particolare, non sarebbero stati riportati nell’ordinanza i motivi posti a sostegno della decisione di primo grado, né quelli che avevano indotto il giudice di appello a qualificare il fatto in termini di concorso cosiddetto anomalo, una volta ritenuta l’inutilizzabilità degli esiti dell’esame del DNA sui reperti.
Inoltre, l’avviso all’indagato non sarebbe stato dovuto perché questo al momento dell’ispezione non era ancora stato iscritto nel registro delle notizie di reato e comunque non risulterebbe l’esistenza di elementi che avrebbero imposto tale iscrizione.
L’eccezione di inammissibilità è priva di fondamento.
Il giudice rimettente, dopo aver indicato in modo puntuale i capi di imputazione contestati all’imputato e fornito un’ampia descrizione delle vicende processuali, ha indicato le ragioni che fanno apparire rilevanti le questioni proposte. In particolare, ha precisato che la Corte d’assise d’appello, a base della derubricazione dell’originaria imputazione di omicidio volontario in concorso anomalo, ai sensi dell’art. 116 del codice penale, aveva posto «la nullità (con conseguente inutilizzabilità ai fini della decisione) degli atti di ispezione e prelievo eseguiti il 5 maggio 2010 e delle successive analisi che avevano accertato la presenza del DNA della vittima in una traccia di sangue nell’appartamento abitato dall’imputato il giorno del delitto […] nonché la presenza congiunta del DNA della vittima e di quello dell’imputato nelle tracce di sangue rinvenute sul parapetto della scala che portava dall’appartamento della vittima a quello abitato in quei giorni» dall’imputato. Poi il giudice rimettente ha sottolineato che la Corte di cassazione ha annullato la decisione della corte di merito, sul punto relativo alla derubricazione, perché ha ritenuto che erroneamente dagli elementi di prova oggetto di valutazione da parte dei giudici di appello erano stati espunti i risultati dell’attività dei carabinieri del Reparto investigazioni scientifiche (R.I.S.) relativa alle tracce ematiche repertate il 5 maggio 2010.
Alla stregua di tali considerazioni non era necessario indicare gli ulteriori «motivi posti a sostegno» delle decisioni di primo e di secondo grado, essendo stata chiarita la decisiva incidenza dell’accertamento tecnico sul DNA, conseguente alle attività di prelievo delle tracce ematiche effettuate dal R.I.S. il 5 maggio 2010, sul giudizio di penale responsabilità, e dunque la rilevanza delle questioni.
Va infine disatteso il rilievo che l’imputato al momento dell’ispezione non era ancora stato iscritto nel registro delle notizie di reato e non poteva neppure ritenersi che avesse assunto sostanzialmente la qualità di indagato. Il giudice a quo ha considerato l’esistenza di tale qualità un dato non controverso e tanto basta a dimostrare la rilevanza delle questioni.
3.– Nel merito le questioni non sono fondate.
4.– La Corte di cassazione in modo costante distingue il «rilievo», che comprende la raccolta o il prelievo dei dati pertinenti al reato, dall’«accertamento tecnico», che riguarda, invece, il loro studio e la loro valutazione critica (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta, 6 febbraio 2013, n. 10350; sezione seconda, 10 gennaio 2012, n. 2087; sezione seconda, 10 luglio 2009, n. 34149; sezione prima, 31 gennaio 2007, n. 14852).
La distinzione è concettualmente corretta e, del resto, non è contestata dal giudice rimettente. Questi ne nega la validità solo con riferimento al materiale biologico, sostenendo che dovrebbe farsi sempre applicazione dell’art. 360 cod. proc. pen. quando gli atti di indagine riguardano «le attività di individuazione e prelievo di reperti utili per la ricerca del DNA».
Di qui le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 360 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede tale applicazione.
5.– Il solo fatto che concerna rilievi o prelevamenti di reperti «utili per la ricerca del DNA» non modifica la natura dell’atto di indagine e non ne giustifica di per sé la sottoposizione a un regime complesso come quello previsto dall’art. 360 cod. proc. pen., costituito dalla nomina di un consulente, dall’avviso all’indagato, alla persona offesa e ai difensori del giorno, dell’ora e del luogo fissati per il conferimento dell’incarico, dalla possibilità per l’indagato di promuovere un incidente probatorio, con il divieto per il pubblico ministero di procedere agli accertamenti (e, secondo la richiesta estensione della norma, anche ai rilievi e ai prelevamenti in questione) «salvo che questi, se differiti, non possano più essere utilmente compiuti».
Ad esempio, il prelievo di capelli o di peli rinvenuti in posti sotto l’aspetto probatorio significativi non si differenzia dal prelevamento di altri reperti e non ci sarebbe ragione di effettuarlo con le forme previste dall’art. 360 cod. proc. pen., come dovrebbe avvenire se si accogliesse la richiesta del giudice rimettente, diretta a rendere applicabile tale disposizione a tutte «le attività di individuazione e prelievo di reperti utili per la ricerca del DNA».
Questa considerazione basterebbe da sola a far ritenere infondate le questioni.
Neppure al prelievo di tracce biologiche si potrebbero di regola riconoscere caratteristiche tali da differenziarlo da qualunque altra operazione di repertazione. Senza considerare che l’esistenza – alla quale ha fatto riferimento il giudice rimettente – di protocolli per la ricerca e il prelievo di tracce di materiale biologico può, da un lato, rendere routinaria l’operazione e, dall’altro, consentirne il controllo attraverso l’esame critico della prescritta documentazione. E non è privo di rilevanza che nel dibattimento l’imputato abbia la possibilità di verificare e contestare la correttezza dell’operazione anche attraverso l’esame del personale che l’ha eseguita, oltre che dei consulenti tecnici e dell’eventuale perito nominato dal giudice.
È da aggiungere che le forme dell’art. 360 cod. proc. pen. potrebbero assai spesso risultare incompatibili con l’urgenza, nel corso delle indagini, di eseguire il prelievo. Urgenza che non è riscontrabile con la stessa intensità negli accertamenti tecnici e che in nessun modo potrebbe essere soddisfatta, perché non sono previste ipotesi in cui tali forme possono essere derogate, come avviene nei casi disciplinati dall’art. 364, comma 5, cod. proc. pen., specie quando vi è fondato motivo di ritenere che le tracce o gli altri effetti materiali del reato possano essere alterati.
Il difensore dell’imputato ha sostenuto in udienza che la necessità di procedere nelle forme dell’art. 360 cod. proc. pen. emergerebbe anche dall’art. 117 delle norme di attuazione del codice di procedura penale, ma la tesi è infondata perché questa disposizione riguarda gli «[a]ccertamenti tecnici che modificano lo stato dei luoghi, delle cose o delle persone», e non l’attività di repertazione delle cose da sottoporre ad accertamento tecnico. In altre parole, la disposizione richiamata non riguarda genericamente tanto i rilievi quanto gli accertamenti tecnici, ma riguarda solo questi, e per la sua applicabilità presuppone perciò l’avvenuta individuazione della natura dell’atto.
Risulta quindi priva di fondamento la tesi del giudice rimettente secondo cui il prelievo di tracce biologiche, per sua natura, avrebbe caratteristiche tali da farlo assimilare in ogni caso a un accertamento tecnico preventivo e da richiedere quindi le medesime garanzie difensive.
Ciò però non esclude che tale prelievo, come altre operazioni di repertazione, richieda, in casi particolari, valutazioni e scelte circa il procedimento da adottare, oltre che non comuni competenze e abilità tecniche per eseguirlo, e in questo caso, ma solo in questo, può ritenersi che quell’atto di indagine costituisca a sua volta oggetto di un accertamento tecnico, prodromico rispetto all’altro da eseguire poi sul reperto prelevato.
Infatti, come ha rilevato la Corte di cassazione, possono verificarsi situazioni in cui per la repertazione del campione biologico necessario agli accertamenti peritali si debba ricorrere a tecniche particolari e «[in] tal caso anche l’attività di prelievo assurge alla dignità di operazione tecnica non eseguibile senza il ricorso a competenze specialistiche e dovrà essere compiuta nel rispetto dello statuto che il codice prevede per la acquisizione della prova scientifica» (Corte di cassazione, sezione seconda, 27 novembre 2014, n. 2476/2015).
Del resto è significativo il fatto che, con la sentenza di annullamento all’origine del giudizio a quo (sezione prima, 4 novembre 2014, n. 6256/2015), la Corte di cassazione ha ritenuto che nel caso in esame si fosse trattato di «attività richiedente cognizioni certamente specifiche, ma esecutive e quindi non identificabile nell’accertamento tecnico irripetibile ai sensi dell’art. 360 c.p.p.». Per questa ragione, secondo la Corte di cassazione, «nessun avviso doveva essere dato in previsione della esecuzione dei prelievi delle tracce organiche (trattandosi di mero rilievo non comportante valutazioni)».
È dunque con un apprezzamento in concreto che il giudice di legittimità ha escluso l’applicabilità dell’art. 360 cod. proc. pen. e ha pronunciato quell’annullamento che il giudice rimettente vorrebbe ribaltare, sostenendo che il «prelievo di reperti utili per la ricerca del DNA» deve essere in ogni caso assimilato a un accertamento tecnico non ripetibile.
Questa tesi, come si è visto, non può, nella sua assolutezza, essere condivisa, e quindi, con riferimento, sia all’art. 24, sia all’art. 111 Cost., le questioni di legittimità costituzionale risultano infondate.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 360 del codice di procedura penale, «ove non prevede che le garanzie difensive previste da detta norma riguardano anche le attività di individuazione e prelievo di reperti utili per la ricerca del DNA», sollevate, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, dalla Corte d’assise d’appello di Roma, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 settembre 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 novembre 2017.