ORDINANZA N. 239
ANNO 2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Paolo MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO “
- Franco GALLO “
- Luigi MAZZELLA “
- Gaetano SILVESTRI “
- Sabino CASSESE “
- Giuseppe TESAURO “
- Paolo Maria NAPOLITANO “
- Giuseppe FRIGO “
- Alessandro CRISCUOLO “
- Paolo GROSSI “
- Giorgio LATTANZI “
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 4, del codice di procedura penale promosso dal Tribunale di Catanzaro, sezione del riesame, nel procedimento penale a carico di P. R. con ordinanza del 24 novembre 2010, iscritta al n. 25 del registro ordinanze 2011, e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 22 giugno 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.
Ritenuto che il Tribunale di Catanzaro, sezione del riesame, con ordinanza del 24 novembre 2010, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 32 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 4, del codice di procedura penale, nella parte in cui «non prevede che non può essere disposta la custodia cautelare in carcere quando imputata sia la madre di un figlio minore invalido al 100%, con lei convivente, che necessiti della costante presenza della madre»;
che il rimettente riferisce di doversi pronunciare in ordine all’appello proposto dai difensori di P. R. avverso l’ordinanza, emessa il 30 settembre 2010, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro, con la quale è stata respinta l’istanza per la revoca o sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere, adottata nei confronti dell’indagata;
che, in particolare, il Tribunale espone che, con ordinanza n. 2367/09 R.G., il Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale ha disposto l’applicazione a carico di P. R. della indicata misura, perché gravemente indiziata dei reati di cui agli artt. 73 e 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza);
che avverso tale ordinanza la difesa di P. R. ha proposto istanza di riesame, ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., istanza che, all’esito dell’udienza camerale del 5 gennaio 2010, è stata respinta;
che con successiva istanza, formulata ai sensi dell’art. 299 cod. proc. pen., i difensori di P. R. hanno presentato richiesta di revoca o sostituzione della misura in atto;
che all’istanza è stata allegata una relazione medica del dirigente dell’Unità operativa neuropsichiatria infantile – ASP – di Catanzaro, in data 9 agosto 2010, relativa alle condizioni di salute del figlio minore della donna, nella quale si afferma che la maturità psicofisica di detto minore, per le deficienze intellettive da cui è affetto, corrisponde a quella di un bambino di età inferiore ad anni tre;
che, alla luce di tale documentazione, i difensori dell’indagata hanno sostenuto che, nel caso di specie, dovrebbe trovare applicazione la disciplina di cui all’art. 275, comma 4, cod. proc. pen.;
che il giudice per le indagini preliminari, acquisito il parere negativo del pubblico ministero, ha respinto l’istanza con l’ordinanza oggetto di impugnazione;
che avverso tale provvedimento i difensori hanno proposto appello, con il quale hanno censurato la pronuncia di rigetto riproponendo le argomentazioni già dedotte a sostegno dell’istanza de libertate e contestando l’interpretazione del giudice di prime cure, il quale ha ritenuto di non ricondurre il caso in esame nel novero delle ipotesi di cui al comma 4 dell’art. 275 cod. proc. pen.;
che, al riguardo, il rimettente riferisce le argomentazioni difensive dirette a sostenere la riconducibilità della fattispecie oggetto del giudizio a quo in quelle previste dalla norma ora citata, basate sull’assunto che la deficienza intellettiva del minore, convivente con la prevenuta, lungi dal costituire un caso analogo, rappresenterebbe una situazione identica a quella contemplata dalla norma che sancisce il divieto di applicazione della custodia cautelare in carcere nei soli casi di donna incinta o di madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente, ovvero nei confronti del padre, laddove la madre sia deceduta o sia assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole;
che da ciò, ad avviso della difesa, dovrebbe dedursi che il legislatore abbia inteso tutelare l’età evolutiva e non il dato anagrafico, sicché andrebbero riconosciuti la funzione sociale della maternità ed il rilievo dell’inserimento della donna nella famiglia, nonché andrebbe affermata l’esigenza della quotidiana partecipazione della madre alla cura ed alla assistenza morale e materiale della prole disabile, consentendo una condizione esistenziale rispettosa della dignità umana e dei diritti di libertà e di autonomia del soggetto disabile;
che il rimettente, poi, espone che, all’udienza camerale del 26 ottobre 2010, fissata per la trattazione del ricorso, assente l’indagata, la difesa ha prodotto documentazione attestante lo stato detentivo di B. S. (marito dell’indagata e padre di D.), una relazione medico-legale redatta da un consulente di parte in data 27 luglio 2010 e una nota dello stesso sanitario del 22 ottobre 2010, concludendo per l’accoglimento dell’appello;
che, nel corso della discussione, il difensore dell’indagata ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., con riferimento agli articoli 3, 29, 30 e 31 Cost., nella parte in cui la norma censurata non prevede il divieto di applicazione della custodia cautelare in carcere, quando imputata sia madre (o padre, in caso di impossibilità della prima) di prole con lei convivente, portatore di handicap totalmente invalidante;
che, in punto di non manifesta infondatezza, il collegio rimettente ritiene che l’atto di appello in questione sia diretto ad ottenere, in vigenza della presunzione di adeguatezza della misura carceraria ai sensi dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., la concessione della detenzione domiciliare, al fine di consentire all’indagata di prestare effettiva assistenza psico-fisica nei confronti del figlio minore portatore di handicap, accertato come totalmente invalidante. Tale possibilità, però, non sarebbe prevista dalle norme vigenti;
che al riguardo il giudice a quo rileva come l’indagata sia sottoposta alla misura della custodia in carcere per il reato di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, quindi per una fattispecie delittuosa ricompresa tra quelle previste dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. in relazione alle quali, in presenza di esigenze cautelari di cui all’art. 274 cod. proc. pen., il legislatore ha previsto – in deroga all’ordinario potere discrezionale del giudice di valutare e scegliere quale sia la misura cautelare proporzionata ai fatti concreti ed adeguata a tutelare le esigenze cautelari – una presunzione di adeguatezza della massima misura di rigore;
che detta presunzione, salvo essere superata dalla valutazione circa l’assenza di esigenze cautelari, è derogabile soltanto nelle tassative ipotesi previste dalla medesima norma, di seguito indicate: 1) se l’imputata sia donna incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole; 2) se imputata sia persona che abbia superato l’età di settanta anni; 3) se imputata sia persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell’art. 286-bis, comma 2, cod. proc. pen.; 4) se imputata sia persona affetta da altra malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e, comunque, tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere;
che, ad avviso del giudice a quo, attraverso la previsione delle dette ipotesi, il legislatore ha inteso codificare il principio di attenuazione della custodia cautelare in carcere nei confronti di quelle persone che si trovano «in particolari condizioni soggettive che di per sé sconsiglierebbero la restrizione in carcere»;
che le ipotesi innanzi indicate, seppure differenti, presenterebbero – ad avviso del collegio – un comune denominatore, ravvisabile nella necessità di garantire la protezione di soggetti deboli non necessariamente coincidenti con il destinatario esclusivo della misura cautelare;
che, infatti, nel primo caso il beneficiario della previsione normativa sarebbe il minore di età inferiore ai tre anni, convivente, per assicurare la tutela del quale il legislatore avrebbe prescritto il divieto di custodia cautelare in carcere della madre, ovvero del padre qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a prestargli assistenza, onde si tratterebbe di ipotesi tassative e non suscettibili di interpretazione analogica;
che, in proposito, il rimettente ricorda la giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale, con più pronunzie, ha affermato che, in tema di provvedimenti coercitivi, il divieto di disporre la custodia cautelare in carcere, previsto dall’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., costituendo norma eccezionale, non è applicabile estensivamente ad altre ipotesi non espressamente contemplate ed ha carattere eccezionale, sicché ne è preclusa l’applicazione a casi analoghi;
che, inoltre, il rimettente riferisce che i giudici di legittimità hanno evidenziato, occupandosi di un caso analogo a quello in esame, che «in tema di provvedimenti coercitivi, la “ratio” della limitazione al potere del giudice di scegliere la misura cautelare personale, introdotta dall’art. 5 legge 8 agosto 1995, n. 332», che ha modificato l’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., secondo cui non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo casi eccezionali, quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età inferiore ai tre anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, va individuata nell’avvertita esigenza di garantire ai figli l’assistenza familiare in un momento particolarmente significativo e qualificante della loro formazione fisica e, soprattutto psichica, qual è quello fino ai tre anni, giacché con il superamento di tale limite di età può, considerarsi concluso il primo e il più importante ciclo formativo ed aperto uno nuovo, nel quale le esigenze della prole possono essere soddisfatte da un qualsiasi altro congiunto ed, all’occorrenza, dai pubblici istituti a ciò deputati. Non è pertanto consentito interpretare estensivamente la norma fino a ricomprendere nel divieto ivi previsto ulteriori ipotesi, non espressamente contemplate, in cui si deduca la necessità, da parte dell’indagato, di prestare assistenza a familiari diversi da quelli indicati nella disposizione predetta» (Corte di cassazione, sez. II, sentenza 14 febbraio 1996, n. 795);
che il rimettente, inoltre, prosegue osservando come la scelta del legislatore, di ancorare la possibilità di applicare la misura cautelare degli arresti domiciliari al limite (convenzionale) fissato in tre anni di età del figlio ed al presupposto della convivenza, impedirebbe di seguire l’interpretazione estensiva invocata dal difensore dell’indagata;
che, pertanto, superato tale limite di età, in considerazione del fatto che lo Stato dovrebbe offrire le provvidenze legislative a favore ed a sostegno della genitorialità (anche attraverso il ricorso ad istituti sostitutivi ed economici, quali asili nido, o scuole dell’infanzia pubbliche e private convenzionate con il sistema pubblico), non sarebbe invocabile l’applicazione della norma anche nell’ipotesi in cui il minore sia, per il suo stato di portatore di handicap totalmente invalidante, incapace di provvedere da solo alle più elementari esigenze quotidiane ed anche se, da un punto di vista mentale (ma non anagrafico), si possa equiparare ad un minore di anni tre;
che il Tribunale, dunque, alla luce delle argomentazioni esposte, ritiene che la disciplina vigente, siccome finalizzata alla tutela e protezione di determinate categorie di soggetti “deboli”, sia in contrasto con il principio di uguaglianza e di ragionevolezza, in quanto contemplerebbe un trattamento difforme in ordine a situazioni familiari analoghe ed equiparabili tra loro, quali sono quella della madre di un figlio minore di anni tre e quella della madre di un figlio disabile e totalmente incapace di provvedere da solo anche alle più elementari esigenze: quest’ultimo, ancorché maggiore degli anni tre, avrebbe necessità di essere assistito dalla madre allo stesso modo di un bambino di età inferiore agli anni tre;
che il giudice a quo si sofferma sull’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità (sopra richiamato) circa la ratio della limitazione al potere del giudice di scegliere la misura cautelare personale, introdotta dall’art. 5 della legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa). Tuttavia, ritiene che, se essa fosse la ratio esclusiva della previsione normativa, allora sarebbe ragionevole la scelta del legislatore di escludere dalla previsione normativa stessa l’ipotesi in cui imputata sia madre di figlio maggiore di tre anni, totalmente e permanentemente invalido, perché oltre tale limite (discrezionalmente fissato dal legislatore) non vi sarebbe più necessità della presenza materna, dovendosi considerare già compiuta la fase iniziale dello sviluppo psico-fisico del minore e possibile il ricorso, anche in via esclusiva, a strutture a sostegno della genitorialità;
che, ad avviso del collegio, la disposizione impugnata dovrebbe essere considerata alla luce del più generale contesto in cui essa è inserita, con la conseguenza che, nella valutazione della scelta legislativa, non si potrebbe prescindere, da un lato, dalla finalità di assicurare il ricongiungimento tra madre e figlio incapace, e, dall’altro, da quello che è il comune denominatore delle ipotesi previste dai commi 4 e 4-bis dell’art. 275 cod. proc. pen., ossia la tutela e la protezione di determinate categorie di soggetti deboli;
che, peraltro, tale esigenza sarebbe sottesa anche alla disposizione che vieta l’applicazione della misura carceraria alla madre di prole di età inferiore a tre anni;
che ciò si desumerebbe anche dalla evoluzione normativa delle ipotesi derogatorie, previste dall’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., giacché ad un ampliamento dei casi di accessibilità alla misura degli arresti domiciliari, in deroga alla presunzione di adeguatezza del comma 3, determinato dalle modifiche apportate dalla legge n. 332 del 1995 e dalla legge 12 luglio 1999, n. 231 (Disposizioni in materia di esecuzione della pena, di misure di sicurezza e di misure cautelari nei confronti dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria o da altra malattia particolarmente grave), avrebbe corrisposto, quanto alla tutela della genitorialità, l’inserimento di un parametro convenzionale, quale è quello dell’età della prole, sostituendo l’originaria previsione (donna che allatta la prole) con l’attuale, ancorata al limite dei tre anni, secondo una tendenza alimentata da spirito di favore verso le esigenze di sviluppo e formazione del bambino;
che, invero, il soddisfacimento di tali esigenze potrebbe essere gravemente pregiudicato dall’assenza della figura genitoriale;
che, però, così interpretata, la norma censurata introdurrebbe, in modo ingiustificato ed irragionevole, un trattamento peggiore nei confronti dell’indagata madre di figli minori conviventi che, pur essendo di età superiore ai tre anni, siano affetti da handicap invalidanti che impediscono loro di adempiere alle più elementari esigenze di vita, al pari del minore di anni tre;
che, ad avviso del rimettente, la salute psico-fisica del figlio portatore di handicap potrebbe essere notevolmente pregiudicata dall’assenza della madre, ristretta in regime cautelare carcerario, e dalla mancanza di cure da parte di questa, non essendo indifferente per il disabile grave, a qualsiasi età, che le cure e l’assistenza siano prestate da persone diverse dal genitore;
che, sotto tale profilo, il giudice a quo ritiene che la possibilità di applicare la misura cautelare degli arresti domiciliari al genitore indagato, convivente con figlio minore «totalmente handicappato», risulterebbe funzionale all’impegno della Repubblica, sancito nell’art. 3, secondo comma, Cost., volto a rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che impediscono il pieno sviluppo della personalità, oltre che funzionale all’impegno della Repubblica di tutelare, anche nel contesto della famiglia nucleare, la salute come fondamentale diritto dell’uomo;
che, sul punto, verrebbero in rilievo: 1) l’esigenza di favorire la socializzazione del soggetto disabile, presa in considerazione dal legislatore sin dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), che ha predisposto strumenti rivolti ad agevolare il suo pieno inserimento nella famiglia, nella scuola e nel lavoro; 2) il particolare ruolo della famiglia nella socializzazione del soggetto debole, che, nel caso in esame, rileverebbe sotto il profilo della tutela del minore disabile; 3) l’esigenza di tutelare e garantire il diritto alla salute del minore disabile consentendo adeguate cure in un contesto protetto, quale è quello familiare;
che, alla luce di tali considerazioni, secondo il rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza, prevedendo «un sistema rigido che preclude al giudice, ai fini della concessione della misura cautelare della detenzione domiciliare, di valutare l’esistenza delle condizioni necessarie per un’effettiva assistenza psico-fisica da parte della madre indagata nei confronti del figlio minore portatore di handicap accertato come totalmente invalidante»;
che ciò, inoltre, determinerebbe, come già prima evidenziato, un trattamento difforme rispetto a situazioni analoghe ed equiparabili;
che, ancora, il Tribunale ritiene che la questione di legittimità costituzionale sia senz’altro rilevante nel procedimento in corso (tra l’altro) per le seguenti motivazioni:
1) l’indagata, madre convivente del minore B. D. di anni sette, è detenuta in regime di custodia cautelare in carcere per i reati di cui agli artt. 74 e 73 del d.P.R. n. 309 del 1990;
2) il minore è in condizioni di invalidità assoluta, equiparabile alla invalidità al 100 per cento, in base alle risultanze della relazione medica in data 27 luglio 2010 del consulente tecnico di parte, secondo cui il quadro clinico del minore «è certamente rappresentativo di un Ritardo Mentale di grado Grave con marcata compromissione del linguaggio espressivo e della comprensione»; «il piccolo D. non soltanto non espleta le funzioni e gli atti tipici della propria età ma è del tutto dipendente da terzi nell’assolvimento degli atti quotidiani della vita dai più semplici ai più complessi»;
3) con la relazione del dirigente dell’Unità operativa neuropsichiatria infantile – ASP – di Catanzaro del 9 agosto 2010, si certifica, tra l’altro, che «le abilità inerenti la cura e l’igiene della persona, ossia del minore B. D., non sono confacenti all’età (non ha acquisito il controllo degli sfinteri), non essendo in grado di svolgere autonomamente le principali funzioni della vita quotidiana»;
4) B. S., marito dell’indagata, nonché padre del minore, è anch’esso ristretto in carcere per i medesimi reati nell’ambito dello stesso procedimento penale;
che, infine, il Tribunale richiama la relazione del consulente di parte in data 27 luglio 2010, nella quale si attesta che «il piccolo D. nonostante abbia vissuto gli ultimi 7 mesi, dalla precedente valutazione, in un ambiente protetto e familiare, nel cui contesto era contornato da figure a lui note poiché suoi diretti congiunti (nonni, sorelle, zie) ha manifestato un severo peggioramento delle proprie abilità cognitive e comportamentali», ribadendo la rilevanza della questione, in quanto, per provvedere sull’appello, è necessario fare applicazione della norma censurata;
che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato in data 1° marzo 2011, ed ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata;
che, al riguardo, la difesa statale osserva che la ratio giustificativa della disposizione censurata sarebbe quella di assicurare la presenza di almeno un genitore, essendo essa sola idonea a garantire, preservare e salvaguardare l’integrità psico-fisica del bambino minore degli anni tre in un momento particolarmente significativo della sua vita;
che, invece, qualora sia imputata la madre di un figlio gravemente ammalato, con lei convivente, l’auspicata previsione della possibilità per la madre in vinculis di ottenere la misura degli arresti domiciliari non costituirebbe l’unico mezzo per soddisfare la diversa esigenza che siano assicurate la necessaria assistenza e cura del minore, di età superiore a tre anni ma affetto da patologie invalidanti, in quanto esse ben potrebbero essere apprestate da altri familiari, o da altre strutture assistenziali, non potendosi a priori ritenere il loro intervento infungibile rispetto alla presenza del genitore detenuto;
che, ad avviso della difesa erariale, inoltre, non si potrebbe ragionevolmente sostenere che l’affidamento, a soggetti diversi dalla madre, dell’assistenza e cura di un minore affetto da patologie gravemente invalidanti sia di per sé lesivo del diritto alla salute del soggetto disabile e, per ciò stesso, incompatibile con l’art. 3 della Costituzione.
Considerato che il Tribunale di Catanzaro, sezione del riesame, dubita, in riferimento agli articoli 3 e 32 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 4, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che non può essere disposta la custodia cautelare in carcere quando imputata sia la madre di un figlio minore invalido al 100%, con lei convivente, che necessiti della costante presenza della madre»;
che, ad avviso del rimettente, la norma censurata si porrebbe in violazione dell’art. 3 Cost.: a) trattando in modo difforme situazioni familiari analoghe ed equiparabili tra loro, quali sarebbero quella della madre di un figlio minore di anni tre, all’epoca dell’ordinanza di rimessione: limite poi portato ad anni sei con la legge 21 aprile 2011, n. 62 (Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori) e quella della madre di un figlio disabile e totalmente incapace di provvedere da solo anche alle più elementari esigenze, il quale avrebbe necessità di essere assistito dalla madre come un bambino di età inferiore a tre anni; b) non prendendo in considerazione la condizione del figlio minore gravemente invalido e, dunque, introducendo in modo ingiustificato e irragionevole un trattamento peggiore nei confronti dell’indagata, madre di figli minori conviventi che, pur di età superiore ai tre anni (oggi a sei anni), siano affetti da handicap invalidanti tali da impedir loro di adempiere alle più elementari esigenze di vita, al pari del soggetto rientrante nei suddetti limiti di età; c) prevedendo «un sistema rigido che preclude al giudice, ai fini della concessione della misura cautelare della detenzione domiciliare, di valutare la consistenza delle condizioni necessarie per un’effettiva assistenza psico-fisica da parte della madre indagata, nei confronti del figlio minore portatore di handicap accertato come totalmente invalidante»;
che, inoltre, la detta norma si porrebbe in violazione dell’art. 32 Cost., in quanto la salute psico-fisica del figlio portatore di handicap «può essere notevolmente pregiudicata dall’assenza della madre, ristretta in regime cautelare carcerario, e dalla mancanza di cure da parte di questa, non essendo indifferente per il disabile grave, a qualsiasi età, che le cure e l’assistenza siano prestate da persone diverse dal genitore»;
che, con sentenza di questa Corte adottata contestualmente alla pronuncia del presente provvedimento, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, da cui risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure;
che, a seguito della menzionata sentenza, la presunzione assoluta – secondo la quale, in presenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti contemplati dalla norma censurata e, segnatamente, per quanto qui rileva, in ordine al delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, unica misura applicabile era la custodia cautelare in carcere, salvo che fossero acquisiti elementi idonei a dimostrare l’insussistenza di esigenze cautelari – è venuta meno, essendo stata restituita al giudice la possibilità di valutare elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure;
che, pertanto, va disposta la restituzione degli atti al rimettente Tribunale di Catanzaro, sezione del riesame, affinché proceda a nuova valutazione della rilevanza della questione, alla luce delle statuizioni contenute nella sentenza citata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Catanzaro, sezione per il riesame.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 luglio 2011.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2011.