ORDINANZA N. 222
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 186 e 137 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, sezione fallimentare, nel procedimento vertente tra l’Azienda Agricola Il Tralcio di E. e L.F. e la Enofood Italia srl, con ordinanza del 28 ottobre 2015, iscritta al n. 279 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 27 settembre 2017 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera.
Ritenuto che il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, sezione fallimentare, con ordinanza del 28 ottobre 2015, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 35, primo comma, 38, secondo comma, e 41, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del «combinato disposto» degli artt. 137 e 186 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nei testi sostituiti, rispettivamente, dagli artt. 9, comma 10, e 17, comma 1, del decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80);
che, secondo l’ordinanza di rimessione, il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, con decreto del 3 luglio 2009, ha omologato il concordato preventivo proposto da una società a responsabilità limitata e, successivamente, uno dei creditori ne ha chiesto la risoluzione per inadempimento;
che, ad avviso del rimettente, il ricorso per la risoluzione del concordato preventivo è stato proposto nel termine stabilito dall’art. 186, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942 e sussisterebbe altresì la condizione prevista dal secondo comma di detta disposizione, e cioè un inadempimento di non «scarsa importanza»;
che, tuttavia, prosegue l’ordinanza di rimessione, «una volta rimosso il concordato preventivo», a seguito dell’accoglimento della domanda di risoluzione, poiché non sono stati proposti ricorsi per la dichiarazione di fallimento della società ammessa allo stesso, «la gestione dell’insolvenza» di quest’ultima «e l’amministrazione del suo patrimonio verrebbero rimesse, in mancanza di fallimento, ad una fase liquidatoria destrutturata e incoerente»;
che il Tribunale ordinario di Reggio Emilia dubita, quindi, della legittimità costituzionale del «combinato disposto» dei richiamati artt. 137 e 186, nella parte in cui «non prevede che, a seguito della pronuncia di risoluzione del concordato preventivo ad iniziativa di uno o più creditori, il tribunale possa dichiarare d’ufficio il fallimento dell’imprenditore, qualora non vi sia domanda in tal senso da parte dei creditori, del pubblico ministero o dello stesso debitore»;
che, secondo il rimettente, detto «combinato disposto» si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto la dichiarazione di fallimento determinerebbe «una vera e propria conversione della prima procedura nella seconda» e, conseguentemente, non sarebbe ragionevole «la soppressione totale del potere di dichiarare d’ufficio il fallimento dell’imprenditore» anche nel caso in esame, tenuto conto che «in altri settori dell’ordinamento le norme che disciplinano le procedure concorsuali che potremmo definire “speciali” sono rimaste invariate»;
che «l’irragionevolezza dell’impianto normativo» (e cioè degli artt. 137 e 186 del r.d. n. 267 del 1942) non sarebbe esclusa dall’attribuzione del potere di proporre ricorso per la dichiarazione di fallimento a coloro che sono legittimati a chiedere la risoluzione del concordato preventivo, perché questa Corte, nella sentenza n. 240 del 2003, ha ritenuto giustificato il potere del tribunale di dichiarare d’ufficio il fallimento, valorizzando «le prevalenti finalità pubblicistiche che caratterizzano la procedura fallimentare»;
che, in particolare, a suo avviso, assumerebbero rilievo: la previsione del potere del tribunale di disporre, anche d’ufficio, la conversione della procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza in fallimento (art. 69 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, recante «Nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell’art. 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274»; art. 4-bis, comma 11-bis, del decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347, recante «Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza», convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39); l’attribuzione, «nelle liquidazioni coatte amministrative cosiddette speciali, all’autorità amministrativa che sovraintende alla procedura» del potere di «disporre con decreto la liquidazione coatta amministrativa delle banche, anche quando ne sia in corso l’amministrazione straordinaria ovvero la liquidazione secondo le norme ordinarie», in presenza dei presupposti puntualmente stabiliti (art. 80, comma 1, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante «Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia», che detto potere conferisce al Ministro dell’economia e delle finanze, su proposta della Banca d’Italia), ovvero del potere di «disporre con decreto la revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività e la liquidazione coatta amministrativa delle SIM, delle società di gestione del risparmio, delle Sicav e delle Sicaf, anche quando ne sia in corso l’amministrazione straordinaria» (art. 57, comma 1, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, recante «Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52», il quale attribuisce tale potere al Ministero dell’economia e delle finanze, su proposta della Banca d’Italia o della CONSOB);
che, ad avviso del giudice a quo, è «ragionevole e coerente con i principi costituzionali che nelle procedure concorsuali destinate ad imprese di maggiori dimensioni» (quali sono quelle disciplinate dalle norme da ultimo, sopra richiamate) «il potere di conversione», anche dopo la riforma organica delle procedure concorsuali oggetto del r.d. n. 267 del 1942, sia stato attribuito o, più correttamente, sia stato mantenuto in capo all’autorità giudiziaria o amministrativa che sovraintende alle stesse, mentre non sarebbe ragionevole «la soppressione totale del potere» del tribunale di dichiarare d’ufficio il fallimento, qualora sia dichiarata la risoluzione per inadempimento del concordato preventivo che configurerebbe, «nella sostanza, una vera e propria conversione della prima procedura nella seconda;
che il censurato «combinato disposto» si porrebbe altresì in contrasto con l’art. 35, primo comma, Cost., poiché lederebbe il diritto dei lavoratori alla tutela del lavoro in tutte le sue forme, garantito anche dalla legge fallimentare, quando la stessa prevede, ad esempio, «che il trapasso dell’azienda debba avvenire anche “avuto riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali” (art. 104-bis della legge fall.)», nonché con l’art. 38, secondo comma, Cost., in quanto violerebbe il diritto dei lavoratori a che siano «preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di (...) disoccupazione involontaria», garantiti dalle norme concernenti la disciplina del rapporto di lavoro nel caso di apertura delle procedure concorsuali (è richiamata, esemplificativamente e genericamente, la legge 23 luglio 1991, n. 223, recante «Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro»);
che, secondo il rimettente il richiamato «combinato disposto» violerebbe anche l’art. 41, primo comma, Cost., in quanto sarebbe lesivo del diritto di iniziativa economica privata dei creditori concorrenti, «che comprende non solo il momento iniziale di scelta dell’attività, ma anche i successivi momenti del suo svolgimento e, dunque, la libertà di disporre dei beni destinati alla propria impresa, la libertà di investire i propri capitali in essa, la libertà di destinarli alla produzione o allo scambio di beni o servizi o all’acquisizione di ricchezza, la libertà contrattuale, il potere di organizzare il proprio processo produttivo»;
che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, nell’atto di intervento ed in una successiva memoria, che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata;
che, secondo l’interveniente, questa Corte, con la sentenza n. 184 del 2013, ha affermato che l’eliminazione del potere del tribunale di dichiarare d’ufficio il fallimento è coerente con il nostro ordinamento processuale civile che, sia pure in linea tendenziale e non senza qualche eccezione, è ispirato dal principio ne procedat judex ex officio;
che le fattispecie evocate dal rimettente quali tertia comparationis sono, inoltre, caratterizzate da profili di specialità che impediscono l’ipotizzata comparazione ed hanno realizzato un bilanciamento dei diversi interessi in gioco, spettante alla discrezionalità del legislatore, correttamente realizzato con il censurato art. 186, tenuto conto che alla procedura di concordato preventivo possono essere ammesse imprese di dimensioni inferiori a quelle richieste per accedere alla procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
Considerato che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 137 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo sostituito dall’art. 9, comma 10, del decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80), è manifestamente inammissibile, perché investe una disposizione inconferente;
che il vizio denunciato si anniderebbe, infatti, esclusivamente nella modalità del rinvio come realizzato dal censurato art. 186, il quale stabilisce che le disposizioni del richiamato art. 137, concernente la risoluzione del concordato fallimentare, sono applicabili alla risoluzione del concordato preventivo «in quanto compatibili»; conseguentemente, il dubbio di costituzionalità si incentra e ha ad oggetto esclusivamente la norma di rinvio (ordinanza n. 401 del 2001), sicché è esclusivamente in relazione a questa che vanno scrutinate le censure;
che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 186 del r.d. n. 267 del 1942, nel testo sostituito dall’art. 17, comma 1, del d.lgs. n. 169 del 2007, può ritenersi correttamente proposta quanto all’identificazione della norma impugnata (non incisa dalla denuncia, che si è detta manifestamente inammissibile, anche della norma rinviata) e, tuttavia, le censure sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., denunciandone l’irragionevolezza intrinseca e prospettando un’asserita disarmonia di sistema, sono manifestamente infondate;
che questa Corte, con la sentenza n. 240 del 2003, richiamata dal rimettente, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 8 del r.d. n. 267 del 1942, sollevata in riferimento all’art. 111 Cost., affermando che rientra «nella discrezionalità del legislatore riconoscere al giudice il potere officioso sopra descritto ovvero disporre che il giudice riferisca in ogni caso dell’insolvenza, perché si attivi, al pubblico ministero», senza dunque ritenere il carattere costituzionalmente imposto di una tale previsione;
che la successiva sentenza n. 184 del 2013 (non considerata dal giudice a quo) ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 76 e 77 Cost., dell’art. 4 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), che ha sostituito l’art. 6 del r.d. n. 267 del 1942 ed ha eliminato il potere del tribunale di dichiarare d’ufficio il fallimento, sottolineando che detta norma «risponde ad un criterio di coerenza interno al sistema», tenuto conto che «[i]l nostro ordinamento processuale civile è, sia pure in linea tendenziale e non senza qualche eccezione, ispirato dal principio ne procedat judex ex officio (sentenza n. 123 del 1970), così da escludere che in capo all’organo giudicante siano allocati anche significativi poteri di impulso processuale»;
che la coerenza della norma censurata con il novellato sistema della legge concorsuale fondamentale è stata rimarcata anche dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’abrogazione espressa del potere del tribunale di dichiarare d’ufficio il fallimento, nel caso di risoluzione del concordato preventivo, realizzata dall’art. 17, comma 1, del d.lgs. n. 169 del 2007, che ha modificato il citato art. 186, ha avuto «valore meramente ricognitivo di una abrogazione implicita che è stata indotta» dalla riformulazione dell’art. 6 del r.d. n. 267 del 1942, «in modo da rendere incompatibile la sopravvivenza dell’istituto nell’ambito della disciplina del concordato preventivo» (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 15 maggio 2015, n. 9934);
che sono, altresì, manifestamente infondate le censure con cui è denunciata l’irragionevolezza della norma, deducendo che nelle fattispecie sopra analiticamente descritte è tuttora previsto il potere del tribunale di disporre d’ufficio la conversione della procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza in fallimento, ovvero il potere del Ministro dell’economia e delle finanze di disporre (su proposta della Banca d’Italia) la liquidazione coatta amministrativa delle banche, anche quando ne sia in corso l’amministrazione straordinaria, oppure (su proposta della Banca d’Italia o della CONSOB) di revocare l’autorizzazione all’esercizio dell’attività e la liquidazione coatta amministrativa delle SIM, delle società di gestione del risparmio, delle Sicav e delle Sicaf, anche quando ne sia in corso l’amministrazione straordinaria;
che, infatti, è palese, come eccepito dall’interveniente, che le differenti discipline sono giustificate da un’evidente diversità delle fattispecie regolate, essendo diverse e non comparabili con il concordato preventivo sia la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (quanto, tra l’altro, ai presupposti soggettivi di ammissione, alla finalità ed al contenuto delle due procedure), sia le procedure di liquidazione coatta amministrativa (che, pacificamente, rivestono carattere di specialità ed alternatività rispetto al fallimento); quindi, dalla disomogeneità delle situazioni poste a raffronto discende la manifesta infondatezza della censura di violazione del principio di eguaglianza;
che, per altro verso, i tertia comparationis evocati dal rimettente neanche corrispondono ad un principio generale, rispetto al quale la disciplina denunciata rivesta un carattere ingiustificatamente derogatorio, come è invece necessario ai fini del giudizio sulla violazione del principio di eguaglianza (sentenza n. 132 del 2015);
che il giudice a quo ha invece omesso di fornire un’adeguata motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza delle censure riferite agli artt. 35, primo comma, 38, secondo comma, e 41, primo comma, Cost., essendosi, in sostanza, limitato ad affermarne apoditticamente la lesione, senza esplicitare le ragioni che – anche all’esito dell’esame (del tutto mancato) della complessa ed articolata disciplina stabilita a tutela dei lavoratori e della valutazione in ordine alla rilevanza della persistente legittimazione dei creditori a proporre ricorso di fallimento – dovrebbero confortarla, traducendosi tale carenza motivazionale nella conseguente manifesta inammissibilità delle censure (tra le molte, ordinanze n. 93 del 2016, e n. 52 del 2015).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle norme integrative per i giudizi avanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 137 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo sostituito dall’art. 9, comma 10, del decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80), sollevata, in riferimento agli articoli 35, primo comma, 38, secondo comma, e 41, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, sezione fallimentare, con l’ordinanza indicata in epigrafe;.
2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 186 del r.d. n. 267 del 1942, nel testo sostituito dall’art. 17, comma 1, del d.lgs. n. 169 del 2007, sollevata, in riferimento agli artt. 35, primo comma, 38, secondo comma, e 41, primo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 186 del r.d. n. 267 del 1942, nel testo sostituito dall’art. 17, comma 1, del d.lgs. n. 169 del 2007, sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 settembre 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Augusto Antonio BARBERA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 ottobre 2017.