SENTENZA N. 294
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Paolo MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), promosso dal Tribunale amministrativo regionale della Campania nel procedimento vertente tra S. S. e l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” con ordinanza del 2 ottobre 2008 iscritta al n. 94 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti l’atto di costituzione di S. S. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 21 settembre 2010 il Giudice relatore Paolo Grossi;
uditi gli avvocati Giuseppe Abbamonte e Mario Sanino per S. S. e l’avvocato dello Stato Paola Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Il Tribunale amministrativo regionale della Campania solleva, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 36 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), «nella parte in cui prevede – indipendentemente dall’intervenuta estinzione del reato per prescrizione – che “Nel caso di condanna anche non definitiva, ancorché sia concessa la sospensione condizionale della pena, per alcuno dei delitti previsti dall’art. 3, comma 1, i dipendenti indicati nello stesso articolo sono sospesi dal servizio”».
Premette, in fatto, il Tribunale rimettente che il giudizio a quo è stato introdotto da un ricorso proposto da un professore universitario, condannato, con sentenza dell’11 febbraio 2008, per concorso in peculato, limitatamente ad un episodio commesso il 30 marzo 1995. Segnala al riguardo il giudice rimettente che il Tribunale penale, «pronunciando su una specifica eccezione del collegio difensivo, ha definito la cronologia della prescrizione in riferimento alle diverse tipologie di imputazione in contestazione», sicché, in applicazione dei parametri così definiti, il reato per il quale è stata pronunciata condanna viene a prescriversi il 18 marzo 2008. Disposta la sospensione dal servizio da parte della autorità amministrativa, il ricorrente è insorto, lamentando la illegittimità del provvedimento, in quanto – fra l’altro – l’illecito deve ritenersi estinto per il decorso dei termini di prescrizione.
Disattesa la possibilità di accedere ad una interpretazione “adeguatrice” del disposto normativo sollecitata dalla difesa del ricorrente, il Tribunale reputa la disposizione censurata in contrasto con più parametri costituzionali. Richiamati, infatti, i princípi posti a fondamento delle sentenze di questa Corte soffermatesi sul tema (si citano, in particolare, la sentenza n. 145 del 2002 e quelle n. 206 del 1999 e n. 239 del 1996), si sottolinea, anzitutto, la «incondizionata automaticità» della sospensione dal servizio prevista dalla norma, in presenza del «solo dato formale di una condanna penale e senza che assumano rilievo fattispecie estintive del reato già incontrovertibilmente maturate al momento dell’applicazione della misura e che valgono a svuotare di contenuto la sua effettiva ragion d’essere». Sottolinea in proposito il rimettente che nella stessa motivazione della sentenza di condanna si indica in dodici anni e sei mesi il termine massimo di prescrizione del reato per il quale è intervenuta condanna, al quale vanno aggiunti ulteriori 180 giorni per i rinvii dovuti ad astensione degli avvocati; sicché la combinazione di tali dati, «attraverso un’operazione aritmetica, consente di fissare al 18.3.2008 il termine di maturazione della prescrizione del reato». In conclusione, l’accertamento della sopravvenuta estinzione del reato resta confinato «nei limiti di una semplice presa d’atto, con conseguente radicale esclusione di qualsivoglia apprezzamento (da parte della Pubblica Amministrazione) di natura valutativa». Da ciò la censura di irragionevolezza della norma, giacché la congruità della misura obbligatoria della sospensione «può astrattamente dirsi garantita dal presupposto processuale della intervenuta condanna, fintantoché la detta pronuncia valga a reggere un effettivo giudizio di disvalore». Al contrario, tale rapporto di congruità, così come la proporzionalità tra la misura cautelare e le esigenze che con essa si intendono fronteggiare, inevitabilmente si altera nell’ipotesi in cui «per cause oggettive ed immediatamente percepibili (quale giustappunto è la prescrizione), quella pronuncia elevata a presupposto assorbente per l’applicazione della misura non costituisce più, al di là degli aspetti formali, espressione attuale di un giudizio di accertamento di offese (punibili) ai valori dell’ordinamento». In sostanza, l’automatismo della sospensione finirebbe per ancorarsi al solo presupposto formale di una pronuncia di condanna, non più in grado di esprimere un disvalore tale da presupporre effettive esigenze cautelari.
A parere del Tribunale rimettente, dunque, «il mantenimento dell’obbligo di produzione degli effetti interdittivi, pur nella descritta evenienza, viene a porsi in chiara ed aperta distonia con i principi di ragionevolezza e proporzionalità di cui agli artt. 3 e 97 della Costituzione».
Violato sarebbe anche il principio di uguaglianza, in quanto la disciplina censurata equiparerebbe ai fini dell’automatismo cautelare situazioni diverse, quali «le posizioni di coloro che hanno riportato una condanna per un reato ancora “vivo” e quelle di chi, invece, è stato condannato per il medesimo reato, nel frattempo, però, estinto per prescrizione».
Ugualmente compromesso sarebbe il diritto di difesa, «in quanto viene tolta in radice all’interessato la possibilità di far valere le proprie ragioni avverso l’applicazione di una misura particolarmente invasiva e che non trova più una diretta giustificazione nella fattispecie ordinaria di riferimento (che è quella di una condanna ancora “vitale”); così come compromessi sarebbero i principi sanciti dagli artt. 4, 35 e 36 Cost., considerati gli effetti pregiudizievoli che «la (ingiustificata) sospensione dal servizio esplica sul pieno ed effettivo esercizio del diritto al lavoro e sul diritto alla giusta retribuzione».
Scandagliata, poi, la portata modificativa della decisione di incostituzionalità adottata con la sentenza n. 145 del 2002, il giudice rimettente si è ampiamente diffuso per sottolineare come per la individuazione del termine di prescrizione, con particolare riferimento al caso di specie, tutti gli elementi necessari siano offerti dalla pronuncia di condanna, senza che residui in capo alla pubblica amministrazione alcun potere valutativo. Per altro verso neppure potrebbe venire in discorso la immediata declaratoria della causa di non punibilità ex art. 129 del codice di procedura penale, giacché tale meccanismo segue necessariamente l’iter del procedimento e i relativi gradi di impugnazione. Pertanto, dopo la lettura del dispositivo della sentenza di primo grado, il sistema processuale penale non prevederebbe meccanismi che consentano di rilevare immediatamente la causa di estinzione del reato prima dell’incardinamento del giudizio di appello; con la conseguenza che l’amministrazione deve procedere alla sospensione dal servizio salvo, poi, revocare la misura non appena verrà – magari a distanza di tempo – formalmente rilevata la estinzione del reato. Da qui l’esigenza di consentire alla amministrazione di procedere ad una valutazione in concreto delle eventuali esigenze cautelari.
2. – Nel giudizio si è costituita la parte privata S.S., depositando memoria nella quale si è conclusivamente chiesto: 1) in via preliminare, di dichiarare inammissibile la questione, in quanto la norma impugnata non sarebbe applicabile nel giudizio a quo, trattandosi di dipendente cui è ascritto un fatto commesso presso una amministrazione diversa da quella cui il ricorrente appartiene e che attualmente procede; 2) sempre in via preliminare, di dichiarare inammissibile la questione per mancata sperimentazione di una interpretazione adeguatrice, per la medesima ragione di cui al punto 1); 3) in via gradata, di pronunciare una sentenza interpretativa di rigetto, con la quale si affermi che la norma censurata va interpretata nel senso che essa non va applicata ad un dipendente cui è ascritto un fatto commesso in amministrazione diversa da quella cui egli attualmente appartiene e che procede per un fatto per il quale è già stata accertata la prescrizione; 4) in via ulteriormente gradata, di pronunciare una sentenza di accoglimento, che dichiari la illegittimità costituzionale della norma impugnata, nella parte in cui essa non esclude l’applicabilità della misura della sospensione automatica anche al caso del dipendente cui è ascritto un fatto commesso in amministrazione diversa da quella cui egli attualmente appartiene e che procede per un fatto di cui è stata già accertata la prescrizione.
La parte privata, dopo ampia narrativa dei fatti di causa, ha svolto diffusi argomenti a conforto della tesi della inapplicabilità, nel caso di specie, della norma impugnata, sul rilievo che la stessa, attesa la natura di regola eccezionale e di stretta interpretazione, presuppone che il fatto-reato cui la sospensione obbligatoria si riferisce, riguardi lo stesso ufficio presso il quale il dipendente si trova. Evenienza, questa, che nella specie non ricorre, in quanto la parte privata, professore presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, ha subito la condanna penale nella qualità di sindaco del Comune di Pompei.
I rilievi svolti dal giudice a quo per disattendere la analoga questione già dedotta in sede di ricorso vengono dunque contestati in forza di una lettura complessiva e sistematica della legge n. 97 del 2001, la quale condurrebbe a concludere che – contrariamente all’assunto del giudice a quo – il legislatore avrebbe inteso stabilire una “connessione qualificata” tra la condotta penalmente rilevante e l’ufficio dal quale il dipendente deve essere sospeso. Conclusione, questa, alla quale potrebbe pervenirsi anche in forza della sentenza n. 145 del 2002, che invece l’ordinanza di rimessione evoca per sostenere l’opposta tesi.
Sulla questione di costituzionalità si sottolineano, poi, ulteriori profili. La previsione di una sospensione automatica dall’impiego a seguito di una sentenza non definitiva risulterebbe, infatti, di dubbia compatibilità con il principio di presunzione di non colpevolezza, stante il carattere anticipatorio degli effetti della condanna che scaturiscono da tale misura, con correlativa compromissione, anche, del diritto di difesa. La stessa amministrazione, d’altra parte, dovrà procedere alla sospensione, senza poter valutare le implicazioni organizzative, a fronte di una imprevedibile durata del provvedimento, in ipotesi vanificabile a seguito di proscioglimento, con conseguente violazione dell’art. 97, primo comma, Cost.
Si sottolineano, poi, numerosi aspetti di irragionevolezza della norma e di disparità di trattamento, stante la varietà delle situazioni che possono venire in discorso (concessione o meno della sospensione condizionale della pena; reato commesso in ufficio pubblico diverso da quello di appartenenza; preclusione, per l’amministrazione, di valutare le circostanze del caso concreto, in rapporto alle specifiche esigenze che la norma mira a presidiare). A conforto di tali censure, la memoria passa in analitica rassegna la giurisprudenza costituzionale, evidenziando come dalla stessa emerga un sostanziale sfavore riguardo ai generalizzati provvedimenti automatici di sospensione e destituzione dal servizio di pubblici dipendenti, e segnalando anche, con riferimento alla sentenza n. 145 del 2002, come la Corte non si sia nel frangente pronunciata sugli ulteriori parametri evocati dal rimettente – per l’appunto, gli artt. 4, 24, 27, 35, 36 e 97 Cost. – in ragione dell’omessa motivazione. Parametri che, invece, assumono risalto nel panorama della giurisprudenza costituzionale in tema di sospensione o destituzione di pubblici dipendenti a seguito di decisioni giudiziarie.
Si segnala, infine, la fondatezza dei dubbi di costituzionalità prospettati dalla ordinanza di rimessione in riferimento a tutti i parametri evocati – cui viene aggiunto l’art. 27, secondo comma, Cost. – e si sottolineano le peculiarità della vicenda che ha visto il ricorrente condannato, che avrebbero potuto essere valorizzate dalla delibazione della amministrazione in assenza del contestato automatismo, nella specie illegittimo per la maturata prescrizione del reato.
3. – Nel giudizio è, infine, intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, la quale ha concluso chiedendo dichiararsi infondata la proposta questione. Osserva, infatti, l’Avvocatura che la questione della prescrizione non è incontrovertibilmente decisa dal giudice di primo grado, potendo essere riconsiderata in sede di appello o di cassazione. La “vitalità” del fatto reato al momento della applicazione della sospensione, dunque, non può che risultare – contrariamente a quanto assume il giudice a quo – dalla sentenza di condanna. Né la amministrazione può compiere una valutazione autonoma, posto che, anche a seguito della sentenza n. 145 del 2002, la prescrizione può operare come causa di sopravvenuta inefficacia della sospensione da servizio soltanto a seguito di una sentenza che la dichiari. Diversamente – conclude l’Avvocatura – la misura assumerebbe un «carattere discrezionale e finirebbe per essere rimesso alla Pubblica Amministrazione una competenza riservata all’Autorità giudiziaria, con una evidente, inammissibile sovrapposizione di attribuzioni spettanti invece a diversi poteri dello Stato».
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale amministrativo regionale della Campania, chiamato a pronunciarsi sul ricorso proposto nell’interesse di un professore universitario avverso il provvedimento di sospensione dal servizio pronunciato nei suoi confronti dall’amministrazione di appartenenza, a seguito della condanna in primo grado subita dal ricorrente per il reato di concorso in peculato, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 36 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), «nella parte in cui prevede – indipendentemente dall’intervenuta estinzione del reato per prescrizione – che “Nel caso di condanna anche non definitiva, ancorché sia concessa la sospensione condizionale della pena, per alcuno dei delitti previsti dall’articolo 3, comma 1, i dipendenti indicati nello stesso articolo sono sospesi dal servizio”».
Il giudice rimettente, dopo aver premesso che nella sentenza di condanna relativa al ricorrente, il giudice penale ha, seppure incidentalmente, in quanto chiamato a pronunciarsi su una eccezione della difesa, provveduto a definire «la cronologia della prescrizione in riferimento alle diverse tipologie di imputazione in contestazione», sicché – puntualizza il giudice a quo – il reato per il quale è stata pronunciata la condanna, cui si riferisce il provvedimento di sospensione dal servizio oggetto di ricorso, viene a prescriversi il 18 marzo 2008, afferma che «il mantenimento dell’obbligo degli effetti interdittivi» che scaturisce dalla norma oggetto di impugnativa, verrebbe a porsi in contrasto, in una evenienza quale è quella descritta, con più parametri di legittimità costituzionale. Risulterebbero anzitutto compromessi, infatti, gli artt. 3 e 97 Cost., evocati con specifico riguardo ai princípi di ragionevolezza e proporzionalità, in quanto la sospensione obbligatoria dal servizio che tragga esclusivo alimento da una condanna «ormai irreversibilmente svuotata da ogni contenuto sostanziale», finirebbe con il risultare «irragionevolmente disancorata dai connotati concreti della situazione storica – significativamente mutata per effetto della sopravvenuta estinzione del reato – in cui è collocata». Sarebbe al tempo stesso compromesso il principio di uguaglianza, giacché, agli effetti della sospensione automatica, si equiparano fra loro situazioni eterogenee, che presentano un differenziato coefficiente di incidenza rispetto al «giudizio di bilanciamento che regge la coerenza della misura sospensiva», posto che non risulterebbero fra loro comparabili, a quegli effetti, «le posizioni di coloro che hanno riportato una condanna per un reato ancora “vivo” e quelle di chi, invece, è stato condannato per il medesimo reato, nel frattempo, però, estinto per prescrizione». Risulterebbe inoltre violato il diritto di difesa, sul rilievo che all’interessato sarebbe precluso far valere le proprie ragioni contro l’applicazione della misura della sospensione dal servizio, senza che questa rinvenga ragion d’essere nella condanna, proprio perché non più “vitale”, e si lamenta, infine, la compromissione anche degli artt. 4, 35 e 36 della Carta fondamentale, considerato il pregiudizio che la misura sospensiva determina sull’effettivo e pieno diritto al lavoro ed alla giusta retribuzione.
2. – Occorre preliminarmente rilevare che risulta non fondata, agli effetti dell’odierno scrutinio, la eccezione di inammissibilità per irrilevanza della normativa impugnata che la difesa della parte privata ha diffusamente articolato nel proprio atto di costituzione e che si fonda, essenzialmente, sulla riproposizione della identica quaestio già dedotta in sede giurisdizionale e disattesa dal giudice a quo. In estrema sintesi, secondo la parte privata, nella specie non troverebbe applicazione la normativa oggetto di impugnativa, in quanto, riferendosi la condanna penale ad un fatto commesso dal ricorrente non nella qualità di professore universitario – cui si riferisce il provvedimento di sospensione censurato – ma nella diversa attribuzione di sindaco di un Comune, non potrebbe farsi riferimento alla sospensione prevista dall’art. 4, comma 1, della legge n. 97 del 2001, dovendosi altrimenti procedere ad una interpretazione adeguatrice della disposizione in questione. Tale tesi, però, è stata, come si è detto, disattesa dal giudice rimettente sulla base di una motivazione, la quale, ancorché contestata dalla parte privata, non può ritenersi, in sé, manifestamente implausibile.
3.– La questione proposta dal Tribunale campano è tuttavia inammissibile per altro ordine di ragioni. La disciplina oggetto della odierna impugnativa è stata già approfonditamente scrutinata da questa Corte nella sentenza n. 145 del 2002, della quale il giudice a quo dà atto, ma dai cui princípi non ha tratto le debite conseguenze. Nella richiamata pronuncia, infatti, questa Corte ebbe a dichiarare la illegittimità costituzionale, «nei sensi di cui in motivazione», dell’art. 4, comma 2, della legge n. 97 del 2001, nella parte in cui disponeva che la sospensione dal servizio del dipendente pubblico condannato anche non in via definitiva per taluni delitti perdesse efficacia decorso un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato. Il particolare dispositivo di illegittimità costituzionale, attraverso un rinvio al contenuto della motivazione, dipese dal fatto che la Corte reputò che il termine di prescrizione del reato, se assunto quale limite di durata della misura cautelare della sospensione dal servizio, doveva ritenersi «manifestamente eccessivo, comportando, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, una evidente quanto irragionevole compressione dei diritti del singolo». La Corte tuttavia chiarì che la declaratoria di illegittimità costituzionale non rendeva la sospensione obbligatoria dal servizio priva del necessario termine di durata, potendosi rinvenire nel sistema la previsione della durata massima di cinque anni della misura cautelare sospensiva contenuta nell’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti), alla quale doveva attribuirsi «il carattere di una vera e propria clausola di garanzia, avente una portata generale». Concluse dunque la Corte che l’art. 4, comma 2, della legge n. 97 del 2001, doveva essere letto, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale, «nel senso che la sospensione dal servizio disposta a norma del comma 1 perde efficacia se per il fatto è successivamente pronunciata sentenza di proscioglimento o di assoluzione anche non definitiva e, in ogni caso, decorsa una durata complessivamente non superiore a cinque anni della sospensione, facoltativa o obbligatoria riferibile al medesimo procedimento penale».
La Corte, però, mise a fuoco anche due altri aspetti che assumono non poco risalto agli effetti della odierna questione. Nella richiamata sentenza, infatti, la Corte non mancò di sottolineare come la individuazione del termine di prescrizione del reato comporti, a proposito dei numerosi elementi interni ed esterni al reato stesso e che concorrono a determinare quel termine, una serie di «valutazioni precluse alla pubblica amministrazione, che solo l’autorità giudiziaria può compiere: si pensi all’incidenza sul decorso della prescrizione delle circostanze aggravanti e attenuanti del reato. Con la conseguenza – puntualizzò testualmente questa Corte – che la suddetta causa di cessazione di efficacia della misura cautelare viene necessariamente a coincidere con quella rappresentata dalla sentenza di proscioglimento».
Alla stregua di tali dicta, possono dunque già trarsi alcuni corollari. Anzitutto, la prescrizione del reato non può che coincidere con la sentenza che la dichiari, giacché non può annettersi alcun rilievo giuridico alla sussistenza ipotetica di una causa di estinzione del reato, il cui ricorrere, per di più, presuppone un accertamento su una complessa ed articolata gamma di elementi di commisurazione – alcuni dei quali presupponenti, addirittura, indagini di fatto (quale lo stesso tempus commissi delicti) – che non possono che essere svolti dalla autorità giudiziaria, all’interno del processo. In secondo luogo, proprio perché ontologicamente privo di rilievo giuridico esterno al processo, deve necessariamente restare al di fuori del perimetro normativo qui in discorso qualsiasi accertamento incidenter tantum, che, nell’individuare la “non maturazione” della prescrizione, ne abbia (alla stregua di un qualunque obiter), indicato la data – futura ed ipotetica – in cui la prescrizione maturanda potrebbe essere dichiarata. In terzo ed ultimo luogo, quand’anche si volesse assegnare a quell’accertamento incidentale un qualche effetto, esso non potrebbe mai essere “esterno” al processo e tale da coinvolgere una valutazione (in ipotesi, anche discorde) da parte della pubblica amministrazione.
A proposito, poi, del secondo aspetto messo in risalto dalla sentenza di cui innanzi si è detto, va osservato che la Corte, nello scrutinare, nei sensi innanzi descritti, la disciplina del termine massimo di sospensione obbligatoria dal servizio del pubblico dipendente condannato per taluni specifici reati, ha fatta salva, ovviamente, «la possibilità che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità ed entro i limiti di ragionevolezza e proporzionalità individuati da questa Corte, disciplini nuovamente la materia, anche fissando termini massimi eventualmente differenti rispetto a quello di cui al citato art. 9 della legge n. 19 del 1990 ovvero modulati in relazione alla gravità del reato ed alla fase del procedimento». Dunque, ci si muove su un terreno nel quale la discrezionalità normativa è massima, con l’ovvia conseguenza di rendere la questione proposta, già solo per questo profilo, inammissibile, in quanto la soluzione additata dal giudice a quo, per di più coinvolgente – al di là delle peculiarità che hanno caratterizzato il caso di specie – una valutazione incidentale della pubblica amministrazione su un tema (quale è quello della sussistenza di una causa estintiva del reato) di diritto penale sostanziale, comporta una gamma indefinita ed indefinibile di più opzioni alternative, tutte costituzionalmente compatibili (fra le tante, l’ordinanza n. 270 del 2008).
4. – Accanto a ciò, vanno considerati anche altri profili che, invece, il Tribunale rimettente ha totalmente negletto e che parimenti incidono, in senso negativo, sul versante della ammissibilità del quesito. Posto, infatti, che la questione proposta presuppone l’esistenza di una condanna non irrevocabile, e, dunque, la pendenza di un giudizio di impugnazione, il giudice rimettente ha omesso di considerare che ciascuna delle numerose “componenti” normative che concorrono alla determinazione dello spirare dei termini di prescrizione del reato – ancorché incidentalmente valutate dal giudice di primo grado – possono tutte formare oggetto di nuovo esame in grado di appello o nel giudizio di legittimità. Così, ad esempio, gli eventuali mutamenti in tema di circostanze o di giudizio di valenza possono influire sul tema, così come il giudice della impugnazione può assegnare al fatto una diversa qualificazione giuridica, che rileva ai fini della prescrizione, ove ne ricorrano i presupposti. Il tutto, non senza sottolineare la rilevanza che ai medesimi fini riveste anche la natura del rimedio impugnatorio attivato dalle parti, essendo evidente il diverso risalto che ciascun profilo può assumere a seconda delle caratteristiche di devoluzione tipiche dei vari mezzi e delle questioni che, in materia di prescrizione, sono comunque rilevabili ex officio.
Inoltre, il giudice rimettente – il quale non fornisce alcuna descrizione della “fattispecie” impugnatoria relativa alla vicenda penale su cui si innesta il quesito di legittimità costituzionale – omette di considerare un ulteriore aspetto che appare dirimente ai fini della impossibilità, da parte di questa Corte, di scrutinare nel merito del dubbio di costituzionalità: e cioè che soltanto il giudice della impugnazione è in grado di delibare la eventuale prescrizione del reato, in quanto soltanto in presenza di una impugnazione ammissibile (che certo la pubblica amministrazione non può apprezzare incidentalmente) può farsi luogo alla declaratoria di estinzione del reato, posto che, ove l’impugnazione risultasse per qualsiasi causa inammissibile, la inammissibilità precluderebbe la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, alla luce di un consolidato quadro di interpretazione giurisprudenziale ormai assurto al rango di diritto vivente (Cass., Sez. un., 22 marzo 2005, n. 23428; Cass., Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32). La questione è, dunque, inammissibile, anche per carente descrizione della fattispecie (fra le tante, le ordinanze n. 306 e n. 190 del 2009).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 36 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo della Campania con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 ottobre 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'8 ottobre 2010.