ORDINANZA N. 225
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2-bis, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), aggiunto dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera m), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Torino nel procedimento penale a carico di S.F. ed altri con ordinanza del 15 dicembre 2014, iscritta al n. 44 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 ottobre 2015 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto che con ordinanza del 15 dicembre 2014 il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 10, 24, 77, 101, 104, 111, 112 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2-bis, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), aggiunto dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera m), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, in forza del quale, per i delitti di cui al medesimo decreto legislativo, l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale può essere chiesta dalle parti solo qualora ricorra l’attenuante prevista dai commi 1 e 2 dello stesso art. 13: ossia, solo se i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei predetti delitti – comprensivi delle sanzioni amministrative, ancorché non applicabili all’imputato in forza del principio di specialità – siano stati estinti, mediante pagamento, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado;
che il giudice a quo riferisce di essere investito del processo penale nei confronti di quattro persone, imputate del reato di associazione per delinquere costituita allo scopo di commettere reati tributari, nonché, in concorso tra loro, dei delitti tributari di cui agli artt. 2, 5, 8, 10-bis e 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000;
che nel corso dell’udienza preliminare i difensori degli imputati avevano chiesto l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.;
che il pubblico ministero, pur ritenendo congrue le pene richieste, non aveva prestato il proprio consenso a fronte della preclusione sancita dal censurato art. 13, comma 2-bis, del d.lgs. n. 74 del 2000, non essendo stati estinti i debiti tributari relativi ai fatti per cui si procede;
che il giudice a quo dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale della norma sotto plurimi profili;
che, a parere del rimettente, subordinando la facoltà di accesso al rito alternativo alla sollecita definizione di ogni pendenza con l’amministrazione finanziaria, la disposizione comprometterebbe, anzitutto, il diritto di azione del contribuente-imputato contro gli atti impositivi illegittimi, in violazione degli artt. 24, primo comma, e 113 Cost.;
che in presenza di errori nel computo dell’imposta evasa, degli interessi o delle sanzioni amministrative, l’imputato che non riesca a trovare un accordo con l’amministrazione finanziaria si troverebbe di fronte a una alternativa: o adire il giudice tributario per far valere il suo diritto, perdendo, però, la possibilità di fruire del “patteggiamento” nel procedimento penale, che intanto segue il suo corso; oppure pagare senza contestazioni le somme richieste dal fisco, al fine di beneficiare del rito premiale;
che in entrambi i casi sarebbe, peraltro, innegabile la frustrazione del diritto di difesa del contribuente-imputato;
che il dubbio di legittimità costituzionale non potrebbe essere superato neppure ipotizzando che l’immediato pagamento del debito tributario non pregiudichi la successiva tutela giurisdizionale contro le imposizioni illegittime;
che anche in questa prospettiva la preclusione del patteggiamento rappresenterebbe, comunque, un effetto negativo collegato ad una violazione della normativa tributaria non ancora accertata né in sede penale, né, di norma, nell’ambito del giudizio tributario: donde il contrasto della norma censurata tanto con il principio di inviolabilità del diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), che con i principi del giusto processo (art. 111, primo comma, Cost.);
che per espressa previsione normativa, inoltre, l’estinzione dei debiti fiscali può avvenire anche «a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie»: formula “aperta” che abbraccia la generalità delle forme di definizione agevolata dei rapporti tributari;
che in questo modo, peraltro, la disposizione censurata subordinerebbe le scelte della difesa alla «volontà discrezionale» dell’amministrazione finanziaria: soggetto che, ove non si costituisca parte civile – come nel caso di specie – non è parte del processo;
che la richiesta di “patteggiamento” rappresenterebbe, d’altronde, anche una delle modalità di esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero (art. 405, comma 1, cod. proc. pen.): con la conseguenza che la norma impugnata limiterebbe gli strumenti a disposizione della pubblica accusa per l’attuazione del principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.);
che facendo dipendere «la configurazione (e la deflazione)» del processo penale dagli esiti, anche non definitivi, «delle vicende amministrative o giudiziarie del debito tributario», la norma impugnata si porrebbe in contrasto, ancora, con gli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost.: il giudice penale sarebbe, infatti, soggetto non più soltanto alla legge, ma anche al procedimento amministrativo, e, specularmente, l’amministrazione finanziaria condizionerebbe l’esercizio delle funzioni della magistratura, non solo giudicante, ma anche requirente;
che la disposizione censurata genererebbe, ancora, ingiustificate disparità di trattamento tra imputati del medesimo reato, limitando il diritto di difesa dell’imputato non abbiente, il quale potrebbe vedersi precluso l’accesso al rito speciale per motivi legati alla propria condizione economica (artt. 3 e 24 Cost.);
che apparirebbe, inoltre, irragionevole che solo l’imprenditore imputato, potendo procedere alla definizione dei debiti tributari originati dalla propria attività d’impresa, sia in grado di porre le premesse per accedere al “patteggiamento”, diversamente dai coimputati estranei all’impresa, ai quali sarebbe precluso attivare le procedure di estinzione dei debiti tributari;
che risulterebbe violato, poi, l’art. 10 Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, che riconosce il diritto ad un equo processo, nonché in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 a detta Convenzione, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98, concernente l’estensione della lista dei diritti civili e politici, che prevede il diritto a non essere giudicati o puniti due volte per lo stesso fatto (ne bis in idem): ciò, tenuto conto dell’interpretazione “sostanzialistica” del concetto di «stesso fatto» offerta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo;
che, infatti, dovendo l’estinzione del debito tributario riguardare, ai sensi dell’art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 74 del 2000, anche le sanzioni amministrative, benché non applicabili all’imputato in forza del principio di specialità sancito dall’art. 19, comma 1, la norma censurata consentirebbe di applicare, per lo stesso fatto, tanto sanzioni amministrative che sanzioni penali;
che si riscontrerebbe, infine, un difetto di omogeneità tra la disposizione denunciata – introdotta dalla legge n. 148 del 2011 in sede di conversione del decreto-legge n. 138 del 2011 – e i contenuti originari del decreto-legge convertito, tale da interrompere quel nesso di interrelazione funzionale tra i due atti che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, è presupposto dall’art. 77, secondo comma, Cost.;
che il citato decreto-legge è stato, infatti, emanato – alla luce del suo preambolo – «per la stabilizzazione finanziaria e per il contenimento della spesa pubblica al fine di garantire la stabilità del Paese con riferimento all’eccezionale situazione di crisi internazionale e di instabilità dei mercati e per rispettare gli impegni assunti in sede di Unione Europea, nonché di adottare misure dirette a favorire lo sviluppo e la competitività del Paese e il sostegno dell’occupazione»;
che la censurata limitazione del patteggiamento non potrebbe, di contro, perseguire fini di «stabilizzazione finanziaria», giacché la determinazione del debito tributario da parte dell’amministrazione finanziaria e il suo pagamento ad opera dell’imputato non comporterebbero né un accertamento definitivo della ragione creditoria, né la definitiva acquisizione al fisco delle somme versate;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.
Considerato che il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Torino dubita, in riferimento a numerosi parametri, della legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2-bis, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), aggiunto dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera m), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, il quale stabilisce che, per i delitti di cui al medesimo decreto legislativo, le parti possono accedere al “patteggiamento” solo ove ricorra l’attenuante prevista dai commi 1 e 2 dello stesso art. 13, e, cioè, solo se
i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei predetti delitti – comprensivi delle sanzioni amministrative, ancorché non applicabili all’imputato in forza del principio di specialità – siano stati estinti, mediante pagamento, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado;
che, successivamente all’ordinanza di rimessione, è intervenuto il decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 7 ottobre 2015, serie generale n. 233, supplemento ordinario n. 55, che ha apportato un ampio complesso di modifiche al sistema sanzionatorio tributario, tanto penale che amministrativo;
che l’applicazione della nuova disciplina è stata differita al 1° gennaio 2017 unicamente in rapporto alle disposizioni del Titolo II, attinenti alle sanzioni amministrative (art. 32, comma 1, del d.lgs. n. 158 del 2015): sicché le nuove norme penali – che qui interessano – sono entrate in vigore il 22 ottobre 2015, decorso l’ordinario termine di vacatio legis;
che l’art. 11 del citato decreto legislativo ha integralmente sostituito l’art. 13 del d.lgs. n. 74 del 2000, il quale risulta attualmente dedicato alla disciplina dei casi nei quali il pagamento del debito tributario, già configurato come circostanza attenuante speciale, assurge a causa di non punibilità;
che la disposizione limitativa dell’accesso al “patteggiamento” è stata, quindi, trasferita nel comma 2 del nuovo art. 13-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, aggiunto dall’art. 12 del d.lgs. n. 158 del 2015;
che la nuova disposizione non è, peraltro, identica alla precedente, sottoposta a scrutinio dal rimettente: così come non lo è la disciplina, da essa richiamata, della circostanza attenuante speciale del risarcimento del danno, ora dislocata nel comma 1 del citato art. 13-bis (disciplina che assume un carattere residuale rispetto alle ipotesi nelle quali il pagamento del debito tributario esclude in radice la punibilità del fatto);
che le due discipline – vecchia e nuova – differiscono tra loro per un insieme di particolari: spetta, pertanto, al rimettente verificare se, e in quale misura, lo ius superveniens incida sulla rilevanza della questione e sulle singole censure formulate;
che va, dunque, disposta la restituzione degli atti al giudice a quo, per una nuova valutazione in ordine alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza della questione alla luce del mutato quadro normativo.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
ordina la restituzione degli atti al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Torino.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 ottobre 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 novembre 2015.