ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 503, commi 5 e 6, del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale di Siracusa, sezione distaccata di Augusta, nel procedimento penale a carico di M.A.J.F.F. e L.N.S., con ordinanza del 13 marzo 2007, iscritta al n. 857 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 2008.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 22 aprile 2009 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza depositata il 13 marzo 2007, il Tribunale di Siracusa, sezione distaccata di Augusta, ha sollevato, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 111, quarto comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale:
a) dell'art. 503, comma 5, del codice procedura penale, nella parte in cui non prevede che «le dichiarazioni alle quali il difensore aveva diritto di assistere assunte dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero», impiegate per le contestazioni all'imputato nel corso dell'esame ai sensi del comma 3 del medesimo articolo, «non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso, salvo che ricorrano i presupposti di cui all'art. 500, comma 4, cod. proc. pen.»;
b) dell'art. 503, comma 6, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che «le dichiarazioni, rese a norma degli articoli 294, 299, comma 3-ter, 391 e 422 cod. proc. pen.», parimenti impiegate per le contestazioni all'imputato nel corso dell'esame, «non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso, salvo che ricorrano i presupposti di cui all'art. 500, comma 4, cod. proc. pen.».
Il giudice a quo premette che, durante il dibattimento in un processo nei confronti di M.A.J.F.F. e L.N.S., imputati del delitto di cui agli artt. 110 del codice penale e 12, commi 1 e 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), l'imputato M.A.J.F.F., esaminato nell'udienza del 5 luglio 2005 e, con l'assistenza di un interprete, nell'udienza del 30 giugno 2006, aveva negato la responsabilità propria e del coimputato, dando una versione dei fatti diversa da quella risultante dai verbali degli interrogatori resi, nella fase delle indagini, al pubblico ministero il 22 febbraio 2002, al giudice per le indagini preliminari in sede di udienza di convalida dell'arresto il 25 febbraio 2002 e alla polizia giudiziaria, delegata dal pubblico ministero, il 6 marzo 2002, quando aveva ammesso i fatti contestati e indicato L.N.S. come concorrente nel reato. Aggiunge che, nell'udienza del 5 luglio 2005, su richiesta del pubblico ministero e con l'opposizione della difesa, detti verbali, in quanto utilizzati per le contestazioni, erano stati acquisiti al fascicolo per il dibattimento ai sensi dell'art. 503, comma 5, cod. proc. pen.
Ciò premesso, il rimettente osserva – in punto di rilevanza delle questioni – che, in base ad un asserito «diritto vivente, espresso dalla giurisprudenza della Corte di cassazione e dalla stessa Corte costituzionale», le precedenti dichiarazioni difformi rese dall'imputato davanti al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria delegata e al giudice nella fase delle indagini preliminari e nell'udienza preliminare, in quanto utilizzate per le contestazioni ed acquisite al fascicolo per il dibattimento ai sensi dei commi 5 e 6 dell'art. 503 cod. proc. pen., assumerebbero piena efficacia probatoria al fine dell'accertamento dei fatti «non solo nei confronti dell'imputato che le ha rese con la (possibilità della) presenza del difensore, ma anche nei confronti dei coimputati il cui difensore non aveva diritto di assistervi e che non hanno prestato il consenso all'utilizzazione delle stesse» (sono citate plurime sentenze della Corte di cassazione e la sentenza della Corte costituzionale n. 255 del 1992).
Di conseguenza, nel giudizio a quo, il rimettente sarebbe tenuto a valutare il contenuto dei verbali dianzi indicati anche ai fini dell'affermazione della responsabilità del coimputato, il cui difensore non aveva diritto di assistere alle dichiarazioni in essi documentate e che non aveva consentito alla loro utilizzazione: donde la rilevanza delle questioni.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo – dopo aver effettuato un excursus sull'evoluzione della disciplina in tema di formazione e valutazione della prova, avutasi successivamente all'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale – rileva come, a seguito della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, di riforma dell'art. 111 Cost., e della legge 1° marzo 2001, n. 63, di attuazione della riforma, la disciplina in parola risulti ora interamente ispirata al «principio del contraddittorio nella formazione della prova, sia nella sua dimensione oggettiva sia nella sua dimensione soggettiva», con le sole eccezioni previste dal quinto comma del nuovo art. 111 Cost. Ne consegue, tra l'altro, che norme, quali, ad esempio, quelle degli artt. 238 e 513 cod. proc. pen., che continuano a prevedere l'utilizzabilità in dibattimento dei verbali contenenti precedenti dichiarazioni rese dall'imputato, hanno un tratto comune consistente «in ciò che o si tratta di atti alla cui assunzione il difensore dell'imputato ha potuto partecipare e allora la prova si è già formata nel contraddittorio delle parti (in conformità al precetto del quarto comma dell'art. 111 Cost.) ovvero l'imputato ha prestato il suo consenso all'acquisizione dell'atto e allora si rende operante una delle deroghe previste dal quinto comma dell'art. 111 Cost.».
A fronte di tale quadro normativo – ad avviso del rimettente – le disposizioni censurate dovrebbero ritenersi lesive, in parte qua, degli artt. 24, secondo comma, e 111, quarto comma, Cost.
Il primo parametro risulterebbe vulnerato in quanto la possibilità di utilizzare le dichiarazioni difformi rese dall'imputato prima del dibattimento nei confronti di altri, senza il loro consenso, violerebbe il diritto di difesa dei coimputati, i cui difensori non abbiano potuto partecipare all'assunzione delle dichiarazioni stesse.
L'art. 111, quarto comma, Cost. sarebbe leso, a sua volta, essendosi la prova formata in contraddittorio solo con l'imputato il cui difensore aveva diritto di assistere all'atto e non con gli altri imputati, i cui difensori erano privi di analogo diritto. Il nuovo testo dell'art. 111 Cost. avrebbe accolto, difatti, una concezione «massimalista» del contraddittorio, alla luce della quale «prova formata in contraddittorio» è unicamente la dichiarazione resa nel corso dell'esame incrociato: mentre sarebbe stata respinta la concezione «minore», secondo cui deve ritenersi «formata in contraddittorio» anche la «prova complessa» che si compone della dichiarazione dibattimentale e del «precedente difforme», introdotto mediante la contestazione. La dichiarazione utilizzata per la contestazione, difatti, è «un mezzo che serve al contraddittorio», in quanto costringe l'esaminato a rendere conto del mutamento della versione dei fatti, ma non è, di per sé, formata in contraddittorio: onde non potrebbe essere utilizzata come prova del fatto.
A conferma dell'assunto, il rimettente ricorda come la Corte costituzionale, nel rigettare questioni di legittimità costituzionale del regime di «esclusione probatoria» previsto dall'art. 500 cod. proc. pen. con riferimento all'esame testimoniale, abbia reiteratamente affermato che l'art. 111 Cost. ha attribuito risalto costituzionale al principio del contraddittorio, anche «nella prospettiva della impermeabilità del processo, quanto alla formazione della prova, rispetto al materiale raccolto in assenza della dialettica tra le parti». Opzione, questa, alla cui stregua deve ritenersi del tutto coerente «la previsione di istituti che mirino a preservare la fase del dibattimento – nella quale assumono valore paradigmatico i principi dell'oralità e del contraddittorio – da contaminazioni probatorie fondate su atti unilateralmente raccolti nel corso delle indagini preliminari» (vengono citate le ordinanze n. 396, n. 365 e n. 36 del 2002).
2. – È intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.
La difesa erariale eccepisce, in via preliminare, l'insufficienza della motivazione sulla rilevanza, avendo il rimettente omesso di descrivere con completezza la fattispecie sottoposta al suo esame e avendo esposto le questioni di costituzionalità senza sufficienti riferimenti ai fatti di causa, in particolare senza chiarire «l'incidenza delle dichiarazioni rese dal M. nell'ambito dell'intero quadro probatorio».
Sotto altro profilo, le questioni andrebbero ritenute inammissibili in quanto nell'ordinanza di rimessione non si precisa se, in occasione degli interrogatori acquisiti al fascicolo per il dibattimento, sia stato osservato il disposto dell'art. 64, comma 1 [recte: 3], lettera c), cod. proc. pen., in forza del quale l'imputato deve essere preventivamente avvisato della circostanza che, se renderà dichiarazioni concernenti la responsabilità di altri, in ordine a tali dichiarazioni assumerà la qualità di testimone, salve le garanzie dell'art. 197-bis cod. proc. pen. Detta omissione impedirebbe, infatti, di individuare l'«esatto parametro normativo» alla stregua del quale condurre il giudizio di costituzionalità.
Nel merito, le questioni sarebbero comunque infondate.
I dubbi di costituzionalità del rimettente risulterebbero privi di consistenza proprio alla luce della disciplina dettata del citato art. 64 cod. proc. pen., che prevede, al comma 2, l'inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni nei confronti dei chiamati in reità o correità, qualora l'avviso sopra ricordato non sia stato dato; mentre – nel caso contrario di effettuazione dell'avviso – avendo il soggetto assunto la posizione di testimone con riferimento alle dichiarazioni concernenti altri, troverà applicazione il regime delle contestazioni previsto per l'esame testimoniale dall'art. 500 cod. proc. pen., che richiede il «contraddittorio pieno».
In ogni caso, il giudice a quo avrebbe omesso di verificare la praticabilità di una interpretazione diversa e conforme a Costituzione delle norme contestate, peraltro agevolmente ricavabile da una lettura sistematica delle stesse: interpretazione alla luce della quale l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni difformi dell'imputato, prevista dai commi 5 e 6 dell'art. 503 cod. proc. pen. – acquisizione che conferisce a dette dichiarazioni il valore di prova piena – riguarderebbe unicamente le dichiarazioni autoaccusatorie; non, invece, le dichiarazioni «eteroaccusatorie», le quali, in base al «principio generale» desumibile dall'art. 500 cod. proc. pen., potrebbero essere valutate ai soli fini della credibilità del dichiarante.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale di Siracusa, sezione distaccata di Augusta, dubita della legittimità costituzionale del comma 5 dell'art. 503 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che «le dichiarazioni alle quali il difensore aveva diritto di assistere assunte dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso, salvo che ricorrano i presupposti di cui all'art. 500, comma 4, cod. proc. pen.». Dubita, altresì, della legittimità costituzionale del comma 6 del medesimo art. 503, nella parte in cui non prevede che «le dichiarazioni, rese [al giudice] a norma degli articoli 294, 299, comma 3-ter, 391 e 422 cod. proc. pen., non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso, salvo che ricorrano i presupposti di cui all'art. 500, comma 4, cod. proc. pen.».
I quesiti di costituzionalità non coinvolgono, dunque, l'intera disciplina dei commi 5 e 6 dell'art. 503 cod. proc. pen., che prevedono l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle sopra indicate dichiarazioni, ove impiegate per le contestazioni all'imputato durante l'esame a norma del comma 3 del medesimo articolo. Essi investono, di contro, unicamente lo specifico profilo dell'utilizzabilità di tali dichiarazioni come prova dei fatti riferiti – oltre che nei confronti dell'imputato dichiarante – anche nei confronti dei coimputati che non abbiano prestato il loro consenso e il cui difensore non abbia potuto partecipare all'assunzione delle dichiarazioni stesse; e ciò, anche fuori dei casi eccezionali previsti dall'art. 500, comma 4, cod. proc. pen. con riguardo all'esame testimoniale.
Ad avviso del giudice a quo, le norme impugnate violerebbero, per tal verso, l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, in quanto attribuirebbero piena valenza probatoria ad un atto a contenuto dichiarativo nei confronti di soggetti rimasti estranei alla sua formazione e che quindi non erano in condizione di far valere, in quella occasione, il proprio diritto di difesa.
Sarebbe leso, inoltre, il principio del «contraddittorio nella formazione della prova», enunciato dall'art. 111, quarto comma, Cost., perché si consentirebbe di utilizzare nel processo, ai fini della decisione sul merito della res iudicanda, il contenuto di dichiarazioni rese da uno degli imputati senza che vi sia stata la possibilità di controesaminarlo da parte dei difensori degli altri imputati: e ciò, anche quando non ricorrano le fattispecie di deroga previste dall'art. 111, quinto comma, Cost.
2. – In via preliminare, vanno disattese le eccezioni di inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione sulla rilevanza, formulate dall'Avvocatura generale dello Stato sul duplice rilievo che il giudice a quo avrebbe omesso, da un lato, di indicare l'incidenza sul quadro probatorio complessivo degli interrogatori acquisiti e, dall'altro, di specificare se per tali atti fosse stato dato l'avviso previsto dall'art. 64, comma 3, lettera c), cod. proc. pen.
Il primo rilievo attiene, infatti, al merito della res iudicanda, laddove il quesito di costituzionalità investe il profilo preliminare, di ordine processuale, relativo all'utilizzabilità nei confronti dei coimputati del materiale probatorio acquisito ai sensi dell'art. 503, commi 5 e 6, cod. proc. pen. Non era necessario, quindi, che nell'ordinanza di rimessione si specificasse se gli interrogatori acquisiti fossero concretamente idonei a orientare il giudizio sull'imputazione, essendo questa una valutazione che attiene al momento della decisione, quando, ai sensi dell'art. 546, comma 1, cod. proc. pen., il giudice è tenuto a valutare tutti i risultati probatori per affermarne o escluderne la decisività.
Quanto, poi, al secondo rilievo, la circostanza che il giudice rimettente abbia accertato l'avvenuta formulazione dell'avviso previsto dall'art. 64, comma 3, lettera c), cod. proc. pen. è da ritenere implicita nel fatto che le dichiarazioni, recate dai verbali poi acquisiti, siano state utilizzate, senza alcuna eccezione di parte e senza alcun rilievo d'ufficio, per le contestazioni previste dal comma 3 dell'art. 503 cod. proc. pen., necessariamente preliminari all'acquisizione al fascicolo per il dibattimento.
3. – Nel merito, le questioni non sono fondate.
3.1. – Il giudice a quo muove dal presupposto che, in base alle norme censurate, le precedenti dichiarazioni difformi, rese dall'imputato prima del giudizio e utilizzate per le contestazioni, assumano – una volta acquisite al fascicolo per il dibattimento – piena efficacia probatoria senza limitazioni non solo nei confronti dell'imputato che le ha rese, ma anche dei coimputati.
I commi 5 e 6 dell'art. 503 cod. proc. pen., recherebbero quindi, sotto questo profilo, una disciplina in tema di formazione della prova affatto diversa dalla vigente in forza di altre norme, in particolare quelle di cui agli artt. 238 e 513 cod. proc. pen., che, ammettendo l'utilizzabilità in dibattimento dei verbali contenenti precedenti dichiarazioni rese dall'imputato, la subordinano o alla partecipazione del difensore o al consenso all'acquisizione dell'atto.
Tale ricostruzione delle fattispecie oggetto di rimessione si assume costituire il «diritto vivente, espresso dalla giurisprudenza della Corte di cassazione e dalla stessa Corte costituzionale», ma in contrasto con i parametri costituzionali evocati.
Tuttavia, l'esame delle sentenze di legittimità e costituzionali indicate a sostegno del presupposto interpretativo fatto proprio dal giudice a quo consente di apprezzare che si tratta o di richiami non pertinenti o di decisioni emesse prima della modifica dell'art. 111 Cost., operata dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, e delle conseguenti riforme al codice di procedura penale apportate dalla legge 1° marzo 2001, n. 63. Quindi, i principi affermati in dette decisioni non sono più attuali né conformi ai dati normativi di riferimento.
3.2. – La censura di incostituzionalità involge la più ampia problematica del “valore probatorio” da attribuire agli atti a contenuto dichiarativo assunti nelle fasi precedenti il giudizio per attività unilaterale dei soggetti processuali, in particolare del pubblico ministero.
Il processo penale è ora regolato dal principio del «contraddittorio nella formazione della prova», enunciato dal quarto comma dell'art. 111 Cost., il quale comporta che tutte le parti devono essere poste in grado di partecipare attivamente al momento genetico, e non soltanto di formulare a posteriori valutazioni su elementi acquisiti unilateralmente. Ne discende l'impermeabilità del processo rispetto al materiale raccolto in assenza della dialettica tra le parti.
Per le prove dichiarative, il contraddittorio e il suo necessario corollario della oralità sono ora, nel dibattimento, regola generale – fuori delle tassative fattispecie derogatorie delineate dal nuovo dettato costituzionale – per cui gli istituti che mirano a preservarlo da contaminazioni probatorie fondate su atti unilateralmente assunti nelle fasi antecedenti devono necessariamente essere valutati in coerenza con gli enunciati dell'art. 111 Cost.
La legge n. 63 del 2001, attuativa dei principi del giusto processo, pur avendo mutato la regola di utilizzabilità delle dichiarazioni servite per le contestazioni al testimone e ripristinata l'esclusione probatoria contenuta nella stesura iniziale del codice, ha lasciato inalterata la disciplina prevista dai commi 5 e 6 dell'art. 503 cod. proc. pen.
Derogando al principio d'irrilevanza probatoria delle dichiarazioni rese durante le indagini, si continua a prevedere l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento, se utilizzate per le contestazioni, delle dichiarazioni difformi rese dall'imputato in precedenza, cui il difensore aveva diritto di assistere.
Peraltro e conformemente a quanto stabilito da questa Corte, nella nuova prospettiva indicata dall'art.111 Cost. «l'istituto delle contestazioni – proprio perché configurato quale veicolo tecnico di utilizzazione processuale di dichiarazioni raccolte prima e al di fuori del contraddittorio – non può mai atteggiarsi alla stregua di un meccanismo di acquisizione illimitato e incondizionato di quelle dichiarazioni» (ordinanza n. 36 del 2002; si veda anche già l'ordinanza n. 440 del 2000).
3.3. – L'interpretazione della disciplina censurata offerta dal giudice a quo non può, quindi, essere ritenuta adeguata all'attuale quadro normativo.
In particolare, per quanto concerne l'aspetto che al presente interessa, precise esigenze, non solo di lettura conforme al disposto dell'art. 111, quarto comma, Cost., ma anche – e prima ancora – di coerenza sistematica, rispetto alla regolamentazione complessiva della materia attualmente racchiusa nel codice di rito, impongono di ritenere che il recupero probatorio per effetto delle contestazioni, prefigurato dai commi 5 e 6 dell'art. 503 cod. proc. pen., non operi comunque ai fini dell'affermazione della responsabilità di soggetti diversi dal dichiarante.
Al riguardo, va rilevato, anzitutto, che le regole generali per l'interrogatorio sono state modificate dalla legge n. 63 del 2001. L'art. 64 cod. proc. pen. ora prevede che, prima che abbia inizio l'interrogatorio, la persona deve essere avvisata che le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti e che, se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l'ufficio di testimone. L'avvertimento indica al dichiarante la “sorte” che avranno nel dibattimento le sue dichiarazioni, qualora non intenda avvalersi della facoltà di non rispondere, e la norma è stata ritenuta da questa Corte applicabile anche all'esame dibattimentale dell'imputato, sul presupposto dell'esistenza di una «consistente serie di dati sostanziali i quali depongono per l'appartenenza dei due atti processuali – l'interrogatorio e l'esame – a un medesimo genus» (ordinanza n. 191 del 2003).
In tutti i casi, pertanto, in cui l'imputato – dichiarante erga alios – non versi in situazione di incompatibilità a testimoniare (alla stregua, in particolare, dell'art. 197-bis cod. proc. pen., introdotto anch'esso dalla legge n. 63 del 2001), trova diretta applicazione la disciplina dettata dall'art. 500 cod. proc. pen. per l'esame testimoniale: disciplina a fronte della quale le pregresse dichiarazioni difformi dell'imputato sulla responsabilità altrui, lette per la contestazione, sono utilizzabili dal giudice solo per valutare la credibilità del dichiarante e non costituiscono prova dei fatti in esso affermati (comma 2), salvo ricorrano le speciali ipotesi previste dal comma 4.
Ma la conclusione non può essere diversa neppure quando ricorra una situazione di incompatibilità all'assunzione dell'ufficio di testimone.
Le regole sull'esame testimoniale, di cui al citato art. 500 cod. proc. pen., risultano attualmente richiamate, difatti – in luogo di quelle dell'art. 503 – anche dall'art. 210 cod. proc. pen.: norma questa – parimenti oggetto di profonda revisione da parte della legge attuativa dei principi del giusto processo – che fissa i modi con i quali è possibile acquisire il contributo probatorio delle persone imputate in un procedimento connesso o di un reato collegato, che siano incompatibili come testimoni (quale, tra gli altri, l'imputato di concorso nel medesimo reato, nei cui confronti non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile: ipotesi ricorrente nel giudizio a quo).
Dall'anzidetto rinvio si desume, dunque, che le dichiarazioni contra alios rese da uno di detti imputati nelle fasi anteriori al giudizio, ancorché acquisite al fascicolo del dibattimento a seguito di contestazione, hanno la stessa limitata valenza probatoria delle precedenti dichiarazioni difformi utilizzate per le contestazioni nell'esame testimoniale.
Questa Corte ha d'altro canto stabilito, fin dalla sentenza n. 361 del 1998, che le disposizioni del citato art. 210 cod. proc. pen. – riferite testualmente alla sola ipotesi nella quale nei confronti della persona da esaminare si proceda separatamente – debbano applicarsi anche all'esame del coimputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilità di altri, già oggetto di precedenti dichiarazioni rese all'autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero. E questo ad evitare una disparità di trattamento del tutto irrazionale, posto che «la figura del dichiarante erga alios, sia esso imputato nel medesimo procedimento o in separato procedimento connesso, è sostanzialmente identica, in quanto l'esame sul fatto altrui viene condotto su un imputato che assume l'una piuttosto che l'altra veste per ragioni meramente processuali e occasionali».
Le norme censurate hanno, dunque, all'interno del sistema, un significato diverso da quello ipotizzato dal rimettente, il quale fonda, così, i quesiti di costituzionalità su una erronea premessa ermeneutica. I commi 5 e 6 dell'art. 503 cod. proc. pen. – anche alla stregua del rinvio, operato dal comma 4, all'art. 500, comma 2, dello stesso codice – comportano che le dichiarazioni rese nelle fasi anteriori al giudizio dall'imputato possono essere utilizzate, per quel che concerne la responsabilità dei coimputati, ai soli fini di valutare la credibilità del dichiarante, salvo che gli stessi coimputati prestino consenso all'utilizzazione piena ovvero ricorrano le circostanze indicate dall'art. 500, comma 4. Il che rende coerente la disciplina anche con quanto è disposto dall'art. 513, comma 1, cod. proc. pen., che ammette la lettura in dibattimento delle dichiarazioni rese dall'imputato nelle fasi anteriori, quando egli sia contumace o assente o rifiuti di rendere l'esame, ma significativamente aggiunge che «tali dichiarazioni non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso, salvo che ricorrano i presupposti di cui all'articolo 500, comma 4».
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 503, commi 5 e 6, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 111, quarto comma, della Costituzione, dal Tribunale di Siracusa, sezione distaccata di Augusta, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'1 luglio 2009.