ORDINANZA N. 288
ANNO 2006
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 (Interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate), convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 2002, n. 178, e dell’art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29, della legge 15 dicembre 2004, n. 308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione), promossi con ordinanze del 2 febbraio 2005 dal Tribunale di Terni nel procedimento penale a carico di F.A. ed altro, del 14 marzo 2005 dal Tribunale di Venezia nel procedimento penale a carico di G.L., del 29 giugno 2005 dal Tribunale di Terni nel procedimento penale a carico di A.N. e del 9 novembre 2005 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Asti nel procedimento penale a carico di M.B., rispettivamente iscritte ai nn. 228, 248 e 546 del registro ordinanze 2005 e 47 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 18, 19 e 46, prima serie speciale, dell’anno 2005 e 9, prima serie speciale, dell’anno 2006.
Visti gli atti di costituzione di G.L. e di A.N., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 20 giugno 2006 e nella camera di consiglio del 21 giugno 2006 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick;
uditi gli avvocati Pasquale Giampietro per G.L., Enrico Morigi per A.N. e l’avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto che con le due ordinanze indicate in epigrafe, di analogo tenore, il Tribunale di Terni ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29, della legge 15 dicembre 2004, n. 308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione), nella parte in cui prevede «che i rottami ferrosi siano esclusi dalla normativa sui rifiuti»;
che il giudice a quo premette di essere investito dei processi penali nei confronti di persone imputate del reato di cui all’art. 51, comma 1, lettera a) (nel caso di cui all’ordinanza r.o. n. 228 del 2005), e di cui all’art. 51, comma 1, lettera a), e comma 4 (nel caso di cui all’ordinanza r.o. n. 546 del 2005), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio), per aver trasportato ― rispettivamente, il 21 settembre 2001 e il 18 luglio 2000 ― rifiuti non pericolosi, costituiti da rottami ferrosi, con mezzo non autorizzato;
che il rimettente osserva che l’art. 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE (come modificata dalla direttiva 91/156/CEE e dalla decisione della Commissione 96/350/CE), relativa ai rifiuti, definisce il «rifiuto» come «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi»; e che tale nozione viene richiamata anche dall’art. 2, lettera a), del regolamento CEE 1° febbraio 1993, n. 259/93, relativo ai trasporti transfrontalieri di rifiuti, di diretta applicazione anche alle spedizioni di rifiuti all’interno dei singoli Stati membri, secondo quanto chiarito dalla Corte di giustizia delle Comunità europee;
che la definizione comunitaria di «rifiuto» è stata integralmente recepita nell’ordinamento italiano con l’art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, il quale fa riferimento a «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi»;
che tale formula è stata peraltro oggetto di «interpretazione autentica» ad opera dell’art. 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 (Interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate), convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 2002, n. 178, il quale ha stabilito, al comma 1, che le locuzioni «si disfi», «abbia deciso», e «abbia l’obbligo di disfarsi» designano, rispettivamente, l’avviamento, la volontà di destinare e l’obbligo di avviare una sostanza, un materiale o un bene ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del d.lgs. n. 22 del 1997; ha altresì previsto, al comma 2, che le ipotesi di cui alle lettere b) e c) del comma 1 («abbia deciso» e «abbia l’obbligo di disfarsi») non ricorrono per i «beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo», se gli stessi «possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente», ovvero «dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’allegato C» del d.lgs. n. 22 del 1997;
che a seguito di ricorso in via pregiudiziale, ex art. 234 del Trattato CE, proposto dallo stesso giudice a quo nell’ambito del processo di cui all’ordinanza r.o. n. 546 del 2005, la Corte di giustizia delle Comunità europee, con sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, ha ritenuto l’anzidetta «interpretazione autentica» contrastante con la definizione di cui all’art. 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE, in quanto atta a sottrarre alla qualificazione come «rifiuto» residui di produzione o di consumo corrispondenti a detta definizione;
che la Corte europea ha in particolare osservato che «materiali come quelli oggetto del procedimento principale non sono riutilizzati in maniera certa e senza previa trasformazione nel corso di un medesimo processo di produzione o di utilizzazione, ma sono sostanze o materiali di cui i detentori si sono disfatti», i quali ― stando alle dichiarazioni dell’imputato ― «sono stati successivamente sottoposti a cernita ed eventualmente a taluni trattamenti», in vista dell’impiego come «materia prima secondaria destinata alla siderurgia»: prospettiva nella quale, tuttavia, essi «devono conservare la qualifica di rifiuti finché non siano effettivamente riciclati in prodotti siderurgici», poiché soltanto «a partire da tale momento, essi non possono più essere distinti da altri prodotti siderurgici scaturiti da materie prime primarie»;
che, a brevissima distanza temporale dalla sentenza della Corte europea, è tuttavia intervenuta la legge 15 dicembre 2004, n. 308, la quale, nel conferire al Governo una delega per il riordino della legislazione in campo ambientale, contiene, all’art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29, alcune disposizioni di immediata applicazione in tema di rifiuti, apertamente contrastanti ― ad avviso del giudice a quo ― con i dicta della sentenza stessa;
che la citata legge n. 308 del 2004 mantiene, infatti, espressamente «fermo» il disposto dell’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002 (art. 1, comma 26, della legge), già censurato dalla Corte europea, e, nel contempo, esclude taluni materiali, qualificabili come rifiuti, dalla relativa disciplina;
che, con particolare riferimento ai rottami metallici, mentre la sentenza afferma che essi non costituiscono materie prime secondarie, ma devono conservare la qualifica di rifiuti finché non siano effettivamente riciclati in prodotti siderurgici; l’art. 1, comma 29, della legge, aggiungendo una lettera q-bis) all’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 1997, porrebbe un principio esattamente contrario, qualificando come «materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche» i «rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero e rispondenti a specifiche CECA, AISI, CAEF, UNI, EURO o ad altre specifiche nazionali e internazionali, nonché i rottami scarti di lavorazioni industriali o artigianali o provenienti da cicli produttivi o di consumo, esclusa la raccolta differenziata, che possiedono in origine le medesime caratteristiche riportate nelle specifiche sopra menzionate»;
che in pratica, dunque ― reiterando la regola già respinta dalla Corte di giustizia ― i rottami ferrosi verrebbero sottoposti al regime delle materie prime e non a quello dei rifiuti, purché abbiano determinate caratteristiche merceologiche e siano destinati in modo oggettivo ed effettivo all’impiego nei cicli produttivi siderurgici o metallurgici;
che le disposizioni considerate si porrebbero di conseguenza in contrasto con l’art. 11 Cost., che impone l’osservanza degli impegni internazionali, e soprattutto con il novellato art. 117 Cost., a norma del quale la potestà legislativa è esercitata dallo Stato nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario: vincoli che ― alla luce della giurisprudenza di questa Corte ― scaturiscono anche dalle sentenze interpretative della Corte di giustizia;
che il contrasto fra le nuove disposizioni e la Costituzione non potrebbe essere, d’altro canto, risolto con lo strumento della diretta disapplicazione delle prime da parte dei giudici e degli organi amministrativi − secondo quanto pure prefigurato dalla giurisprudenza costituzionale, nei casi di incompatibilità delle norme interne con l’ordinamento comunitario nell’interpretazione datane dalla Corte europea − per molteplici ragioni;
che in primo luogo, infatti, andrebbe registrata l’esistenza di un contrasto, nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, riguardo alla possibile incidenza delle sentenze della Corte di giustizia sulla nozione di «rifiuto», così come interpretata dall’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002;
che tale incidenza viene in effetti esclusa da alcune pronunce, sul duplice rilievo che la definizione comunitaria di rifiuto è contenuta in una direttiva e che l’interpretazione pregiudiziale di spettanza della Corte di giustizia non riguarda gli atti del legislatore nazionale; mentre viene ammessa da altre decisioni, anche perché detta definizione risulta recepita nel regolamento CEE n. 259/93, relativo ai trasporti transfrontalieri;
che permarrebbe, quindi, «una notevole incertezza del diritto», con possibili disparità di trattamento, in un settore pure di particolare rilievo per la tutela ambientale; con conseguente compromissione anche dei principi di legalità e di uguaglianza sanciti dalla Costituzione;
che in secondo luogo, poi, la diretta applicazione della nozione comunitaria di «rifiuto», nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia, comporterebbe conseguenze sfavorevoli per i cittadini italiani anche sul piano penale: quando, invece, è la stessa Corte di giustizia, nella citata sentenza 11 novembre 2004, a ricordare che «una direttiva non può avere l’effetto, di per sé e indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni»;
che in terzo luogo, e da ultimo, la giurisprudenza costituzionale dianzi richiamata, relativa ai rapporti tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale, è intervenuta anteriormente alla modifica dell’art. 117 Cost., che oggi impone espressamente al legislatore di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario: donde l’esigenza ― di fronte ad una legge interna che, come quella impugnata, violi «platealmente» la nuova regola costituzionale ― di sottoporre comunque a questa Corte il denunciato vulnus;
che non varrebbe obiettare che, in tal modo, si richiederebbe alla Corte una pronuncia diretta a modificare in peius il trattamento penale del cittadino: pronuncia alla quale osterebbe il principio di stretta legalità sancito dal secondo comma dell’art. 25 Cost., il quale esclude che la Corte costituzionale possa introdurre in via additiva nuovi reati, ovvero ampliare o aggravare figure di reato già esistenti, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore;
che nella specie, infatti, il reato per cui si procede è presente nell’ordinamento nazionale sin dal 1997, né se ne richiede alcun aggravamento: invocandosi, di contro, soltanto la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma successiva che ne ha ristretto il campo di applicazione, in contrasto con la disciplina comunitaria; con l’effetto di ripristinare l’originaria portata della disposizione che aveva correttamente recepito la disciplina medesima;
che la questione sarebbe infine rilevante nei giudizi a quibus ― nei quali si procede proprio per una violazione degli obblighi, penalmente sanzionati, relativi a rottami metallici qualificati come rifiuti ― in quanto, ove tale qualifica venisse meno per effetto delle norme impugnate, il reato contestato non sarebbe ipotizzabile;
che in entrambi i giudizi di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e comunque infondate;
che nel giudizio di costituzionalità relativo all’ordinanza r.o. n. 546 del 2005 si è altresì costituito A. N., imputato nel giudizio a quo, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o infondata;
che, con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Venezia ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, convertito, con modificazioni, in legge n. 178 del 2002, e dell’art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29, della legge n. 308 del 2004, nella parte in cui prevedono «che i rottami ferrosi siano esclusi dalla disciplina normativa concernente la gestione dei rifiuti»;
che il giudice a quo premette di essere investito dell’appello proposto dal pubblico ministero, ai sensi dell’art. 322-bis del codice di procedura penale, avverso l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari che aveva respinto la richiesta di convalida del sequestro preventivo di 6.149 tonnellate di rottami ferrosi, operato in via d’urgenza dalla polizia giudiziaria in ambito portuale il 25 gennaio 2005 a norma dell’art. 321, comma 3-bis, cod. proc. pen., ovvero di emissione di un autonomo provvedimento di sequestro preventivo;
che il predetto carico di rottami ferrosi, oggetto di spedizione dalla Russia, era destinato al trasporto ed alla successiva consegna ad una acciaieria cremonese tramite la mediazione di una società a responsabilità limitata, al cui amministratore era stato quindi contestato il reato di cui all’art. 51, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, per aver effettuato, in assenza della prescritta autorizzazione, attività di «recupero», o comunque di «gestione», di rifiuti non pericolosi;
che il Giudice per le indagini preliminari aveva motivato la decisione di rigetto rilevando, da un lato, la contraddittorietà del quadro normativo ― conseguente alla circostanza che alla sentenza della Corte di giustizia 11 novembre 2004 era seguita l’entrata in vigore della legge n. 308 del 2004, la quale aveva mantenuto «fermo» il disposto dell’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, dichiarato non conforme al diritto comunitario da detta pronuncia ― e la conseguente configurabilità di una ignoranza inevitabile della legge penale; e, dall’altro lato, il fatto che la sentenza in parola, interpretativa di una direttiva, non poteva comunque fondare una responsabilità penale in capo ad un soggetto per un fatto commesso, come nel caso di specie, dopo l’entrata in vigore della legge n. 308 del 2004 e che, in base ad essa, non costituiva dunque reato;
che avverso il provvedimento aveva proposto appello il pubblico ministero, insistendo nella domanda di adozione della misura cautelare reale, previa disapplicazione delle norme di diritto interno contrastanti con il diritto comunitario, ed eccependo, in via subordinata, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29, della legge n. 308 del 2004;
che, al riguardo, il Tribunale rimettente osserva come, nell’ordinamento italiano, la gestione dei rifiuti trovi la sua fonte primaria di disciplina nel d.lgs. n. 22 del 1997, di attuazione delle direttive 75/442/CEE, 91/156/CEE e 94/62/CE, il cui art. 6, comma 1, lettera a), definisce il concetto di «rifiuto» sulla base di due criteri, come «qualsiasi sostanza o oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi»;
che, quanto al primo criterio ― quello dell’appartenenza alle categorie di cui all’allegato A ― tale allegato riprende l’elenco dei rifiuti contenuto nell’allegato I della direttiva 75/442/CEE: elenco, peraltro, «puramente indicativo», giacché accanto a «voci nominate», esso contiene un riferimento «in bianco» a «qualunque (altra) sostanza o prodotto che non rientri nelle categorie sopra indicate» (voce Q 16);
che, quanto al secondo criterio ― attinente alle condotte relative al «disfarsi» ― l’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002 ha fornito «una interpretazione autentica» della nozione di rifiuto di cui all’art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, specificando che le espressioni «si disfi», «abbia deciso» e «abbia l’obbligo di disfarsi» vanno lette nel senso che, affinché un residuo di produzione o di consumo sia sottratto alla qualifica di «rifiuto», è sufficiente che esso sia o possa essere riutilizzato in qualunque ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza recare danni all’ambiente, vuoi previo trattamento ma senza operazioni di recupero ai sensi dell’allegato II B della direttiva 75/442/CEE: e ciò al fine di escludere dal novero dei rifiuti i residui di produzione o di consumo idonei ad essere riutilizzati, ossia i c.d. sottoprodotti dei quali un’impresa non ha intenzione di disfarsi, ma che intende sfruttare o commercializzare a condizioni favorevoli in un processo produttivo, senza operare trasformazioni preliminari;
che tale «interpretazione autentica» è stata giudicata peraltro non conforme al diritto comunitario dalla Corte di giustizia delle Comunità europee, la quale, con sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, ha affermato che, alla luce della ratio di tutela delle citate direttive, può anche ammettersi che un residuo di produzione sia considerato sottoprodotto di cui l’impresa non ha intenzione di disfarsi, ma solo a condizione che il suo riutilizzo sia certo e non meramente eventuale, e che esso avvenga nel corso del processo di produzione: onde l’anzidetta «interpretazione autentica» viene a sottrarre alla qualifica di «rifiuto» residui di produzione o di consumo che corrispondono alla definizione sancita dall’art. 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE;
che, in particolare, secondo la Corte di giustizia, i rottami ferrosi, dei quali si prevede la riutilizzazione come materia prima secondaria nella siderurgia, non perdono la qualifica di rifiuti fino a quando non siano effettivamente trasformati in prodotti siderurgici;
che, alla stregua di tale principio, i rottami ferrosi di cui è stato negato il sequestro nel giudizio a quo dovrebbero dunque conservare la qualificazione di «rifiuti» fino al momento della trasformazione in prodotti siderurgici, risultando oggetto di dismissione da parte degli originari produttori e di conferimento ad altri utilizzatori, con destinazione al reimpiego in processo produttivo distinto da quello di derivazione;
che, tuttavia, la successiva legge n. 308 del 2004, recante delega al Governo per il riordino della legislazione in materia ambientale, ha dettato alcune disposizioni di immediata applicazione (art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29), le quali, in luogo di adeguare l’ordinamento interno alla sentenza della Corte di giustizia, mantengono «fermo» il disposto dell’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002 (art. 1, comma 26, della legge); ed introducono, altresì, una definizione di «materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche» (nuova lettera q-bis dell’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 1997) nettamente contrastante con le indicazioni dell’anzidetta sentenza, sottoponendo i rottami metallici al regime delle materie prime (anziché a quello dei rifiuti) a prescindere dall’avvenuta trasformazione in prodotti siderurgici, purché abbiano determinate caratteristiche merceologiche e siano destinati in modo oggettivo ed effettivo al reimpiego nei richiamati cicli produttivi;
che il contrasto tra la sentenza della Corte di giustizia e le norme interne non potrebbe essere risolto tramite la disapplicazione dell’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002 e dell’art. 1, commi da 25 a 29, della legge n. 308 del 2004, cui osterebbe la circostanza che da una simile operazione deriverebbero effetti penali sfavorevoli nei confronti della persona sottoposta alle indagini: onde essa si scontrerebbe con il principio della riserva di legge, sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale, ponendosi come «principio fondamentale del nostro ordinamento costituzionale», rappresenterebbe ― alla stregua degli insegnamenti tanto della Corte costituzionale che della stessa Corte di giustizia ― un limite alla penetrazione, diretta e prevalente, delle regole di diritto comunitario nell’ordinamento interno;
che, al tempo stesso, però, occorrerebbe considerare come, nella specie, l’antinomia fra norme interne e diritto comunitario non derivi dalla mancata o inadeguata attuazione «originaria» di quest’ultimo da parte del legislatore nazionale, quanto piuttosto dalla modificazione di una norma interna preesistente, finalizzata espressamente all’attuazione degli obblighi comunitari;
che, in questa prospettiva, il Tribunale ritiene di dover sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna «abrogatrice» di ogni forma di tutela nella materia de qua ― norma interferente con l’ambito di applicazione tanto della direttiva 75/442/CEE che del regolamento CEE n. 295/93 ― per violazione degli artt. 11 e 117 Cost., i quali attribuirebbero una particolare «capacità di resistenza» alle norme (penali e non) attuative di vincoli comunitari già adempiuti;
che la questione sarebbe rilevante nel giudizio a quo, posto che la configurabilità della fattispecie contravvenzionale, che fornisce il titolo alla domanda di cautela reale, dipende, nel caso concreto, dalla possibilità di qualificare o meno come «rifiuti» i rottami metallici di cui è chiesto il sequestro;
che la questione risulterebbe altresì ammissibile, non venendo in rilievo la preclusione che – a fronte della riserva di legge prevista dall’art. 25, secondo comma, Cost. − la Corte costituzionale incontra nell’adozione di pronunce che diano luogo a modifiche in peius del trattamento penale: giacché, alla luce della stessa giurisprudenza costituzionale, sono comunque suscettibili di sindacato di costituzionalità, anche in malam partem, le norme penali «di favore», le quali stabiliscano, cioè, per determinate soggetti o per determinate categorie di beni, un trattamento penalistico più favorevole rispetto a quello che deriverebbe dall’applicazione di norme generali o comuni;
che se il principio di cui al citato art. 25, secondo comma, Cost. mira ad assicurare che la «funzione incriminatrice» sia riservata in ogni caso al Parlamento, esso non verrebbe infatti scalfito nell’ipotesi in questione, giacché l’ablazione delle norme denunciate si limiterebbe a ricondurre la fattispecie da esse regolata alla norma generale preesistente, dettata dallo stesso legislatore;
che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata;
che in detto giudizio si è inoltre costituito G. L., persona sottoposta alle indagini nel procedimento a quo, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o manifestamente infondata;
che, con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Asti ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., dell’art. 1, commi 25 e 29, della legge n. 308 del 2004, limitatamente ― quanto al citato comma 29 ― alla parte in cui aggiunge la lettera q-bis) all’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 1997;
che il giudice a quo premette, in punto di fatto, che la locale Procura della Repubblica aveva svolto indagini preliminari nei confronti dell’amministratore unico di una società a responsabilità limitata, per il reato di gestione non autorizzata di rifiuti non pericolosi di cui all’art. 51, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, in relazione alla cessione ad acciaierie di rottami ferrosi sui quali la predetta società aveva eseguito operazioni di cernita e di adeguamento volumetrico, finalizzate ad ottenere materiali conformi alle c.d. «specifiche CECA»: fatti, questi, accertati a seguito di sopralluoghi effettuati nel corso degli anni 2003 e 2004;
che, ad avviso del pubblico ministero, la tesi difensiva della persona sottoposta alle indagini ― secondo la quale, a seguito delle indicate operazioni di recupero, i rottami avrebbero perso la natura di «rifiuti» per assumere quella di «materia prima secondaria» ― troverebbe una base normativa, oltre che nel decreto ministeriale 5 febbraio 1998, anche nella lettera q-bis) dell’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 1997, aggiunta dall’art. 1, comma 29, della legge n. 308 del 2004, nonché nel disposto dei commi 25, 26, 27 e 28 del medesimo art. 1;
che, su tale premessa, il rappresentante della pubblica accusa aveva peraltro sollevato questione di legittimità costituzionale di tutte le norme primarie sopra indicate per contrasto con gli artt. 11 e 117 Cost., in quanto idonee a determinare un’ingiustificata restrizione della sfera di operatività della direttiva CEE in materia di rifiuti, chiedendo, in subordine ― qualora la questione fosse ritenuta manifestamente infondata ― l’archiviazione del procedimento;
che, al riguardo, il giudice a quo premette che, conformemente a quanto ritenuto dal pubblico ministero, l’art. 3, comma 3, del d.m. 5 febbraio 1998 ― che esclude, a contrario sensu, dalla disciplina dei rifiuti i prodotti derivanti da attività di recupero destinati in modo effettivo ed oggettivo (come quelli di cui si discute nel procedimento a quo) all’impiego in altri cicli produttivi ― dovrebbe essere disapplicato, trattandosi di norma secondaria contrastante con quella primaria dell’art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, che, recependo fedelmente la definizione data dall’art. 1 della direttiva 91/156/CEE, accoglie una nozione assai ampia di rifiuto, qualificando come tale «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi»;
che, nell’ambito delle norme primarie di cui il pubblico ministero aveva denunciato l’incostituzionalità, risulterebbero peraltro prive di rilievo nel procedimento a quo tanto quelle di cui ai commi 27 e 28 dell’art. 1 della legge n. 308 del 2004, che riguardano i soli fornitori o produttori esteri di rottami, mentre l’indagato è un operatore nazionale; quanto quella di cui al comma 2 dell’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, in quanto, nel caso di specie, secondo la prospettazione dell’accusa, i rottami non venivano utilizzati dalle acciaierie «tal quali», ma solo dopo operazioni di recupero, e si trattava inoltre di materiali dei quali i produttori si erano disfatti oggettivamente: onde la citata disposizione non potrebbe essere utilmente invocata, per difetto dei requisiti da essa previsti, al fine di escludere i rottami stessi dalla categoria dei «rifiuti»;
che, a tale fine, sarebbero invece rilevanti le disposizioni del comma 1 del citato art. 14 e dei commi 25 e 29 dell’art. 1 della legge n. 308 del 2004;
che, rispetto alla prima, tuttavia, la questione di costituzionalità risulterebbe manifestamente infondata, giacché detta disposizione, nel fornire un’interpretazione autentica delle parole «si disfi», «abbia deciso» o «abbia l’obbligo di disfarsi», che compaiono nella definizione di rifiuto di cui all’art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, non attribuirebbe ad esse un significato più circoscritto di quello desumibile dal significato letterale e dall’interpretazione logica delle parole stesse;
che, di contro, risulterebbe non manifestamente infondata la questione di costituzionalità del combinato disposto dei commi 25 e 29 dell’art. 1 della legge n. 308 del 2004, il quale esclude dalla disciplina dei rifiuti, qualificandoli come «materie prime secondarie per attività siderurgiche e metallurgiche», i «rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero e rispondenti a specifiche CECA, AISI, CAEF, UNI, EURO o ad altre specifiche nazionali o internazionali»;
che tale previsione normativa risulterebbe infatti lesiva degli artt. 11 e 117 Cost., sottraendo all’applicazione del regime dei rifiuti materiali che debbono, di contro, sottostarvi a mente della nozione di rifiuto offerta dall’art. 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE;
che la Corte di giustizia delle Comunità europee, con sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, occupandosi in sede di interpretazione pregiudiziale dell’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, ha infatti stabilito che la predetta nozione non deve essere interpretata nel senso di escludere da essa i residui di produzione o di consumo, quando pure possano essere o siano effettivamente riutilizzati in un nuovo ciclo di produzione o di consumo, con o senza trattamento preventivo;
che, non essendo tuttavia le direttive immediatamente efficaci negli ordinamenti dei singoli Stati membri, il giudice nazionale non sarebbe legittimato a disapplicare la legge interna contrastante con esse, onde non resterebbe che sottoporre a scrutinio di costituzionalità le norme in questione, le quali altrimenti imporrebbero l’accoglimento della richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero nel procedimento a quo;
che la questione di costituzionalità, oltre che rilevante, sarebbe altresì ammissibile, dato che non si chiederebbe alla Corte di creare nuove fattispecie di reato, invadendo la sfera di discrezionalità riservata al potere legislativo, ma semplicemente di rimuovere una norma di legge ordinaria contrastante con un principio costituzionale (quale quello della subordinazione del diritto interno al diritto comunitario): ripristinando con ciò l’originaria sfera di operatività della nozione di «rifiuto» già recepita dall’art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, senza alcun intervento sulla disciplina sanzionatoria, già stabilita dal legislatore nazionale e da questo liberamente modificabile;
che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata.
Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano analoghe questioni, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;
che i giudici rimettenti dubitano della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 11 e 117 della Costituzione, dell’art. 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 (Interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate), convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 2002, n. 178, e dell’art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29, della legge 15 dicembre 2004, n. 308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione);
che i giudici a quibus censurano, da un lato, che la legge n. 308 del 2004 (art. 1, comma 26) abbia mantenuto espressamente «fermo» il disposto dell’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002 ― recante «interpretazione autentica» della definizione di «rifiuto» di cui all’art. 6, comma 1, lettera a), del d. legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 ― ancorché la Corte di giustizia delle Comunità europee, con sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, avesse ritenuto la predetta «interpretazione» incompatibile con la nozione di «rifiuto» stabilita dall’art. 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE (come modificata dalla direttiva 91/156/CEE e dalla decisione della Commissione 96/350/CE), in quanto atta a sottrarre alla qualificazione come «rifiuto» residui di produzione o di consumo corrispondenti alla nozione stessa;
che i rimettenti lamentano, altresì, che la medesima legge nazionale abbia in pari tempo introdotto, con l’art. 1, comma 29, nella parte in cui aggiunge una nuova lettera q-bis) all’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 1997, una definizione di «materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche» — sottratta all’applicazione del regime dei rifiuti (commi 25 e 26 dell’art. 1) — apertamente contrastante con le indicazioni della citata sentenza della Corte di giustizia, in particolare per quanto attiene ai rottami ferrosi, oggetto delle condotte di abusiva gestione contestate nei procedimenti penali a quibus;
che, successivamente alle ordinanze di rimessione, è tuttavia intervenuto il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 14 aprile 2006, supplemento ordinario, il quale, in attuazione della delega conferita dall’art. 1 della legge n. 308 del 2004, reca, nella parte quarta (Norme in tema di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati), una nuova disciplina della gestione dei rifiuti, integralmente sostitutiva di quella già contenuta nel d.lgs. n. 22 del 1997;
che, per quanto in questa sede più interessa, il citato d.lgs. n. 152 del 2006 ha espressamente abrogato, all’art. 264, comma 1, lettera l), la norma di interpretazione autentica di cui all’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, direttamente coinvolta nello scrutinio di costituzionalità dal Tribunale di Venezia;
che il medesimo decreto legislativo ha poi introdotto, all’art. 183, comma 1, lettera u), una definizione del concetto di «materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche» contrassegnata da elementi di novità rispetto alla corrispondente definizione di cui alla lettera q-bis) dell’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 1997, censurata da tutti i rimettenti: risultando tale definizione arricchita di requisiti aggiuntivi, destinati, come tali, a circoscrivere la portata del concetto definito e, correlativamente, il novero dei materiali sottratti al regime dei rifiuti;
che, infatti ― oltre alla puntualizzazione per cui la definizione attiene alla materia prima secondaria «la cui utilizzazione è certa e non eventuale»; e al di là del rinvio ad apposito decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro delle attività produttive, per l’individuazione delle «specifiche nazionali e internazionali» (ulteriori rispetto alle specifiche «CECA, AISI, CAEF, UNI, EURO») cui i rottami debbono rispondere al fine di poter fruire della qualificazione in parola ― la disposizione dianzi citata, al numero 1), riconduce alla nozione di «materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche» i «rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero», solo a condizione che quest’ultimo sia «completo»: predicato che non figurava, per converso, nella disposizione pregressa;
che, sotto il profilo ora indicato, la definizione in esame si presenta d’altra parte correlata a quella, di nuova introduzione, di «materia prima secondaria» (senza ulteriori specificazioni), contenuta nella lettera q) del medesimo art. 183, comma 1, ove si qualifica come tale la «sostanza o materia avente le caratteristiche stabilite ai sensi dell’articolo 181», ossia della norma che regola il recupero dei rifiuti, la quale, a sua volta, al comma 12, prevede che «la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino al completamento delle operazioni di recupero», da intendere nei sensi ivi specificati;
che, pertanto ― a prescindere dall’ulteriore sopravvenuta modifica dal quadro normativo di riferimento, rappresentata dall’abrogazione della direttiva 75/442/CEE ad opera della nuova direttiva in materia di rifiuti 2006/12/CE del 5 aprile 2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 27 aprile 2006, n. L 114, ed entrata in vigore il 17 maggio 2006, la quale reca, all’art. 1, paragrafo 1, lettera a), una definizione di «rifiuto» differenziata dalla precedente solo per una limitata variante linguistica (sostituzione della locuzione «abbia deciso … di disfarsi» con l’altra «abbia l’intenzione … di disfarsi») ― gli atti vanno restituiti ai giudici a quibus, ai fini di una nuova valutazione circa la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni sollevate alla luce dello ius superveniens.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
ordina la restituzione degli atti ai giudici a quibus.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2006.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 14 luglio 2006.