ORDINANZA N. 112
ANNO 2012
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Franco GALLO Giudice
- Luigi MAZZELLA ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), promosso dalla Corte d’appello di Potenza, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra A. S. e l’E. B. s.p.a., con ordinanza del 9 giugno 2011, iscritta al n. 250 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 marzo 2012 il Giudice relatore Luigi Mazzella.
Ritenuto che la Corte d’appello di Potenza, sezione lavoro, con ordinanza del 9 giugno 2011, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, con riferimento agli articoli 3, 4, 24, 111 e 117 della Costituzione, dell’articolo 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro);
che il rimettente espone in punto di fatto che con sentenza n. 50 in data 23 febbraio 2010 il Tribunale di Potenza, in funzione di giudice del lavoro, respingeva la domanda – proposta da A. S. con ricorso in data 6 marzo 2008 – avente ad oggetto la declaratoria di nullità della clausola appositiva del termine ai contratti di lavoro subordinato stipulati con la società per azioni E. B. in date 10 gennaio 2000 e 27 aprile 2000; che avverso tale decisione il lavoratore interponeva gravame chiedendo l’accoglimento delle domande, originariamente proposte, di accertamento e declaratoria della nullità del termine apposto ai contratti di lavoro subordinato stipulati inter partes con decorrenze 10 gennaio 2000 e 27 aprile 2000, con conseguente instaurazione di un unico ed ininterrotto rapporto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato a far data dal primo contratto ovvero, in subordine, dal secondo, e di condanna della società resistente, ora appellata, alla riammissione in servizio dalla data di cessazione del rapporto o, in subordine, dalla data dell’offerta delle prestazioni, nonché al pagamento in suo favore di tutte le retribuzioni mensili arretrate, anche a titolo di risarcimento danni, con decorrenza dalla scadenza del termine del primo contratto, ovvero, in subordine, del secondo ovvero, in via ulteriormente gradata, dalla data del tentativo di conciliazione, nonché alla copertura contributiva in favore del ricorrente per il periodo di mancata prestazione lavorativa; che nella pendenza del giudizio, il 24 novembre 2010, entrava in vigore la legge n. 183 del 2010; che in base alle censurate disposizioni dell’art. 32, in caso di accoglimento del gravame e, quindi, di riforma dell’impugnata decisione in ordine alla declaratoria di nullità della clausola, la condanna al risarcimento del danno da emettere a carico del datore di lavoro in favore del lavoratore avrebbe dovuto essere commisurata, non già, come richiesto, al monte retributivo maturato da quest’ultimo dalla data di notifica dell’atto di costituzione in mora del creditore all’effettiva riammissione in servizio, bensì, con una limitazione quantitativa della pretesa avanzata, ad una «indennità onnicomprensiva […] tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604» (indennità secondo alcuni comprensiva anche del credito previdenziale ed assistenziale);
che, in diritto, il giudice a quo, ritenute le norme censurate rilevanti ai fini del decidere, osserva, con riferimento alla non manifesta infondatezza, che la normativa sospettata d’illegittimità – peraltro limitatamente alla sua applicabilità ai giudizi pregressi, in quanto immuni dal termine di decadenza previsto per quelli da instaurare in futuro – violerebbe i seguenti parametri costituzionali: «a) l’art. 3 Cost. per l’evidente irragionevolezza di limitare il risarcimento del danno a carico della parte che alla nullità non abbia dato causa, senza aver prima apprestato le cautele necessarie a limitare i tempi fonte di quei danni; b) gli artt. 24 e 111 Cost. per lesione dell’effettività della tutela giurisdizionale, a suo avviso divenuta ex lege non integralmente risarcitoria senza giustificazione alcuna; c) l’art. 4 per la menomazione della tutela del diritto al lavoro, secondo alcuni anche con “estinzione” del credito previdenziale; d) l’art. 111 Cost. nella misura in cui il principio del giusto processo sia applicabile anche alla fase introduttiva del giudizio e quindi alle misure acceleratorie dei tempi di reazione alla condotta ritenuta illegittima; e) l’art. 117, primo comma, Cost. con l’interposizione dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 5 agosto 1955, n. 848, per denunciata insussistenza delle ragioni di interesse generale tali da giustificare una siffatta incidenza del potere legislativo nella giurisdizione, essendo la norma applicabile solo a casi specifici (contratti di lavoro a tempo determinato convertiti) e a determinati giudizi (quelli introdotti prima della sua entrata in vigore), esclusivamente nell’àmbito di rapporti di diritto privato e senza efficacia di sanatoria di situazioni, ancorché irregolari, comunque riconducibili ad interessi socialmente rilevanti, così da risolversi a favore del datore di lavoro, non solo comunemente ritenuto contraente forte, ma soprattutto autore della clausola nulla»;
che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la inammissibilità e/o manifesta infondatezza della questione.
Considerato che il collegio rimettente censura l’articolo 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), per violazione degli artt. 3, 4, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione;
che tali disposizioni, applicabili anche ai giudizi in corso ai sensi del successivo comma 7, prevedono che (comma 5) nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro a risarcire il lavoratore in ragione di un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) e che (comma 6), in presenza di contratti collettivi di qualsiasi livello, purché stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che contemplino l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo della suddetta indennità è ridotto alla metà;
che questa Corte, con la sentenza n. 303 del 2011, successiva all’atto di promovimento dell’odierno giudizio, ha dichiarato la non fondatezza di questioni pressoché identiche a quelle in esame, ora essenzialmente incentrate dalla Corte rimettente sulla legittimità dell’efficacia retroattiva della nuova normativa nei giudizi pendenti, perché in tesi riduttiva del risarcimento del danno conseguibile dal lavoratore secondo il diritto comune senza alcuna giustificazione a suo avviso plausibile;
che nella recente pronuncia da ultimo citata questa Corte ha escluso il denunciato contrasto delle disposizioni anche oggi censurate, altresì in quanto applicabili ai giudizi in corso, rispetto a tutti i parametri costituzionali qui nuovamente evocati;
che, in particolare, questa Corte ha preliminarmente chiarito – contro la denunciata irragionevolezza ex art. 3 Cost. del trattamento indennitario forfetizzato introdotto dalla riforma in oggetto per tutti i giudizi, instaurati ed instaurandi – che la ratio della novella va ricercata nell’esigenza di superare, mediante «un criterio di liquidazione di più agevole, certa ed omogenea applicazione», le obiettive incertezze registratesi nell’esperienza applicativa dei princìpi di commisurazione del danno alla stregua della legislazione previgente, specie in punto di aliunde perceptum da porre in detrazione dal pregiudizio in concreto risarcibile, che avevano dato luogo ad esiti risarcitori ingiustificatamente differenziati in misura eccessiva;
che, quindi, questa Corte ha rilevato che l’indennità prevista dall’art. 32, commi 5 e 6, della legge n. 183 del 2010 integra la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato (foriera della tutela più “forte” che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario) e che essa è dovuta in ogni caso (non essendo ammessa la detrazione dell’aliunde perceptum), con la conseguenza di delineare un regime risarcitorio, sotto tale profilo, più favorevole al lavoratore rispetto a quello previgente;
che, in ultima analisi, questa Corte ha, dunque, ritenuto la normativa impugnata, nondimeno, rispetto a tutte le situazioni già dedotte ad oggetto di giudizi pendenti, complessivamente adeguata a comporre equilibratamente i contrapposti interessi del lavoratore e del datore di lavoro, assicurando al primo, con la massima garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, un’indennità sempre e comunque sganciata dalla necessità dell’offerta della prestazione e da oneri probatori di sorta;
che, di conseguenza, diversamente da quanto opinato dal giudice a quo, l’indennità onnicomprensiva in oggetto – secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata fornita da questa Corte – non può dirsi sproporzionata a sfavore del lavoratore neppure sul versante dei giudizi in corso;
che a tale conclusione non ostano né la carenza di un termine per l’esercizio dell’impugnativa del lavoratore, a pena di decadenza, né la mancanza di meccanismi alternativi di composizione dei conflitti, come la conciliazione (ancorché non più obbligatoria) e l’arbitrato, di contro previsti dalla disciplina “a regime” e valorizzati dalla Corte territoriale rimettente onde giustificare la forfetizzazione del danno solamente per l’avvenire;
che, infatti, sotto il primo profilo, la stessa normativa previgente conosceva strumenti deflattivi intesi ad una più sollecita definizione del contenzioso, come il filtro della conciliazione, allora obbligatoria ed ora meramente facoltativa (come ricordato dal giudice a quo), mentre non è affatto certo che l’arbitrato, ammesso che sia applicabile alle controversie in subiecta specifica materia ai sensi dell’art. 31, comma 10, della legge n. 183 del 2010, assicuri, di per sé solo, una più rapida soluzione delle vertenze di lavoro;
che, quanto poi al termine decadenziale per la proposizione delle domande giudiziali successive alla novella, il lavoratore, pur non astretto da decadenze di sorta, era, comunque, onerato ad attivarsi tempestivamente per ridurre il danno anche sotto l’impero della normativa previgente (argomento ex art. 1227 del codice civile), tant’è che proprio le condotte sotto tale aspetto attendiste, variamente interpretate in giurisprudenza, hanno reso plausibile un rimedio di più chiara ed univoca applicazione come quello in esame;
che, d’altro canto, in ordine alla dedotta incongruenza della mancata predisposizione delle «cautele necessarie a limitare i tempi fonte di quei danni», questa Corte ha già spiegato le divaricazioni dei risarcimenti attingibili nei singoli casi, a fronte dell’incontrollabilità della durata del processo (di cui dà atto lo stesso giudice a quo), come inconvenienti solo eventuali e di mero fatto, dunque, irrilevanti – secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale – ai fini del presente giudizio di legittimità;
che, inoltre, con riguardo alla prospettata lesione dell’art. 4 Cost., questa Corte ha una volta di più ribadito, sempre nella menzionata sentenza n. 303 del 2011, che «resta affidata alla discrezionalità del legislatore la scelta dei tempi e dei modi di attuazione della garanzia del diritto al lavoro», in questo caso, oltre tutto, da realizzarsi «mediante la sancita “conversione” del contratto di lavoro», mentre il presunto sacrificio della copertura contributiva, peraltro indirettamente adombrato dal collegio rimettente senza una più chiara specificazione dell’assunto, non è propriamente riconducibile alla sfera costituzionale del “diritto al lavoro”;
che questa Corte, altresì, ha disconosciuto l’incompatibilità delle disposizioni in oggetto con l’art. 24 Cost. – con cui, nella impostazione del giudice a quo, fa corpo l’art. 111, secondo comma, Cost. – sul fondamento che in questa sede rileva la disciplina sostanziale delle conseguenze dell’illegittima apposizione di un termine al contratto di lavoro in tema di risarcimento del danno sofferto del lavoratore, mentre, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, il presidio costituzionale in discorso attiene al diritto alla tutela giurisdizionale (sentenza n. 419 del 2000);
che, ancora con specifico riguardo alla denunciata violazione dell’art. 111 Cost., per difetto di «misure acceleratorie dei tempi di reazione alla condotta ritenuta illegittima», è da escludere che il principio costituzionale della durata ragionevole del processo addirittura imponga la prescrizione di termini decadenziali (o di altri meccanismi equivalenti) intesi a sollecitare l’esercizio dell’azione;
che questa Corte, infine, ha ulteriormente negato che la retroattività del regime semplificato di liquidazione del danno dettato dall’art. 32, commi 5 e 6, della legge n. 183 del 2010 – come disposta dal successivo comma 7 – abbia prodotto un’ingerenza illecita del legislatore nell’amministrazione della giustizia, tale da alterare la soluzione di una o più controversie a beneficio di una parte, tanto meno pubblica, in violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. per il tramite dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 5 agosto 1955, n. 848, e ciò, innanzitutto, perché la innovativa disciplina in questione è di carattere generale e, in ogni caso, perché è sorretta, con riferimento alla giurisprudenza della Corte EDU, da ragioni giustificative di utilità generale, nella specie ancorate al « […] bisogno di certezza dei rapporti giuridici tra tutte le parti coinvolte nei processi produttivi, anche al fine di superare le inevitabili divergenze applicative cui aveva dato luogo il sistema previgente»;
che, pertanto, non essendo state addotte, dal giudice a quo, ragioni sostanzialmente nuove o significativamente diverse da quelle già scrutinate nella sentenza n. 303 del 2011, tutte le questioni proposte devono essere dichiarate manifestamente infondate.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), sollevate, in riferimento agli articoli 3, 4, 24, 111 e 117 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Potenza, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 aprile 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Luigi MAZZELLA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 3 maggio 2012.