ORDINANZA N. 209
ANNO 2006
Commento alla decisione di
Chiara Aytano
Il processo societario imputato di “lesa costituzione” : le assoluzioni della Consulta
(per gentile concessione della Rivista telematica Judicium, Il processo civile in Italia e in Europa)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai Signori:
- Annibale MARINI Presidente
- Franco BILE Giudice
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZAnei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario) e degli articoli da 2 a 17 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’art. 2 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), promossi con ordinanze del 18 ottobre 2004 dal Tribunale di Brescia, del 6 aprile (due ordinanze), dell’11 maggio, del 26 (due ordinanze) e del 13 aprile, del 4 maggio, del 19 aprile e del 7 giugno 2005 dal Tribunale di Napoli, rispettivamente iscritte ai numeri 269, 320, 422, da 439 a 444 e 571 del registro ordinanze 2005 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 21, 26, 37, 38 e 49, prima serie speciale, dell’anno 2005.
Visti gli atti di costituzione di Massimiliano Pellicano e di Gennaro Salvato ed altri, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 2 maggio 2006 e nella camera di consiglio del 3 maggio 2006 il Giudice relatore Franco Bile;
uditi gli avvocati Astolfo Di Amato per Gennaro Salvato ed altri, e l’avvocato dello Stato Antonio Palatiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto che il Tribunale di Napoli, nel corso di nove processi in materia societaria, con altrettante ordinanze di contenuto sostanzialmente identico, emesse il 6 (due ordinanze), il 13, il 19 ed il 26 aprile (due ordinanze), il 5 e l’11 maggio ed il 7 giugno 2005 (r.o. numeri 320, 422, da 439 a 444 e 571 del 2005), ha sollevato d’ufficio – in riferimento all’art. 76 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario), «nella parte in cui, in relazione al giudizio ordinario di primo grado in materia societaria, non indica i principi e criteri direttivi che avrebbero dovuto guidare le scelte del legislatore delegato e, per derivazione», degli articoli da 2 a 17 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’art. 2 della legge 3 ottobre 2001, n. 366);
che ad avviso del rimettente – considerato il contenuto dell’impugnato art. 12 della legge n. 366 del 2001 – «la prima opzione interpretativa, sia in ordine logico sia di scelta […], più consona allo spirito del complesso normativo costituito dalla legge delega e dal decreto legislativo, è quella di ritenere che il legislatore delegante non abbia indicato con sufficiente determinazione i principi e criteri normativi che avrebbero dovuto guidare l’operato del legislatore delegato», che di conseguenza è stato lasciato libero di creare un nuovo modello processuale, completamente diverso dal procedimento ordinario disciplinato dal codice di procedura civile;
che il rimettente ritiene la questione rilevante, in quanto «dalla pronunzia della Corte costituzionale dipende l’applicabilità dell’intera nuova disciplina processuale alla concreta fattispecie»;
che, inoltre, il Tribunale di Napoli – «in via subordinata e per l’ipotesi in cui la Corte dovesse ritenere costituzionalmente legittimo l’art. 12 della legge n. 366/2001» – ha sollevato d’ufficio questione di legittimità costituzionale «degli artt. 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, l0, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e 17 del decreto legislativo n. 5 del 2003, per contrasto con l’art. 76 della Costituzione in quanto emanati eccedendo dai principi e criteri direttivi dettati dalla legge n. 366 del 2001»;
che – secondo quanto afferma al riguardo il rimettente – per evitare il sospetto di incostituzionalità della legge di delega per indeterminatezza e genericità si dovrebbe compiere lo sforzo interpretativo, «già compiuto da altri giudici ordinari», di leggerla nel senso che il legislatore delegante, indicando il principio di «concentrazione del procedimento», si sia riferito alle scansioni previste nel processo ordinario, articolato in una successione di più udienze fisse ed obbligatorie; onde il legislatore delegato avrebbe potuto «riempire» il principio ispiratore della delega solo riducendo i termini previsti nel giudizio di cognizione ordinario per la fissazione di tali udienze e per il deposito di memorie e comparse difensive;
che, viceversa, il decreto legislativo – lungi dal «concentrare» l’attuale rito ordinario – ha in realtà introdotto nell’ordinamento il diverso rito prefigurato dal testo redatto dalla commissione ministeriale per la riforma del processo civile;
che, a sua volta, il Tribunale di Brescia, nel corso di un procedimento civile in materia societaria, con ordinanza emessa il 18 ottobre 2004 (r.o. n. 269 del 2005), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 76, 98 [recte: 97] e 111, primo e secondo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale del decreto legislativo n. 5 del 2003, «limitatamente al titolo II capo I agli articoli 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17»;
che il rimettente – premesso che l’art. 12 della legge n. 366 del 2001 ha delegato il Governo ad «emanare norme […] dirette ad assicurare una più rapida ed efficace definizione dei procedimenti» mediante regole processuali concernenti «la concentrazione del procedimento e la riduzione dei termini processuali» – ritiene che «la sintetica norma contenuta nella legge delega, per evitare il sospetto di incostituzionalità per indeterminatezza e genericità, non possa non essere letta e interpretata [se non] facendo riferimento alla disciplina del vigente processo di cognizione davanti al tribunale ed alle relative scansioni procedimentali, come contenuta nel libro II, titolo I del codice di procedura civile, il rito cioè che sino al 31 dicembre 2003 è stato applicato anche alle controversie societarie e che il legislatore delegante aveva davanti al momento della concessione della delega»;
che, invece, secondo il rimettente, il nuovo rito societario previsto per il processo di cognizione davanti al tribunale costituisce un modello processuale nuovo, che si distacca volutamente sia dal modello del 1942, sia da quello del processo del lavoro del 1973, sia da quello della riforma del 1990, senza neppure l’istituzione di sezioni specializzate;
che, pertanto, secondo il Tribunale, le norme impugnate violerebbero: a) l’art. 3 Cost., sia perché «appare irragionevole introdurre per alcune materie un ulteriore rito speciale ispirato ad un modello processuale completamente diverso da quelli vigenti e che si aggiunge ad essi, senza contestualmente prevedere l’istituzione di giudici specializzati, con evidenti ricadute negative sulla funzionalità del sistema», sia perché il nuovo rito, «rimettendo totalmente alle parti la predisposizione del thema decidendum e del thema probandum, impedisce l’intervento direzionale e correttivo del giudice che costituisce lo strumento per realizzare anche nel processo civile l’eguaglianza sostanziale di tutti i cittadini davanti alla legge»; b) l’art. 76 Cost. «perché appare palese […] la violazione per “eccesso di delega” dei principi e dei criteri direttivi contenuti nella norma delegante, interpretata secondo l’unica lettura costituzionalmente corretta, cioè facendo riferimento al modello del processo di cognizione davanti al tribunale previsto nel codice di procedura civile vigente»; c) l’art. 98 [recte: 97] Cost., «perché posto che non viene prevista alcuna sezione specializzata, appare in contrasto con il principio del buon andamento (applicabile anche agli uffici giudiziari) prevedere che lo stesso giudice sia chiamato ad applicare più riti, fondati su modelli completamente diversi l’uno dall’altro, a seconda delle materie»; d) l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., perché il processo delineato dalle norme impugnate «prevede che tutta la prima fase si svolga senza che il giudice possa intervenire da subito onde garantire il “giusto processo” evitando inutili lungaggini e il compimento di atti nulli o viziati, lascia alle parti piena libertà di far scattare le preclusioni connesse all’istanza di fissazione di udienza»; «non prevede alcun termine massimo per garantire sin dall’inizio la ragionevole durata del processo […], in palese contrasto con il più recente orientamento in materia della Corte europea dei diritti dell’uomo»;
che, nei giudizi promossi con r.o. numeri 422 e 439 del 2005, si sono costituite le parti attrici dei processi a quibus, e, in ciascun giudizio, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e tutti hanno concluso per l’inammissibilità o per l’infondatezza delle questioni.
Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni in parte identiche, riguardanti, tutte, la delega legislativa per la riforma dei procedimenti in materia di diritto societario, per cui i relativi giudizi devono essere riuniti e decisi con unica pronuncia;
che tutte le questioni sono manifestamente inammissibili;
che il Tribunale di Napoli – censurando, in primo luogo, l’art. 12 della legge n. 366 del 2001 (e, «per derivazione», gli articoli da 2 a 17 del decreto legislativo n. 5 del 2003) – muove dalla premessa secondo cui il legislatore delegante non avrebbe «indicato con sufficiente determinazione i principi e criteri normativi che avrebbero dovuto guidare l’operato del legislatore delegato», con ciò lasciando libero quest’ultimo di creare un nuovo modello processuale, diverso dallo schema ordinario disciplinato dal codice di procedura civile;
che il denunciato difetto di idonei criteri direttivi per il legittimo esercizio del potere legislativo delegato è ritenuto dal rimettente come «la prima opzione interpretativa, sia in ordine logico sia di scelta […], più consona allo spirito del complesso normativo costituito dalla legge delega e dal decreto legislativo»;
che radicalmente contraria è, viceversa, l’interpretazione della medesima disposizione di delega posta dal rimettente a base della questione riguardante gli articoli da 2 a 17 del decreto legislativo n. 5 del 2003, sollevata «in via subordinata e per l’ipotesi in cui la Corte dovesse ritenere costituzionalmente legittimo l’art. 12 della legge n. 366/2001»;
che, infatti, in questa diversa prospettiva il rimettente – il quale aveva in precedenza ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della legge di delega per carenza dei principi e criteri direttivi richiesti dall’art. 76 Cost. – sostiene invece che il legislatore delegante avrebbe sufficientemente determinato principi e criteri direttivi, in quanto, con la specifica menzione del principio di «concentrazione del procedimento», si sarebbe riferito alle scansioni previste nel processo ordinario; onde il principio ispiratore della legge di delega avrebbe potuto essere attuato dal legislatore delegato esclusivamente con la riduzione dei termini previsti nel giudizio di cognizione ordinario per la fissazione di tali udienze e per il deposito di memorie e comparse difensive;
che dunque – considerate le modalità con le quali le due questioni sono state prospettate – deve ritenersi che tra di esse non corra il dedotto nesso di subordinazione logico-giuridica della seconda alla prima, e che, invece, l’interpretazione “subordinata”, esposta dal rimettente a sostegno della legittimità della legge di delega (da esso compiutamente argomentata e quasi “suggerita” alla Corte), contraddica radicalmente la diversa lettura della medesima norma premessa alla questione “principale”;
che in tal modo il rimettente – non solo non adempie l’obbligo di ricercare un’interpretazione costituzionalmente orientata di una delle norme impugnate – ma propone, nel medesimo contesto motivazionale, due opzioni ermeneutiche sostanzialmente alternative, così inammissibilmente demandando alla Corte la scelta fra di esse;
che, da parte sua, il Tribunale di Brescia – mentre non censura la norma di delega, ravvisandovi un implicito riferimento al processo ordinario di cognizione previsto dal codice di procedura civile, e quindi una sufficiente determinazione di principi e criteri direttivi – impugna (come il Tribunale di Napoli nelle questioni “subordinate”) l’intero complesso normativo della legge delegata diretto a regolare il procedimento societario di primo grado davanti al tribunale in composizione collegiale (articoli da 2 a 17 del decreto legislativo n. 5 del 2003);
che, tuttavia, le norme impugnate – da un lato – sono caratterizzate da ambiti di applicazione e da effetti del tutto eterogenei e – dall’altro – riguardano destinatari differenti: infatti gli articoli da 2 a 7 disciplinano l’attività preparatoria delle parti; gli articoli da 8 a 16 concernono la fase processuale davanti al giudice; e l’art. 17 riguarda le notificazioni e le comunicazioni da eseguire nel corso del procedimento;
che la scelta di censurare le citate norme del decreto legislativo avrebbe dovuto essere supportata da una specifica motivazione, riferita sia all’effettiva rilevanza della questione sulla singola disposizione concretamente applicabile nel relativo giudizio a quo, sia alla non manifesta infondatezza di ogni dubbio proposto in riferimento a ciascuno dei parametri evocati;
che, inoltre, lo scrutinio di legittimità costituzionale – richiesto con generico riferimento alle disposizioni regolatrici di tutto il procedimento societario di primo grado – coinvolgerebbe anche norme non più (o non ancora) applicabili nel particolare momento processuale in cui la questione è stata posta, onde essa si presenterebbe in parte tardiva, in parte prematura e, comunque, connotata da un rilevante grado di ipoteticità.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario), e, «per derivazione», degli articoli da 2 a 17 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’art. 2 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), sollevata – in riferimento all’art. 76 della Costituzione – dal Tribunale di Napoli, con le ordinanze indicate in epigrafe;
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del decreto legislativo n. 5 del 2003, «limitatamente al titolo II capo I agli articoli 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17», sollevata – in riferimento agli artt. 3, 76, 97 e 111, primo e secondo comma, della Costituzione – dal Tribunale di Brescia, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 maggio 2006.
Annibale MARINI, Presidente
Franco BILE, Redattore
Depositata in Cancelleria il 26 maggio 2006.