ORDINANZA N. 113
ANNO 2007
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 10, comma 1, lettera c), e 47, comma 1, lettera i), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), promosso con ordinanza depositata il 23 giugno 2005 dalla Commissione tributaria provinciale di Udine, nel giudizio vertente tra Giuseppe De Anna e l’Agenzia delle entrate – Ufficio di Udine, iscritta al n. 478 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2006.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 marzo 2007 il Giudice relatore Franco Gallo.
Ritenuto che, nel corso di un giudizio tributario promosso da un contribuente avverso una cartella di pagamento – nella quale l’Agenzia delle entrate di Udine non aveva riconosciuto la deducibilità, ai fini dell’IRPEF del 2000, dell’assegno di lire 50 milioni, corrisposto in unica soluzione dal medesimo contribuente alla propria coniuge –, la Commissione tributaria provinciale di Udine, con ordinanza pronunciata il 22 giugno 2005 e depositata il giorno successivo, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale: a) dell’art. 10, comma 1, lettera c) [quale sostituito dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 31 maggio 1994, n. 330, recante «Semplificazione di talune disposizioni in materia tributaria», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 27 luglio 1994, n. 473], del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), nella parte in cui non prevede, ai fini dell’IRPEF, la deducibilità dal reddito imponibile dell’assegno (non destinato al mantenimento dei figli) corrisposto al coniuge in unica soluzione, in conseguenza di scioglimento o annullamento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili, nella misura in cui risulta da provvedimenti dell’autorità giudiziaria; b) «implicitamente» e «con consequenzialità inevitabile», dell’art. 47, comma 1, lettera i) [come modificata, a decorrere dal 1° gennaio 2000, dall’art. 13, comma 1, lettera a, del decreto legislativo 23 dicembre 1999, n. 505, recante «Disposizioni integrative e correttive dei D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 314, D.Lgs. 21 novembre 1997, n. 461, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 466, e D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 467, in materia di redditi di capitale, di imposta sostitutiva della maggiorazione di conguaglio e di redditi di lavoro dipendente»], del medesimo d.P.R. n. 917 del 1986, nella parte in cui non comprende tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente e, quindi, nel reddito imponibile, l’importo del predetto assegno percepito dal coniuge;
che, dopo aver premesso che la medesima questione – in relazione all’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986 – è stata già dichiarata manifestamente infondata dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 383 del 2001, il giudice rimettente afferma di voler prospettare «nuovi motivi e diversi profili» di illegittimità costituzionale, tali da indurre la Corte a “rivedere” detta decisione;
che, ad avviso del giudice a quo, la Corte costituzionale, nella citata ordinanza, non avrebbe adeguatamente considerato: a) che l’accordo raggiunto dalle parti, ai sensi dell’art. 5, comma 8, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) [comma introdotto dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, recante «Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio»], circa l’adempimento in unica soluzione – invece che mediante assegni periodici – dell’obbligazione derivante dallo scioglimento o dalla cessazione del vincolo matrimoniale, «vale […] a determinare il “modo” di estinzione dell’obbligazione, ma non ne muta la natura», data la «perfetta equivalenza sotto il profilo giuridico e funzionale» di tale forma di adempimento con quella rappresentata da esborsi periodici, rispetto alla comune finalità di sovvenire il coniuge economicamente piú debole, in conformità ad un provvedimento giudiziario; b) il pagamento una tantum di un assegno al coniuge – in misura corrispondente alla capitalizzazione di un assegno periodico – è fatto idoneo a ridimensionare l’entità dei rilevatori di ricchezza di chi ha effettuato l’esborso e, quindi, ad incidere sulla capacità contributiva del solvens, al pari del pagamento di assegni periodici; c) l’indeducibilità dell’assegno corrisposto una tantum, prevista dal censurato art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986, comporta una ingiustificata disincentivazione del ricorso dei coniugi a tale tipo di assegno, rispetto agli assegni periodici, dalla legge considerati, invece, deducibili;
che, per il rimettente, tali considerazioni evidenzierebbero il contrasto tra il citato art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986 e gli evocati parametri costituzionali, senza che in contrario possano valere i due argomenti a suo tempo addotti dalla Corte costituzionale nella menzionata ordinanza n. 383 del 2001 e basati, il primo, sul fatto che il legislatore gode di ampia discrezionalità nel prevedere o nell’escludere la deducibilità dal reddito imponibile di oneri e spese, e, il secondo, sulla circostanza che l’importo dell’assegno corrisposto una tantum non potrebbe mai essere considerato deducibile dal reddito imponibile di chi lo corrisponde, non risultando detto importo compreso – ai sensi dell’art. 47, comma 1, lettera i), del d.P.R. n. 917 del 1986 – tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente e, quindi, nel reddito imponibile di chi lo ha percepito;
che, in proposito, il giudice rimettente replica, al primo argomento, che la discrezionalità del legislatore incontra, appunto, il limite della ragionevolezza; al secondo, che «nulla osta affinché la Corte dichiari l’illegittimità costituzionale tanto della mancata previsione di deducibilità […] quanto, con consequenzialità inevitabile, la mancata previsione di imponibilità», e ciò perché, «nel chiedere la declaratoria di incostituzionalità della mancata previsione di deducibilità, implicitamente viene richiesto anche la declaratoria della mancata previsione di imponibilità»;
che, quanto alla rilevanza delle sollevate questioni, il giudice a quo si limita ad affermarne la sussistenza;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la Corte dichiari: a) l’inammissibilità della questione relativa all’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986, perché il rimettente ripropone pedissequamente le stesse problematiche già esaminate e risolte dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 383 del 2001; b) la manifesta inammissibilità della questione relativa all’art. 47, comma 1, lettera i), del medesimo d.P.R. n. 917 del 1986, sia perché estranea all’oggetto del giudizio principale, sia perché il rimettente propone un intervento additivo non compreso tra le attribuzioni della Corte costituzionale; c) la manifesta infondatezza, in ogni caso, di entrambe le questioni, perché il giudice a quo erroneamente identifica, sia in relazione al principio di uguaglianza che a quello della capacità contributiva, due situazioni giuridicamente diverse, assimilando il pagamento periodico dell’assegno (situazione che configura una componente reddituale, imponibile per l’accipiens e deducibile per il solvens) al pagamento dell’assegno in unica soluzione (situazione che, invece, realizza uno spostamento patrimoniale di ricchezza, non riferibile ad un singolo periodo di imposta e non configurabile quale componente del reddito, né dal punto di vista dell’accipiens né da quello del solvens).
Considerato che la Commissione tributaria provinciale di Udine dubita, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, della legittimità sia dell’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), nella parte in cui non prevede, ai fini dell’IRPEF, la deducibilità dal reddito imponibile dell’assegno (non destinato al mantenimento dei figli) corrisposto al coniuge in unica soluzione, in conseguenza di scioglimento o annullamento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili, nella misura in cui risulta da provvedimenti dell’autorità giudiziaria; sia – «implicitamente» e «con consequenzialità inevitabile» – dell’art. 47, comma 1, lettera i), del medesimo d.P.R. n. 917 del 1986, nella parte in cui non comprende tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente e, quindi, nel reddito imponibile, l’importo del predetto assegno percepito dal coniuge;
che il giudice rimettente, nel riproporre, in riferimento alla prima delle due disposizioni denunciate, la medesima questione già dichiarata da questa Corte manifestamente infondata con l’ordinanza n. 383 del 2001, afferma di prospettare «nuovi motivi e diversi profili» di illegittimità costituzionale, rispetto a quelli a suo tempo esaminati dalla Corte;
che, secondo la Commissione tributaria provinciale, il vigente testo dell’art. 5, comma 8, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), evidenzierebbe che il pagamento al coniuge di un assegno una tantum, stabilito – sempre secondo la stessa Commissione – per effetto di «un accordo tra privati i quali decidano di capitalizzare la somma dovuta da uno all’altro», è perfettamente equivalente, per natura giuridica, finalità e fondamento normativo, al pagamento di un assegno periodico, stabilito iussu iudicis, perché tali due forme di pagamento costituiscono modi diversi di estinzione della medesima obbligazione ed entrambe presuppongono, «a monte […], un provvedimento giudiziario che dispone tanto l’obbligo della corresponsione quanto l’entità della stessa»;
che, per il rimettente, il denunciato art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986, nel prevedere la deducibilità dall’imponibile dell’IRPEF dell’assegno periodico e l’indeducibilità dell’assegno corrisposto una tantum, determinerebbe una «irrazionale disparità di trattamento» fiscale di due modalità di pagamento equivalenti, finendo «irragionevolmente per disincentivare», mediante la creazione di «svantaggi di ordine economico», il ricorso ad un «istituto previsto dalla legge», quale il pagamento dell’assegno in unica soluzione, con conseguente lesione dei princípi costituzionali di uguaglianza, ragionevolezza e capacità contributiva;
che, ad avviso del giudice a quo, contrariamente a quanto affermato dalla Corte costituzionale nella citata ordinanza n. 383 del 2001, la censurata disposizione non può trovare giustificazione nella discrezionalità del legislatore in tema di individuazione dei casi di deducibilità dall’imponibile di oneri e spese, perché anche tale discrezionalità incontra il limite della ragionevolezza;
che il giudice rimettente, al rilievo (anch’esso contenuto nella suddetta ordinanza della Corte costituzionale) secondo cui la richiesta deducibilità dell’assegno corrisposto una tantum comporterebbe la necessità di regolare, con scelte spettanti al legislatore, la corrispondente obbligazione tributaria in capo al percipiente, oppone che, «nel chiedere la declaratoria di incostituzionalità della mancata previsione di deducibilità, implicitamente viene richiesto anche la declaratoria della mancata previsione di imponibilità»;
che, per la Commissione tributaria, deve essere consequenzialmente dichiarata l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 47, comma 1, lettera i), del d.P.R. n. 917 del 1986, nella parte in cui non comprende tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente e, quindi, nel reddito imponibile, l’importo dell’assegno percepito in unica soluzione dal coniuge;
che la questione concernente l’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986 è manifestamente infondata, non essendo stati prospettati profili diversi da quelli già esaminati da questa Corte nell’ordinanza n. 383 del 2001 o comunque tali da indurre a mutare orientamento;
che, in particolare, la Commissione tributaria provinciale ripropone l’erronea tesi della «perfetta equivalenza» tra il pagamento tramite un assegno periodico e quello tramite un assegno corrisposto in unica soluzione ed afferma che quest’ultimo assegno sarebbe l’effetto di «un accordo tra privati i quali decidano di capitalizzare la somma dovuta da uno all’altro»;
che invece, come questa Corte ha già rilevato nella citata ordinanza, le due suddette forme di adempimento, pur avendo entrambe la funzione di regolare i rapporti patrimoniali derivanti dallo scioglimento o dalla cessazione del vincolo matrimoniale, hanno connotazioni giuridiche e di fatto diverse, tali da legittimare il legislatore a prevedere, nella sua discrezionalità, diversi regimi fiscali;
che, infatti, mentre l’assegno periodico è determinato dal giudice in base ai parametri indicati dal comma 6 dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970, con possibilità di revisione (in aumento o in diminuzione), ai sensi dell’art. 9, comma 1, della stessa legge, invece l’assegno versato una tantum non corrisponde necessariamente alla capitalizzazione dell’assegno periodico, ma è liberamente concordato dalle parti – sia pure con soggezione al controllo di equità da parte del giudice –, al fine di fissare un definitivo e complessivo assetto degli interessi personali, familiari e patrimoniali dei coniugi, tale da precludere ogni successiva domanda di contenuto economico (comma 8 del citato art. 5);
che tali differenze – le quali hanno indotto parte cospicua della dottrina e della giurisprudenza ad attribuire all’accordo per il pagamento una tantum una peculiare natura «transattiva» o «novativa», oltre che «aleatoria» – sono state non irragionevolmente prese in considerazione dal legislatore fiscale nella denunciata disciplina della deducibilità di tali assegni dall’imponibile dell’IRPEF;
che, infatti, il legislatore, nel caso di corresponsione di un capitale una tantum – sicuramente di importo maggiore di un assegno periodico –, ha preferito tutelare l’accipiens (cioè il coniuge economicamente più debole che, ai sensi dell’indicato comma 6 dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970, «non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive») non assoggettandolo a tassazione per il relativo importo e lasciando simmetricamente immutato l’ordinario carico fiscale del solvens, senza prevedere, quindi, alcuna deduzione per tale esborso;
che lo stesso legislatore, nel caso degli assegni periodici, ha invece ritenuto di assimilarli ai redditi di lavoro dipendente assoggettandoli a tassazione in capo al coniuge che li percepisce e correlativamente, al fine di evitare doppie imposizioni, li ha considerati oneri deducibili da parte del coniuge che li corrisponde; e ciò, in ragione sia della loro periodicità (e, quindi, della loro pertinenza a più periodi d’imposta) sia della possibilità di una loro revisione economica per sopraggiunti giustificati motivi;
che, data la diversità delle evidenziate situazioni giuridiche e di fatto, la discrezionalità del legislatore circa l’individuazione dei casi di deducibilità di oneri e spese dal reddito imponibile del solvens è stata esercitata, nella specie, in modo non irragionevole al fine di perseguire finalità sociali di tutela differenziata dei coniugi, tenendo conto della diversità delle situazioni;
che l’accoglimento della sollevata questione di illegittimità costituzionale non farebbe, comunque, venir meno la denunciata disincentivazione del ricorso all’istituto della corresponsione una tantum dell’assegno, ma addirittura l’aggraverebbe, perché il carico fiscale, concentrato in un unico periodo d’imposta, verrebbe trasferito all’accipiens (cioè al coniuge economicamente piú debole) e quest’ultimo – date la progressività dell’IRPEF e l’assenza di un regime di tassazione separata per la somma cosí percepita in unica soluzione – si vedrebbe assoggettato ad aliquote marginali d’imposta superiori a quelle applicabili, in una pluralità di periodi d’imposta, con gli assegni periodici;
che, infine, alla dichiarazione di manifesta infondatezza della questione concernente l’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986 consegue identica pronuncia con riguardo alla questione concernente l’art. 47, comma 1, lettera i), dello stesso d.P.R. n. 917 del 1986;
che, infatti, quest’ultima questione è stata sollevata dal giudice a quo sulla premessa della illegittimità costituzionale dell’indicato art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986, con la conseguenza che la sopra accertata erroneità di detta premessa comporta la manifesta infondatezza della questione medesima.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 10, comma 1, lettera c), e 47, comma 1, lettera i), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Udine, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 marzo 2007.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Franco GALLO, Redattore
Depositata in Cancelleria il 29 marzo 2007.