ORDINANZA N. 343
ANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai Signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso con ordinanza del 29 giugno 2007 dalla Corte d’Appello di Bari nel procedimento penale a carico di Barnaba Vincenzo ed altri, iscritta al n. 782 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 luglio 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro.
Ritenuto che, con ordinanza del 29 giugno 2007, la Corte d’Appello di Bari ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui esclude l’applicabilità della nuova disciplina della prescrizione nei processi pendenti dinanzi alla corte d’appello alla data di entrata in vigore della suddetta legge;
che la Corte rimettente riferisce che gli imputati hanno proposto appello avverso condanne riportate in primo grado;
che la questione sollevata – ad avviso del rimettente – è rilevante nel giudizio a quo perché i reati ascritti agli imputati risulterebbero già prescritti, con conseguente obbligo di pronunciare il proscioglimento degli stessi ai sensi dell’art. 129 del codice di procedura penale per estinzione dei reati, qualora fossero applicabili i nuovi termini di prescrizione, fissati dall’art. 157 del codice penale, nel testo sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, se non vi ostasse il disposto dell’art. 10, terzo comma, della stessa legge, per il quale spiegherebbe ulteriore efficacia la normativa abrogata, in ragione dello stato del processo all’atto dell’entrata in vigore della modifica dell’art. 157 cod. pen.;
che, secondo la Corte d’appello di Bari, inoltre, la questione sarebbe non manifestamente infondata, in quanto la legge n. 251 del 2005 ha introdotto nuovi termini di prescrizione che, per molte ipotesi di reato, incluse quelle contestate agli imputati, risultano più brevi di quelli precedentemente previsti dal codice penale;
che la modifica legislativa è stata operata allo scopo di ridurre, in linea generale (e salvo specifiche eccezioni per reati di particolare gravità), il periodo di tempo durante il quale l’imputato può restare assoggettato alle possibili conseguenze dell’intervento penale, con l’intento di incidere anche per tal via sulla durata complessiva dei processi;
che la modifica normativa del regime della prescrizione non è stata motivata da finalità contingenti, né appare mirata a correggere il regime giuridico di singole ipotesi di reato, ma rappresenta il frutto di una generale revisione, per tutti i reati, dei termini di prescrizione degli stessi, ridisegnati sulla base di parametri di calcolo in parte diversi, ed in larga parte più brevi di quelli precedentemente vigenti nel nostro ordinamento penale;
che l’art. 10 della stessa legge ha introdotto, però, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 393 del 2006, un discrimine di natura temporale, in ordine alla applicabilità della nuova disciplina sostanziale dell’estinzione del reato per prescrizione, restando i nuovi termini più brevi inapplicabili a quei reati per i quali il relativo giudizio penale fosse, alla data dell’8 dicembre 2005, già entrato in una fase di impugnazione, di merito o di legittimità;
che tale discrimine comporta l’ultrattività della normativa precedente sui termini di prescrizione, in aperta deroga al principio generale fissato dall’art. 2 cod. pen. secondo cui «se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile»;
che, ad avviso della rimettente, tale discrimine appare di dubbia ragionevolezza, e, conseguentemente, non risulta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale per contrasto con l’art. 3 della Costituzione;
che – ricorda il Collegio a quo – la Corte costituzionale, nella sentenza n. 393 del 2006, ha riaffermato esplicitamente la natura sostanziale dell’istituto della prescrizione penale;
che, secondo la rimettente, da ciò discende che l’istituto della prescrizione non può non essere sottoposto ai medesimi principi generali che regolano tutti gli altri istituti del diritto penale sostanziale in occasione delle modifiche normative, ivi compreso il principio dell’applicazione della disciplina più favorevole, sancito dall’art. 2 cod. pen.;
che, conseguentemente, non può non apparire incongruo – prosegue il Collegio a quo – che il mutamento generalizzato della rilevanza penale nel tempo dei fatti di reato, voluto dal legislatore con un disegno unitario di rivisitazione generale dei termini prescrizionali per tutti i reati, sia poi in concreto applicato in maniera differenziata in funzione della particolare fase processuale in cui trovasi il processo penale al momento della introduzione nell’ordinamento di tali nuove valutazioni sostanziali e finisca in tal modo per condurre a differenti discipline dell’estinzione del reato pur per reati identici e commessi nella stessa epoca;
che la scelta del legislatore del 2005 appare alla Corte rimettente a maggior ragione incongrua ove si pensi che il grado di avanzamento del processo penale non esprime di per sé alcun valore di natura sostanziale, ma rappresenta unicamente un mero dato temporale, legato a fattori molteplici ed estremamente diversificati, derivanti dall’attività o meno di molti soggetti, e spesso anche scaturente da pura casualità;
che, inoltre, la norma impugnata – rileva la stessa Corte – deroga all’art. 2 cod. pen., proprio per quei fatti che, quantomeno sulla base del momento processuale considerato, sono più remoti nel tempo, e, dunque, più affievolite le esigenze di tutela penale;
che, infine, ad avviso del Collegio a quo, non sembra poter giustificare il discrimine temporale introdotto dalla legge del 2005 il rilievo che il passaggio formale di grado del processo incide sul corso della prescrizione interrompendola;
che l’effetto interruttivo che è proprio di diverse attività processuali in tutti i gradi di giudizio comunque non incide – si osserva nella ordinanza di rimessione – sulla durata del termine massimo di prescrizione, che non muta nel suo limite assoluto, e che, rappresentando l’espressione di una valutazione astratta di gravità del reato e della correlata scelta di mantenerne gli effetti, non può che operare egualmente per tutti i fatti oggetto di accertamento penale, e non può essere differenziata in base al concreto avanzamento del singolo processo;
che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata infondata in quanto, ferma restando la necessità di rispettare il principio di retroattività della legge penale più favorevole al reo, il legislatore può graduare nel tempo l’applicazione dei più favorevoli termini di prescrizione, senza per questo violare il principio di uguaglianza.
Considerato che, successivamente all’emanazione della ordinanza di rimessione questa Corte, con sentenza n. 72 del 2008, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251, sollevata in riferimento all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui esclude l’applicabilità della nuova disciplina della prescrizione nei processi pendenti dinanzi alla corte d’appello alla data di entrata in vigore della suddetta legge, per la ragionevolezza della scelta operata, ulteriormente comprovata dal rilievo che tale scelta «mira ad evitare la dispersione delle attività processuali già compiute all’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, secondo cadenze calcolate in base ai tempi di prescrizione più lunghi vigenti all’atto del loro compimento, e così tutela interessi di rilievo costituzionale sottesi al processo (come la sua efficienza e la salvaguardia dei diritti dei destinatari della funzione giurisdizionale)»;
che il giudice a quo non fornisce alcun argomento diverso o ulteriore rispetto a quelli già esaminati e disattesi;
che la questione va, quindi, dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, della norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte d’Appello di Bari, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 ottobre 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Alfio FINOCCHIARO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 ottobre 2008.