ORDINANZA N. 252
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promosso dal Tribunale di Pesaro nel procedimento penale a carico di D. I. con ordinanza del 31 agosto 2009, iscritta al n. 286 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visto l’atto di costituzione di D. I.;
udito nell’udienza pubblica dell’8 giugno 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;
uditi gli avvocati Vittorio Angiolini e Michele Mariella per D. I.
Ritenuto che, con ordinanza del 31 agosto 2009, il Tribunale di Pesaro, in composizione monocratica, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 10 e 27 della Costituzione, dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), «nella parte in cui prevede come reato il fatto dello straniero che si trattiene nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del medesimo testo unico»;
che il giudice a quo premette di essere investito del processo penale nei confronti di uno straniero proveniente dal Senegal, imputato del reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 per non avere ottemperato, senza giustificato motivo, all’ordine di lasciare il territorio dello Stato entro cinque giorni, impartitogli dal questore di Pesaro il 18 giugno 2009 ai sensi del comma 5-bis del medesimo articolo;
che detto ordine, emesso sulla base di decreto prefettizio di espulsione in pari data, risultava motivato con l’impossibilità tanto di procedere ad immediato accompagnamento alla frontiera dell’interessato, essendo egli privo di «documenti idonei all’espatrio», quanto di trattenerlo presso un centro di identificazione ed espulsione, per indisponibilità di posti;
che, ad avviso del rimettente, l’imputato dovrebbe essere assolto dal reato ascrittogli per insussistenza del fatto: la circostanza che egli fosse privo di documenti idonei all’espatrio – e, segnatamente, di documenti di identità – rendeva, infatti, ineseguibile l’ordine di lasciare il territorio nazionale, onde mancherebbe un elemento essenziale del delitto contestato, consistente nell’assenza di un «giustificato motivo» di inottemperanza;
che la medesima circostanza renderebbe, altresì, carente e contraddittoria la motivazione del provvedimento del questore – che andrebbe quindi disapplicato dal giudice a quo – non potendo la pubblica amministrazione emettere un ordine di cui sia certa all’origine l’ineseguibilità con modalità legali;
che all’imputato era stata, peraltro, contestata una inottemperanza protratta dal 24 giugno 2009, data di scadenza del termine di cinque giorni concessogli dal questore per lasciare il territorio nazionale, al 25 agosto 2009, data dell’arresto;
che il fatto oggetto di giudizio risulterebbe perciò riconducibile – quanto al periodo successivo all’8 agosto 2009, data di entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 – alla previsione punitiva di cui al neointrodotto art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998: disposizione in forza della quale, «salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del presente testo unico nonché di quelle di cui all’art. 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68, è punito con l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro»;
che sussisterebbero, difatti, nella specie, tutti gli elementi della figura del soggiorno illegale delineata dal citato art. 10-bis: vale a dire, il trattenimento dello straniero nel territorio dello Stato e l’illegalità dello stesso, non con riferimento all’ordine del questore, ma alla violazione delle disposizioni del testo unico, e, in particolare, dell’art. 5, che richiede il permesso di soggiorno o altro titolo legalmente rilasciato;
che, in rapporto alla figura criminosa in questione, non è stata, d’altro canto, riprodotta la clausola di esclusione della punibilità nel caso di «giustificato motivo», né essa risulterebbe applicabile per analogia, tenuto conto della ratio della norma, volta ad impedire drasticamente sia l’ingresso che la permanenza non regolare dello straniero nel territorio nazionale;
che, di conseguenza, il giudice a quo dovrebbe – a suo avviso – pronunciare sentenza di assoluzione dal delitto di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, limitatamente all’inottemperanza protrattasi fino al 7 agosto 2009, perché il fatto non sussiste, e – previa diversa qualificazione giuridica del fatto – condannare l’imputato per la contravvenzione di cui all’art. 10-bis, quanto al periodo successivo;
che il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale del citato art. 10-bis sotto plurimi profili;
che sarebbe leso, anzitutto, il principio di ragionevolezza, in quanto la norma incriminatrice censurata sarebbe destinata a restare priva di effetti concreti nei confronti della maggior parte degli immigrati non regolari, i quali non sarebbero in grado di pagare la «pesante» ammenda comminata, né potrebbero essere utilmente sottoposti a procedure di esazione coattiva;
che la vera sanzione, nei confronti dell’immigrato irregolare, consisterebbe, in realtà, nell’espulsione, peraltro già prevista e possibile prima dell’introduzione della nuova figura di reato;
che la norma impugnata avrebbe, nondimeno – secondo il rimettente – una sua «perversa razionalità»: essa mirerebbe, cioè, a «rendere la vita impossibile all’immigrato non regolare», facendo «terra bruciata intorno a lui»;
che la criminalizzazione dell’immigrazione illegale renderebbe, infatti, configurabile una responsabilità a titolo di concorso nel reato a carico di tutti coloro che – anche gratuitamente e per mero spirito di solidarietà – prestino soccorso al «clandestino», in quanto persona bisognosa, aiutandolo a trovare alloggio, a nutrirsi e a svolgere una qualche attività: nei confronti di costoro, siano essi cittadini o immigrati regolari, la previsione di una contravvenzione punita con un’ammenda di elevato ammontare – inutile rispetto all’immigrato irregolare – rappresenterebbe, viceversa, un efficacissimo deterrente;
che altra «grave ricaduta» della norma censurata consisterebbe nell’insorgenza dell’obbligo, penalmente sanzionato, di denuncia del reato da parte dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio che vengano a conoscenza della condizione di irregolarità dell’immigrato a causa o nell’esercizio delle loro funzioni;
che, stante la vastissima gamma dei soggetti investiti di qualifiche pubblicistiche, il timore della denuncia costringerebbe, quindi, gli stranieri non regolari a vivere «nella paura, nell’isolamento, in una vera e propria clandestinità»: condizione «inumana, degradante, e questa sì pericolosa per la sicurezza»;
che, per tale verso, la norma censurata si porrebbe dunque in contrasto con il principio della solidarietà, enunciato dagli artt. 2 e 3 Cost., contribuendo a creare un opposto clima di ostilità nei confronti di persone che, quali i migranti irregolari, sono generalmente sospinte a cercare migliori condizioni di vita dalla povertà e dall’oppressione sofferte nei paesi di origine;
che sarebbero violati anche i principi di eguaglianza (art. 3 Cost.) e di personalità della responsabilità penale (art. 27 Cost.), giacché, sanzionando penalmente in modo indiscriminato gli stranieri che soggiornano illegalmente nel territorio dello Stato, la norma impugnata ne presupporrebbe arbitrariamente la pericolosità sociale: condizione che andrebbe accertata invece caso per caso;
che la configurazione come reato dell’immigrazione illegale violerebbe, ancora, l’art. 10 Cost., ponendosi in contrasto con i principi del diritto internazionale generalmente riconosciuti;
che, nelle convenzioni internazionali, la condizione del migrante, anche «non regolare», verrebbe infatti guardata con «comprensione» e «benevolenza», nella consapevolezza che non si tratta di un criminale, certo o possibile, ma anzitutto di un essere umano che abbandona la propria terra alla ricerca di migliori condizioni di vita;
che emblematica di tale atteggiamento sarebbe, tra le altre, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, la quale riconosce ad ogni individuo il diritto a lasciare qualsiasi paese, compreso il proprio, e di ritornare nel proprio paese (art. 13), nonché di cercare e godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni (art. 14), così implicitamente riconoscendo anche il diritto di cercare in altri paesi lavoro, cibo e condizioni di vita umane;
che la norma impugnata violerebbe, infine, gli artt. 3 e 27 Cost., per non aver contemplato – diversamente da quanto avviene per il delitto previsto dall’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 – l’ipotesi in cui la permanenza nel territorio dello Stato sia determinata da un «giustificato motivo»: dando luogo, con ciò, ad una irrazionale disparità di trattamento fra persone imputate di fatti similari;
che si è costituito l’imputato nel processo a quo, il quale ha chiesto che la questione venga accolta, svolgendo, quindi, nella memoria illustrativa, argomenti a sostegno della tesi della incostituzionalità della norma impugnata.
Considerato che il Tribunale di Pesaro dubita, sotto plurimi profili, della legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), «nella parte in cui prevede come reato il fatto dello straniero che si trattiene nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del medesimo testo unico»;
che, nel giudizio a quo, il rimettente procede, tuttavia, per un reato diverso da quello oggetto di censura: e, cioè, per il delitto di ingiustificata inosservanza dell’ordine del questore di lasciare entro cinque giorni il territorio dello Stato, previsto dall’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998;
che la motivazione sulla cui base il giudice a quo reputa egualmente rilevante la questione di costituzionalità sollevata non può essere, d’altro canto, condivisa;
che secondo il rimettente, infatti, l’imputato dovrebbe essere assolto dal delitto ascrittogli in ragione della configurabilità di un «giustificato motivo» di inosservanza dell’ordine del questore: «giustificato motivo» consistente segnatamente nella circostanza – risultante dalla stessa motivazione del provvedimento – che l’interessato fosse privo di «documenti idonei all’espatrio»;
che, peraltro – sempre ad avviso del giudice a quo – per il contestato periodo di inottemperanza successivo all’8 agosto 2009 (data di entrata in vigore della legge n. 94 del 2009), il fatto oggetto di giudizio risulterebbe riconducibile alla previsione punitiva di cui al neointrodotto art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, che non reca alcuna clausola di salvezza del «giustificato motivo»: essendosi comunque al cospetto di una condotta di illegale trattenimento dello straniero nel territorio dello Stato;
che, relativamente al suddetto periodo, il rimettente dovrebbe, quindi – a suo parere – previa diversa qualificazione giuridica del fatto, condannare imputato per la contravvenzione delineata dalla norma impugnata: donde – in tesi – la rilevanza della questione;
che – a prescindere da ogni rilievo in ordine alla validità della duplice premessa del ragionamento ora ricordato (la configurabilità, nel caso di specie, di un «giustificato motivo» di inottemperanza all’ordine del questore e la possibilità di definire come diversa qualificazione giuridica del fatto, anziché come accertamento di un fatto diverso, il passaggio dalla figura criminosa di cui all’art. 14, comma 5-ter, a quella contemplata all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998) – il giudice a quo omette, peraltro, di considerare che la fattispecie contravvenzionale oggetto di censura è di competenza del giudice di pace (lettera s-bis dell’art. 4, comma 2, del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, recante «Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468», aggiunta dall’art. 1, comma 17, lettera a, della legge n. 94 del 2009);
che ciò comporta l’operatività della disposizione di cui all’art. 48 del d.lgs. n. 274 del 2000, la quale – in deroga alla disciplina generale relativa alla cosiddetta incompetenza per eccesso (artt. 23, comma 2, e 521, comma 1, del codice di procedura penale) – stabilisce che, «in ogni stato e grado del processo, se il giudice ritiene che il reato appartiene alla competenza del giudice di pace, lo dichiara con sentenza e ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero»;
che, pertanto, alla luce di tale disposizione, il rimettente non potrebbe comunque conoscere della fattispecie criminosa prevista dalla norma impugnata (e, in particolare, condannare per essa l’imputato), in quanto incompetente per materia;
che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il difetto di competenza del giudice a quo, ove sia palese, comporta l’inammissibilità della questione sollevata per irrilevanza (ordinanze n. 82 del 2005 e n. 120 del 1993);
che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente inammissibile.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 10 e 27 della Costituzione, dal Tribunale di Pesaro con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'8 luglio 2010.