ORDINANZA N. 243
ANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e degli artt. 1 e 10 della stessa legge, promossi con ordinanze del 30 marzo dalla Corte d’appello di Napoli, del 1° giugno dalla Corte d’appello di Palermo, del 3 aprile dalla Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, del 5 aprile dalla Corte d’appello di Bologna, del 23 giugno e del 21 aprile 2006 dalla Corte d’appello di Messina rispettivamente iscritte ai nn. 266, 468, 508, 526, 530 e 575 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 35, 44, 47, 48 e 51, prima serie speciale, dell’anno 2006.
Udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che le Corti d’appello di Napoli (r.o. n. 266 del 2006), di Palermo (r.o. n. 468 del 2006), di Messina (r.o. nn. 530 e 575 del 2006) e di Lecce – sezione distaccata di Taranto (r.o. n. 508 del 2006) hanno sollevato, con riferimento agli artt. 3, 97, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui consente l’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento nei soli casi previsti dall’art. 603, comma 2, cod. proc. pen.: ossia quando sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il giudizio di primo grado, e sempre che tali prove risultino decisive;
che analoga questione è sollevata, in riferimento agli artt. 3, 111 e 112 Cost., dalla Corte d’appello di Bologna (r.o. n. 526 del 2006), che censura direttamente l’art. 1 della citata legge n. 46 del 2006;
che le Corti rimettenti (ad eccezione della Corte d’appello di Messina) dubitano, in riferimento ai medesimi parametri, anche della legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge n. 46 del 2006 (indicato solo nella parte motiva dalla Corte d’appello di Napoli), che prevede l’immediata applicabilità della nuova disciplina ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore, stabilendo altresì che l’appello proposto dal pubblico ministero, prima della data di entrata in vigore della legge, avverso una sentenza di proscioglimento sia dichiarato inammissibile;
che, ai fini della rilevanza, le Corti rimettenti − chiamate a delibare appelli proposti dal pubblico ministero avverso sentenze di non doversi procedere per difetto o remissione di querela e per prescrizione del reato (r.o. nn. 266, 468, 508, 530, 575, del 2006), ed avverso una sentenza di assoluzione per difetto di imputabilità ai sensi dell’art. 88 del codice penale (r.o. n. 526 del 2006) − precisano che in forza dell’art. 10 della legge n. 46 del 2006 i giudizi dovrebbero essere definiti con ordinanze non impugnabili di inammissibilità;
che, nel merito, tutte le Corti rimettenti ritengono che l’eliminazione dell’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento, ad opera dell’art. 1 della novella del 2006, violi il principio di parità fra le parti di cui all’art. 111, secondo comma, Cost., in quanto del tutto irragionevolmente viene sottratto ad una sola delle parti (il pubblico ministero) lo strumento processuale indirizzato a veder affermata la propria pretesa;
che, infatti, solo apparentemente il limite all’appello delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero e dell’imputato rispetterebbe il principio di parità, considerato il diverso interesse ad impugnare tali sentenze che fa capo all’organo della pubblica accusa e all’imputato;
che l’esclusione dell’appello delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero, posta a raffronto con il potere dell’imputato di proporre appello avverso le sentenze di condanna, sarebbe invece all’evidenza lesiva del principio di parità;
che l’ablazione integrale del potere impugnatorio della pubblica accusa non troverebbe alcuna giustificazione nella tutela di valori costituzionali di pari rilievo, né sarebbe giustificata dalla posizione istituzionale del pubblico ministero, dalla sua funzione o da esigenze di corretta amministrazione della giustizia;
che la residua possibilità di appello, nelle ipotesi previste dal comma 2 dell’art. 603 cod. proc. pen., non eliminerebbe i profili di incostituzionalità della disciplina censurata, attesa l’assoluta marginalità di esse;
che le Corti rimettenti prospettano altresì la violazione dell’art. 3 Cost. sia sotto il profilo del difetto di ragionevolezza, sia sotto il profilo della disparità di trattamento;
che la scelta legislativa di privare l’organo della pubblica accusa dell’appello delle sentenze di proscioglimento si paleserebbe irragionevole in relazione al mantenimento, in capo al pubblico ministero, del potere di proporre appello avverso le sentenze di condanna (Corti d’appello di Napoli, di Palermo, di Messina e di Bologna); ed in relazione al mantenimento, in capo alla parte civile, del potere di impugnare le sentenze di proscioglimento (Corte d’appello di Messina);
che, quanto alla violazione del principio di uguaglianza, l’art. 593 cod. proc. pen., come novellato, determinerebbe una disparità di trattamento per il cittadino assolto, che risulterebbe «favorito rispetto ad un altro condannato ad una pena ingiustamente troppo mite»: situazione, quest’ultima, nella quale l’organo dell’accusa ha conservato il potere di appello, «pur essendo la lesione sociale più grave nel primo caso e meno nel secondo» (Corte d’appello di Bologna);
che, sempre con riferimento alla dedotta lesione del principio di uguaglianza, sarebbe evidente la disparità di trattamento «tra l’imputato assolto all’esito del giudizio abbreviato e l’imputato assolto all’esito del giudizio ordinario», posto che nella seconda ipotesi il divieto di appellare per il pubblico ministero trova un’eccezione nel caso in cui, dopo il giudizio di primo grado, siano sopravvenute o scoperte nuove prove decisive a carico dell’imputato; con la conseguenza che l’imputato nel giudizio abbreviato godrebbe di un ulteriore ingiustificato beneficio, oltre che di un trattamento sanzionatorio premiale (Corte d’appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto);
che le Corti d’appello di Lecce, di Messina e di Bologna evocano a parametro anche l’art. 112 Cost., assumendo il contrasto della disciplina censurata con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, sul presupposto che a tale principio debba ritenersi connaturata la previsione del potere di impugnazione del pubblico ministero;
che la Corte d’appello di Napoli ritiene inoltre violato anche il principio della ragionevole durata del processo (di cui all’art. 111, secondo comma, ultimo periodo, Cost.) ed a tal fine evidenzia come la novella del 2006 determinerebbe − per effetto della eliminazione dell’appello e della prevista possibilità di proporre ricorso in cassazione − un aumento dei gradi di giudizio con conseguente allungamento dei tempi processuali;
che sempre la Corte d’appello di Napoli censura la disciplina impugnata in riferimento altresì all’art. 97 Cost. (evocato solo in motivazione), sul rilievo che essa determinerebbe «un grave turbamento di carattere strettamente “organizzativo” dell’attività della Suprema Corte», la cui competenza è oggi amplificata, tanto da obbligare a «rivalutare il contenuto di determinati atti e, quindi, ad esercitare un controllo di merito».
Considerato che il dubbio di costituzionalità sottoposto a questa Corte ha per oggetto la preclusione – conseguente alla sostituzione dell’art. 593 del codice di procedura penale ad opera dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) – dell’appello delle sentenze dibattimentali di proscioglimento da parte del pubblico ministero e l’immediata applicabilità di tale regime, in forza dell’art. 10 della stessa legge, ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge medesima;
che, stante l’identità delle questioni proposte, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;
che, successivamente alle ordinanze di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 26 del 2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della citata legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva», e dell’art. 10, comma 2, della stessa legge, «nella parte in cui prevede che l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile»;
che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti ai giudici rimettenti per un nuovo esame della rilevanza della questioni.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
ordina la restituzione degli atti alle Corti d’appello di Napoli, di Palermo, di Lecce – sezione distaccata di Taranto, di Messina e di Bologna.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 2 luglio 2008.