ORDINANZA N. 436
ANNO 2006
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE “
- Ugo DE SIERVO “
- Romano VACCARELLA “
- Paolo MADDALENA “
- Alfio FINOCCHIARO “
- Alfonso QUARANTA “
- Franco GALLO “
- Gaetano SILVESTRI “
- Sabino CASSESE “
- Maria Rita SAULLE “
- Giuseppe TESAURO “
- Paolo Maria NAPOLITANO “
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 410-bis, comma secondo, del codice di procedura civile, promosso con ordinanza del 30 dicembre 2005 dal Tribunale di Treviso nel procedimento civile vertente tra Simonetto Willmer e la Sinergo s.r.l., iscritta al n. 87 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2006.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nella camera di consiglio del 22 novembre 2006 il Giudice relatore Romano Vaccarella.
Ritenuto che, nel corso di un processo intrapreso da un dipendente nei confronti del proprio datore di lavoro per il risarcimento dei danni derivatigli da un infortunio sul lavoro, il Tribunale di Treviso, con ordinanza del 30 dicembre 2005, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 410-bis, comma secondo, del codice di procedura civile, in riferimento all’articolo 111, comma secondo, della Costituzione;
che il giudice a quo riferisce che il deposito del ricorso introduttivo del processo non è stato preceduto dall’espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione in quanto, avendo la Commissione di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro di Treviso fissato l’espletamento del tentativo di conciliazione oltre il termine di sessanta giorni dalla richiesta, il lavoratore aveva comunicato che non sarebbe comparso perché, «trascorso inutilmente tale termine, il tentativo di conciliazione si considera comunque espletato ai fini dell’art. 412-bis» (art. 410-bis cod. proc. civ.);
che il giudice rimettente – ricordato che, secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 276 del 2000), il tentativo obbligatorio di conciliazione legittimamente incide sul diritto di azione, con un «impedimento obbiettivamente limitato e non irragionevole», in quanto mira a soddisfare l’interesse generale ad evitare un sovraccarico dell’apparato giudiziario ed a favorire la possibilità di un soddisfacimento più celere dei diritti fatti valere in giudizio attraverso la composizione preventiva della lite – osserva che la tutela di superiori interessi pubblici non può tradursi in un mero differimento temporale dell’esercizio della giurisdizione sulla domanda giudiziale, e cioè consentendo che, trascorso il tempo della sospensione, la parte sia comunque affrancata dal praticare un previo tentativo di conciliazione;
che, pertanto, non sarebbe manifestamente infondata – per violazione dell’art. 111, comma secondo, Cost. laddove stabilisce che la legge assicura la ragionevole durata di ogni processo – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 410-bis, comma secondo, cod. proc. civ., in quanto tale disposizione, in combinato disposto con l’art. 412-bis, comma primo, cod. proc. civ., impone, senza possibilità di interpretazioni adeguatrici, di considerare legittima la condotta della parte che abbia omesso di espletare il tentativo di conciliazione perché convocata dalla Commissione di conciliazione ad oltre sessanta giorni dalla richiesta;
che, secondo il giudice rimettente, se la ratio della disposizione è quella di consentire all’interessato una rapida presentazione del ricorso in sede giurisdizionale, evitando il pregiudizio derivante da una intempestiva convocazione da parte della Commissione di conciliazione, non sarebbe consentito omettere completamente l’esperimento del tentativo di conciliazione, se non a prezzo della compromissione degli interessi generali che quella norma dovrebbe presidiare;
che è intervenuto nel giudizio, con la rappresentanza dell’Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri il quale ha concluso per la manifesta infondatezza della questione in quanto, alla luce della sentenza costituzionale n. 276 del 2000, la dilazione sine die dell’esercizio dell’azione giudiziale nell’attesa dell’effettivo espletamento del tentativo di conciliazione, oltre ad essere assolutamente illogica ed irrazionale, finirebbe per confliggere proprio con il principio, richiamato dal giudice a quo e sancito dall’art. 111, comma secondo, Cost., della ragionevole durata di ogni processo;
che, infatti, la norma censurata, col consentire il differimento dell’esercizio dell’azione giudiziale in nome di condivisibili interessi generali, ma solo entro il termine certo e perentorio, del tutto ragionevole, di sessanta giorni dalla richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione, costituirebbe il punto di armonico contemperamento di tutti gli interessi in gioco;
che, diversamente opinando, «la pur commendevole finalità deflattiva delle controversie in materia di lavoro […], se dilatata irragionevolmente oltre ogni certo limite temporale, finirebbe per tradursi, con ogni probabilità, in denegata giustizia, in spregio ai principi costituzionali di certezza dei rapporti giuridici e di ragionevole durata di ogni processo, che proprio il rimettente assume […] violati».
Considerato che il Tribunale di Treviso dubita, in riferimento all’art. 111, comma secondo, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 410-bis, comma secondo, cod. proc. civ., nella parte in cui prevede che, nel processo del lavoro, trascorso inutilmente il termine di sessanta giorni dalla presentazione della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione, esso si considera comunque espletato ai fini dell’art. 412-bis cod. proc. civ.;
che la questione è manifestamente inammissibile alla luce di quanto enunciato proprio dalla sentenza n. 276 del 2000, richiamata dal rimettente, la quale ha ribadito il principio, ripetutamente affermato da questa Corte, che il legislatore può imporre condizioni all’esercizio del diritto di azione se queste, oltre a salvaguardare interessi generali, costituiscono, anche dal punto di vista temporale, una limitata remora all’esercizio del diritto stesso;
che la pretesa del rimettente, secondo la quale «gli interessi generali» dovrebbero comunque prevalere impedendo l’esercizio del diritto di azione fino a quando il tentativo di conciliazione non sia stato effettivamente espletato, non solo è contraddittoria rispetto al parametro costituzionale evocato, ma si risolve nel contrapporre una propria soggettiva valutazione al bilanciamento di interessi, operato dalla legge, che questa Corte ha più volte ritenuto non solo consentito, ma imposto dai valori costituzionali implicati.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 410-bis, comma secondo, del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento all’art. 111, comma secondo, della Costituzione, dal Tribunale di Treviso con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 dicembre 2006.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Romano VACCARELLA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 19 dicembre 2006.