SENTENZA N. 31
ANNO 2006
Commento alla decisione di
Clara Fraticelli
Stato, Regioni e sdemanializzazione: la Corte "rafforza" il principio di leale collaborazione
(per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Annibale MARINI Presidente
- Franco BILE Giudice
- Giovanni Maria FLICK ”
- Francesco AMIRANTE ”
- Ugo DE SIERVO ”
- Romano VACCARELLA ”
- Paolo MADDALENA ”
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Maria Rita SAULLE ”
- Giuseppe TESAURO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZAnel giudizio per conflitto di attribuzione tra enti sorto a seguito della circolare dell’Agenzia del demanio, Direzione generale, del 23 settembre 2003, prot. 2003/35540/NOR, avente ad oggetto «Decreto legge 24 giugno 2003 n. 143 convertito con legge 1 agosto 2003 n. 212 recante “Disposizioni urgenti in tema di versamento e riscossione di tributi, di fondazioni bancarie e di gare indette dalla Consip S.p.A., nonché di alienazione di aree appartenenti al Patrimonio e al Demanio dello Stato” pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 185 dell’11 agosto 2003 s.o. n. 131/L», promosso con ricorso della Regione Lombardia notificato il 3 luglio 2004, depositato in cancelleria il successivo 12 luglio 2004 ed iscritto al n. 10 del registro conflitti 2004.
Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 29 novembre 2005 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;
uditi l’avvocato Giuseppe Franco Ferrari per la Regione Lombardia e l’avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto1. – Con ricorso notificato il 3 luglio 2004 e depositato il 12 luglio successivo, la Regione Lombardia ha promosso conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che sia dichiarato che non spetta allo Stato, attraverso l’Agenzia del demanio, disciplinare l’alienazione di aree situate nel territorio della stessa Regione Lombardia, appartenenti al patrimonio e al demanio dello Stato, nei termini e secondo le modalità di cui alla circolare dell’Agenzia del demanio, Direzione generale, del 23 settembre 2003, prot. 2003/35540/NOR, avente ad oggetto «Decreto legge 24 giugno 2003 n. 143 convertito con legge 1 agosto 2003 n. 212 recante “Disposizioni urgenti in tema di versamento e riscossione di tributi, di fondazioni bancarie e di gare indette dalla Consip S.p.A., nonché di alienazione di aree appartenenti al Patrimonio e al Demanio dello Stato” pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 185 dell’11 agosto 2003 s.o. n. 131/L». Secondo la ricorrente, che ha sollecitato l’annullamento – previa sospensione dell’esecuzione – dell’atto impugnato, sarebbero nella specie violati il principio di leale collaborazione e gli artt. 5, 114, 117, 118 e 119 della Costituzione.
La circolare richiamata concerne l’applicazione dell’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003, introdotto dalla relativa legge di conversione. La norma prevede la cessione di aree appartenenti al patrimonio e al demanio dello Stato (escluso quello marittimo), che non siano sottoposte a tutela come beni culturali e ambientali, quando risultino interessate dallo sconfinamento di opere eseguite, entro il 31 dicembre 2002, su fondi attigui di proprietà altrui, in forza di concessioni edilizie o altri titoli legittimanti. Oggetto di alienazione può essere in particolare, nella ricorrenza delle condizioni indicate, un’area eccedente di tre metri il limite delle opere sconfinate nel fondo di appartenenza pubblica.
Secondo la ricorrente, la circolare dell’Agenzia del demanio vincola gli uffici periferici ad alienazioni che non sarebbero consentite dal dettato normativo, e comunque descrive il relativo procedimento escludendo qualunque coinvolgimento dell’ente regionale, sebbene la gestione del demanio lacuale e idroviario, al di là del profilo dominicale, spetti in misura preponderante proprio alle Regioni. Anche sotto questo aspetto, il provvedimento si discosterebbe dalle previsioni di legge: è vero infatti che l’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003 disciplina il procedimento senza far riferimento ad interventi dell’ente regionale, ma la norma non precluderebbe, ed anzi presupporrebbe, meccanismi di consultazione e raccordo.
Nel ricorso si premette, a tale proposito, come l’art. 86 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), stabilisca che alla gestione dei beni del demanio idrico provvedono le Regioni e gli enti locali competenti per territorio, e che i canoni ricavati dalla utilizzazione di quei beni sono introitati dalla Regione. In specifica relazione a tale norma (richiamata nel preambolo), in data 20 giugno 2002, la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione e ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano e unificazione, per i compiti di interesse comune delle Regioni, delle Province e dei Comuni, con la Conferenza Stato-città e autonomie locali), ha convenuto quanto segue: «risultando in alcuni casi particolarmente attive le procedure di “sdemanializzazione” (vendita al privato di aree demaniali), il provvedimento finale di sdemanializzazione potrà essere assunto solo a seguito di parere favorevole delle Regioni e Province autonome, tenuto anche conto degli indirizzi delle Autorità di bacino».
Secondo la ricorrente, una lettura dell’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003 che ne facesse discendere una deroga od un superamento del citato accordo del 2002 comporterebbe una violazione del principio di leale collaborazione ed una menomazione delle attribuzioni regionali di cui agli artt. 5, 114, 117, 118 e 119 Cost. Una interpretazione costituzionalmente orientata, di contro, consentirebbe di raccordare la disposizione alle norme applicative del principio di leale collaborazione, dando luogo alle necessarie forme di interlocuzione dell’ente regionale.
L’impugnata circolare dell’Agenzia del demanio, sollecitando procedure applicative di totale disconoscimento delle attribuzioni regionali in materia di tutela, vigilanza e gestione del demanio della navigazione interna, violerebbe tutte le disposizioni richiamate e «potrebbe assumere il significato di una forma di usurpazione di funzioni regionali».
1.1. – Si assume nel ricorso che lo Stato, mediante l’atto impugnato, avrebbe violato il principio di leale collaborazione sotto un duplice profilo. Il primo consisterebbe nella disapplicazione dell’accordo stipulato il 20 giugno 2002 in sede di Conferenza unificata: un accordo tanto più rilevante, nella prospettazione della ricorrente, in quanto strumentale anche all’assicurazione delle forme di intesa e coordinamento previste dall’art. 118, terzo comma, Cost. in materia di tutela dei beni culturali.
Un secondo e più generale profilo di violazione del principio di leale collaborazione consisterebbe nel totale disconoscimento delle attribuzioni spettanti alle Regioni in materia di demanio idrico e lacuale. Al riguardo è richiamato l’art. 117, terzo comma, Cost. quanto alla potestà legislativa concorrente in materia di governo del territorio, protezione civile, porti, valorizzazione dei beni culturali e ambientali, salvo che per la determinazione dei principî fondamentali. A tali competenze si affiancherebbero quelle in materia di tutela dell’ambiente, di assetto idrogeologico, risorse idriche e difesa del suolo, di lavori pubblici pertinenti a materie di legislazione concorrente. Le Regioni vantano poi, a norma dell’art. 117, quarto comma, Cost., competenza esclusiva a proposito di navigazione interna, turismo, agricoltura, oltre che di lavori pubblici afferenti a dette materie.
La ricorrente assume che l’interlocuzione regionale sarebbe imposta sia dal principio di leale collaborazione sia dall’art. 118, terzo comma, Cost., anche alla luce delle funzioni amministrative progressivamente conferite all’ente regionale, con riferimento ai beni demaniali in questione, in materia di navigazione lacuale, fluviale, lagunare e sui canali navigabili ed idrovie, nonché in materia di porti lacuali e di porti di navigazione interna (artt. 4 e 5 del d.P.R. 14 gennaio 1972, n. 5, recante «Trasferimento alle regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di tranvie e linee automobilistiche di interesse regionale e di navigazione e porti lacuali e dei relativi personali ed uffici»; artt. 97 e 98 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, recante «Attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382»; art. 105 del d.lgs. n. 112 del 1998). Vengono nel ricorso evocate, inoltre, le competenze regionali riguardo al litorale marittimo, alle aree immediatamente prospicienti ed alle aree del demanio lacuale e fluviale che siano destinate ad uso turistico e ricreativo, nonché in tema di sicurezza dei natanti addetti alle linee di navigazione interna (rispettivamente, art. 59 e art. 86 del d.P.R. n. 616 del 1977). Analogo richiamo concerne le opere idrauliche, parte delle dighe, la polizia idraulica, le concessioni estrattive dai corsi d’acqua e di spiagge, la difesa delle coste (art. 89 del d.lgs. n. 112 del 1998). Si rammenta dalla ricorrente, infine, che l’art. 86 del citato d.lgs. n. 112 del 1998 assegna alle Regioni e agli enti locali competenti per territorio la gestione del demanio idrico, e che i canoni ricavati dalla relativa utilizzazione sono introitati dalla Regione.
In coerenza con tale ultima disposizione, la Regione Lombardia ha regolato con l’art. 11 della legge 29 ottobre 1998, n. 22 (Riforma del trasporto pubblico locale in Lombardia), la destinazione dei canoni di concessione, riferendola in parte ai Comuni a titolo di corrispettivo per le funzioni amministrative delegate, ed in parte al finanziamento del programma degli interventi regionali sul demanio delle acque interne. Ciò premesso, nella prospettazione della ricorrente l’abbattimento del gettito ricavabile dai beni oggetto di cessione, in base all’applicazione dell’art. 5-ter del d.l. n. 143 del 2003, sarebbe suscettibile di compromettere l’esercizio delle funzioni trasferite e l’autonomia finanziaria della Regione.
Nel ricorso viene infine declinato un ulteriore e particolare aspetto dell’asserita violazione del parametro di leale collaborazione. Nella circolare impugnata l’Agenzia del demanio ha sostenuto che la procedura di sdemanializzazione debba essere «comunque» applicata nel caso di opere «che abbiano causato un irreversibile mutamento dello stato dei luoghi tale da rendere l’area inutilizzabile per finalità pubbliche». Secondo la ricorrente (che prospetta anche l’illegittimità sostanziale della prescrizione), la perdurante utilità per il pubblico interesse delle aree impegnate da sconfinamenti non potrebbe essere valutata che dalla Regione, così come sarebbe del resto stabilito, per la Lombardia, da numerose norme di legge (ed in particolare dagli artt. 3, 11, 11-bis e 11-quinquies della citata legge regionale n. 22 del 1998). Neppure per tali fattispecie, tuttavia, la circolare impugnata prevede tempi e modi di consultazione dell’ente regionale.
1.2. – La circolare dell’Agenzia del demanio, secondo la ricorrente, incide sull’autonomia finanziaria e, conseguentemente, legislativa e amministrativa della Regione, assumendo specifico rilievo, data la qualità e quantità delle funzioni regionali concernenti il demanio idrico, nella prospettiva dell’art. 119 Cost. (oltre che degli artt. 117 e 118 Cost.). Sarebbe infatti violato il principio di corrispondenza e contestualità tra funzioni trasferite e attribuzione delle risorse necessarie al relativo assolvimento.
Si illustra nel ricorso come i proventi ricavati dalla gestione del demanio idrico siano posti in compensazione delle risorse da trasferire dal bilancio dello Stato per l’esercizio delle funzioni di cui al Titolo III del d.lgs. n. 112 del 1998, in misura che, a decorrere dal 2001, è stata fissata in 300 miliardi di lire per anno (art. 2 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 12 ottobre 2000, recante «Individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative da trasferire alle Regioni ed agli enti locali per l’esercizio delle funzioni e dei compiti amministrativi in materia di demanio idrico»). La quota della riduzione concernente le singole Regioni è stata indicata nella tabella A in allegato al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 13 novembre 2000 (Criteri di ripartizione e ripartizione tra le Regioni e tra gli enti locali per l'esercizio delle funzioni conferite dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, in materia di demanio idrico).
Un tale sistema di finanziamento, secondo la ricorrente, evidenzia la pertinenza dei canoni ricavati dalle aree del demanio idrico all’insieme delle corrispondenti funzioni regionali, cosicché la doglianza concernente la riduzione di gettito connessa alla dismissione non potrebbe essere dequalificata a mera vindicatio rerum, con conseguente sua inammissibilità.
1.3. – Una ulteriore doglianza, che specificamente attiene alla cessione di aree interessate da vincoli di carattere culturale e ambientale, è prospettata con riguardo alla pretesa violazione dell’art. 118, terzo comma, Cost.
L’ultimo periodo dell’art. 5-ter del d.l. n. 143 del 2003 stabilisce che la normativa sull’alienazione «non si applica, comunque, alle aree sottoposte a tutela ai sensi del testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, di cui al decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, e successive modificazioni». La circolare impugnata recita: «qualora il vincolo gravante sull’area statale interessi anche l’area del privato e su questa sia stata legittimamente realizzata l’opera, il rilascio del relativo titolo edilizio, presupponendo l’acquisizione di tutte le autorizzazioni e dei pareri favorevoli delle autorità preposte alla tutela, estende l’efficacia di queste ultime anche alla porzione di area di proprietà statale che pertanto potrà essere acquisita dal privato».
Secondo la ricorrente, una tale disposizione aggira il disposto dell’art. 146 del testo unico approvato con il decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352), che presume l’interesse paesaggistico delle sponde dei laghi e delle rive dei fiumi, e viola l’art. 27 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326, per il quale i beni di rilievo culturale o ambientale sono assoggettati ai relativi vincoli fino a quando non sia stata effettuata, dalle competenti soprintendenze, la concreta verifica di sussistenza dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico.
1.4. – Un ultimo profilo di violazione del primo comma dell’art. 118 Cost. viene denunciato in relazione al principio di sussidiarietà. La ricorrente sostiene che la convergenza tra l’interesse dei privati all’acquisizione e la ristrettezza dei termini legali di conclusione del procedimento, nella carenza di interlocuzione dei soggetti titolari dei poteri di tutela e vigilanza del demanio idrico e della navigazione, possa implicare concrete lesioni degli interessi pubblici per effetto di errori o comportamenti fraudolenti.
2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, si è costituito in giudizio chiedendo il rigetto della istanza di sospensione e la dichiarazione di inammissibilità o di non fondatezza del ricorso in questione.
Il ricorso sarebbe inammissibile in quanto proposto contro un provvedimento di mera interpretazione ed applicazione dell’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003, dal quale deriverebbero i presunti effetti lesivi delle prerogative regionali, e che però non è stato oggetto di tempestiva impugnazione da parte della Regione. Altra ragione di inammissibilità consisterebbe nella evocazione di parametri (per altro non indicati) non pertinenti o comunque non utilizzati nella esposizione dei motivi.
Il ricorso sarebbe poi inammissibile, in particolare, per le doglianze che prospettano un’incidenza della disciplina della cessione sul gettito derivante dai canoni delle aree interessate. Il resistente, dopo aver premesso che in genere gli sconfinanti non sono concessionari dei fondi di proprietà pubblica, sostiene che le somme ricavate dalla gestione delle aree vengono dedotte dai trasferimenti in favore della Regione, e che dunque non vi sarebbe un interesse ad agire per i canoni non più riscossi a seguito delle cessioni, posto che alla diminuzione di gettito corrisponderebbe, per il meccanismo della compensazione, un aumento dei trasferimenti statali.
Nel merito, il ricorso sarebbe infondato, essendo la normativa pertinente a beni di scarso valore. La stessa Regione, secondo il resistente, limita la materia del contendere ad aree del demanio idrico, che comunque sono interessate da piccoli sconfinamenti e non possono eccedere di oltre tre metri i relativi confini. In questi termini, la materia non attiene realmente alla «gestione» del demanio idrico, cui si riferisce l’accordo siglato tra Stato e Regioni il 20 giugno 2002. Tale accordo, in ogni caso, concerne la gestione dei beni de quibus, e non riguarderebbe dunque il relativo assetto proprietario.
Non sussisterebbero, infine, le condizioni legittimanti una sospensiva dell’atto impugnato.
3. – Con produzioni effettuate in data 2 novembre 2005 l’Avvocatura dello Stato ha reso noto il contenuto di ulteriori provvedimenti assunti dall’Agenzia del demanio, Direzione generale, in rapporto alle prescrizioni dell’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003.
In una circolare indirizzata ai Direttori centrali ed alle Filiali dell’Agenzia, del 10 marzo 2004, prot. 2004/9777/NOR, accanto ad altre specificazioni, si è affermato che, per opere realizzate su aree gravate da vincoli culturali o paesaggistici, il rilascio del titolo edilizio, «sia per la parte delle opere ricadenti nella proprietà privata sia per quelle sconfinate nella proprietà statale», presuppone il rilascio anche di tutte le autorizzazioni (paesaggistiche) e dei pareri favorevoli delle autorità preposte alla tutela del vincolo, con conseguente alienabilità dell’area interessata.
Con nota in data 28 maggio 2004, prot. 2004/19961/NOR, l’Agenzia del demanio ha fornito «chiarimenti» alla Regione Lombardia su parte delle questioni poste ad oggetto dell’odierno ricorso, ribadendo che l’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003 «non prevede l’acquisizione di pareri di carattere tecnico da parte di Amministrazioni locali operando la sdemanializzazione ope legis delle aree in questione», e che ogni considerazione sulla legittimità dell’opera dal cui sconfinamento consegue la cessione del bene demaniale è rimessa, ab origine, agli organi preposti al rilascio del titolo edilizio legittimante.
4. – In prossimità dell’udienza, l’Avvocatura dello Stato ha depositato memoria volta ad ulteriormente contestare l’ammissibilità e la fondatezza del ricorso.
Con l’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003 lo Stato avrebbe compiuto un mero atto di disposizione patrimoniale su cespiti ad esso appartenenti, posto che la cessione presuppone la conformità alla normativa urbanistica delle opere sconfinate, come verificata dagli enti locali e da quelli preposti alla vigilanza sul paesaggio e sui beni culturali. La circolare impugnata, in ogni caso, avrebbe una portata meramente illustrativa della norma di legge da applicare a cura degli uffici destinatari. La stessa eventualità che il provvedimento contenga disposizioni eccedenti o contrastanti con la norma citata non sarebbe sufficiente a rendere ammissibile il ricorso della Regione Lombardia, posto che il giudizio costituzionale non può costituire alternativa a quello comune in punto di legittimità dell’atto amministrativo.
Le fonti normative in materia di consultazione e cooperazione, che nella prospettazione della ricorrente dovrebbero affiancare l’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003, sarebbero in realtà prive di rilevanza. Gli artt. 4 e 9, comma 2, lettera c), del d.lgs. n. 281 del 1997, non imporrebbero affatto che ogni procedimento amministrativo debba presentare passaggi «cooperativi», e l’accordo del 20 giugno 2002 non è richiamato dalla norma cui si riferisce la circolare impugnata.
Osserva l’Avvocatura che, se anche lo Stato avesse errato nel trascurare le intese sottoscritte in precedenza, non potrebbe rimproverarsi all’Agenzia del demanio di non essersi sostituita al legislatore, aggiungendo alla disciplina aspetti procedimentali non previsti. D’altra parte, se una legge nuova prevale su quella anteriore, un tale effetto si manifesterebbe a maggior ragione nel rapporto tra una legge ed un atto non legislativo, come l’accordo del 20 giugno 2002. L’ipotesi di un coordinamento tra le due fonti sarebbe oltretutto foriera di singolari effetti nel merito, dato che imporrebbe addirittura un parere favorevole della Regione quale condizione per la vendita delle aree appartenenti allo Stato.
Infine, a parere del resistente, le conseguenze finanziarie che la Regione attribuisce alla circolare (e cioè una diminuzione delle somme da portare in compensazione) si collegano ancora una volta alla legge. Si ammette nella memoria (e sotto questo aspetto espressamente si emenda l’originaria eccezione di carenza di interesse) che la cessata riscossione dei canoni per le aree sdemanializzate ridonda a carico dell’ente regionale, posto che, sulla scorta dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri del 12 ottobre 2000 e del 13 novembre 2000, la detrazione operata sui trasferimenti dello Stato riguarda un importo «stabilizzato», di poco eccedente gli 84 miliardi di lire. La riduzione prevedibile del gettito sarebbe tuttavia trascurabile, e dunque irrilevante ai fini del ricorso.
5. – In data 14 novembre 2005 l’Avvocatura erariale ha depositato «Nota informativa», secondo la quale, in Lombardia, sono state presentate 1239 istanze ex art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003, con 798 provvedimenti di diniego (80 dei quali sub iudice), e con somme introitate per complessivi € 3.497.630.
6. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la ricorrente, nel ribadire le ragioni a sostegno del proprio assunto, ha osservato che l’appartenenza allo Stato dei beni di cui si tratta non comporterebbe quella «competenza esclusiva» che di fatto viene rivendicata dalla difesa erariale, tanto che i canoni di concessione delle aree del demanio marittimo devono essere determinati d’intesa con le Regioni.
Le forzature della circolare impugnata rispetto alla disciplina effettivamente dettata dal legislatore varrebbero ad escludere che, nella specie, si tenti di superare la preclusione connessa alla intervenuta scadenza dei termini per una questione di legittimità in merito all’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003. Si contesta inoltre, dalla ricorrente, che la norma citata contempli ipotesi di cessione ope legis dei beni appartenenti allo Stato: la stessa Agenzia del demanio, nella misura in cui ipotizza la dismissione delle aree divenute non utilizzabili per finalità pubbliche, prospetterebbe la rilevanza di valutazioni tecniche e discrezionali, indiscutibilmente spettanti alla Regione.
In ogni caso, la circolare impugnata non avrebbe dovuto ipotizzare una «traslazione» delle autorizzazioni concernenti vincoli paesaggistici e culturali dall’area del privato sconfinante all’area demaniale oggetto di parziale occupazione. Più radicalmente ancora, l’Agenzia del demanio non avrebbe dovuto prevedere la cessione di beni del demanio idrico e della navigazione, posto che l’art. 5-bis più volte citato esclude, «comunque», le aree sottoposte a tutela secondo il d.lgs. n. 490 del 1999, e che l’art. 146 del relativo testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali comprende indiscriminatamente tutte le sponde dei laghi e dei fiumi.
Riguardo alla fonte delle procedure di consultazione ignorate dalla circolare impugnata, la ricorrente osserva che un provvedimento amministrativo non può disapplicare un accordo Stato-Regioni, il quale comunque, nella specie, non è indebitamente proposto come parametro rilevante per l’interpretazione adeguatrice (così come preteso dall’Avvocatura erariale), posto che tale parametro è rappresentato, piuttosto, dal principio di leale collaborazione.
Considerato in diritto1. – Con ricorso notificato il 3 luglio 2004 e depositato il 12 luglio successivo, la Regione Lombardia ha promosso conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che sia dichiarato che non spetta allo Stato, attraverso l’Agenzia del demanio, disciplinare l’alienazione di aree, situate nel territorio della stessa Regione, appartenenti al patrimonio e al demanio dello Stato, nei termini e secondo le modalità di cui alla circolare dell’Agenzia del demanio, Direzione generale, del 23 settembre 2003, prot. 2003/35540/NOR, avente ad oggetto «Decreto legge 24 giugno 2003 n. 143 convertito con legge 1 agosto 2003 n. 212 recante “Disposizioni urgenti in tema di versamento e riscossione di tributi, di fondazioni bancarie e di gare indette dalla Consip S.p.A., nonché di alienazione di aree appartenenti al Patrimonio e al Demanio dello Stato” pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 185 dell’11 agosto 2003 s.o. n. 131/L». Secondo la ricorrente, che ha sollecitato l’annullamento – previa sospensione dell’esecuzione – dell’atto impugnato, sarebbero nella specie violati il principio di leale collaborazione e gli artt. 5, 114, 117, 118 e 119 della Costituzione.
2. – Il presente conflitto di attribuzione ha per oggetto un atto dell’Agenzia del demanio, la quale – definita «ente pubblico economico» dall’art. 61, comma 1, del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma dell’organizzazione del Governo, a norma dell’art. 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59), come modificato dall’art. 1 del decreto legislativo 3 luglio 2003 n. 173 (Riorganizzazione del Ministero dell’economia e delle finanze e delle agenzie fiscali, a norma dell’articolo 1 della legge 6 luglio 2002 n. 137) – esercita tuttora le funzioni che erano proprie della Direzione generale del demanio e delle direzioni compartimentali. Con riferimento a queste funzioni, tipiche dell’amministrazione pubblica statale, si deve ritenere che gli atti posti in essere dalla suddetta Agenzia siano riferibili allo Stato, inteso, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, non come persona giuridica, bensì come sistema ordinamentale (sentenza n. 72 del 2005) complesso e articolato, costituito da organi, con o senza personalità giuridica, ed enti distinti dallo Stato in senso stretto, ma con esso posti in rapporto di strumentalità in vista dell’esercizio, in forme diverse, di tipiche funzioni statali.
Il termine Stato deve ritenersi impiegato dall’art. 134 Cost. in un duplice significato: più ristretto quando viene in considerazione come persona giuridica, che esercita le supreme potestà, prima fra tutte quella legislativa; più ampio, quando, nella prospettiva dei rapporti con il sistema regionale, si pone come conglomerato di enti, legati tra loro da precisi vincoli funzionali e di indirizzo, destinati ad esprimere, nel confronto dialettico con il sistema regionale, le esigenze unitarie imposte dai valori supremi tutelati dall’art. 5 Cost.
Questa Corte ha precisato che la proprietà e disponibilità dei beni demaniali spettano – sino all’attuazione dell’ultimo comma dell’art. 119 Cost. – allo Stato «e per esso all’Agenzia del demanio» (sentenza n. 427 del 2004). Nei rapporti con il sistema ordinamentale regionale, l’Agenzia del demanio è pertanto parte integrante del sistema ordinamentale statale. L’uno e l’altro insieme formano il sistema ordinamentale della Repubblica. Al suo interno possono verificarsi conflitti tra organi e soggetti, statali e regionali, agenti rispettivamente per fini unitari o autonomistici, che attingono il livello costituzionale se gli atti o i comportamenti che li originano sono idonei a ledere, per invasione o menomazione, la sfera di attribuzioni costituzionalmente garantita del sistema statale o di quello regionale, anche se non provengono da organi dello Stato o della Regione intesi in senso stretto come persone giuridiche.
È compito della giurisdizione di costituzionalità mantenere un costante equilibrio dinamico tra i due sistemi, perché le linee di ripartizione tracciate dalla Costituzione siano rispettate nel tempo, pur nel mutamento degli strumenti organizzativi che lo Stato e le Regioni sceglieranno via via di adottare per conseguire i propri fini nel modo ritenuto più adatto, secondo i diversi indirizzi politici e amministrativi.
Nel caso di specie, è innegabile che l’impugnata circolare della Direzione generale dell’Agenzia del demanio si pone sul confine tra le sfere di competenza statale e regionale in materia di governo del territorio, in quanto incide contemporaneamente sulla gestione e sulla disponibilità di beni demaniali destinati a soddisfare interessi pubblici delle comunità amministrate, nel quadro dei principî fondamentali posti a tutela dell’intera collettività nazionale. Essa è pertanto atto idoneo, sotto i profili soggettivo ed oggettivo, a far sorgere un conflitto di attribuzione tra la Regione Lombardia e lo Stato, cui sostanzialmente può essere riferito il citato atto dell’Agenzia del demanio.
3. – L’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità del ricorso regionale, in quanto l’impugnata circolare dell’Agenzia del demanio non avrebbe alcun carattere innovativo, limitandosi a dare puntuale esecuzione all’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003, convertito con modificazioni dall’art. 1 della legge n. 212 del 2003. L’eventuale lesione della sfera di attribuzioni regionali sarebbe pertanto – ove esistente – effetto della legge e non dell’atto amministrativo in questione. Ogni doglianza in questa sede da parte della Regione Lombardia sarebbe di conseguenza preclusa dalla mancata impugnazione, entro il termine costituzionale, della norma legislativa statale sopra citata.
3.1. – L’eccezione non può essere accolta.
3.2. – L’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003 disciplina il procedimento di alienazione di aree appartenenti al patrimonio e al demanio dello Stato, escluso il demanio marittimo, interessate dallo sconfinamento di opere eseguite entro il 31 dicembre 2002 su fondi attigui di proprietà altrui. L’alienazione deve avvenire mediante vendita diretta in favore del soggetto legittimato che ne faccia richiesta e può riguardare una superficie che, oltre a quella di sconfinamento, non vada al di là di tre metri dai confini dell’opera eseguita. La disposizione detta le modalità della domanda di acquisto e la documentazione relativa, da prodursi a cura del soggetto richiedente.
La norma sopra ricordata non può essere interpretata al di fuori del contesto normativo e istituzionale in cui si inseriscono tutte le disposizioni riguardanti beni pubblici destinati, per loro natura, a soddisfare interessi ricadenti negli ambiti di competenza dei diversi enti preposti dalla Costituzione e dalla legge al governo del territorio. Il concreto regime giuridico di un bene appartenente al demanio o al patrimonio dello Stato o di altri enti pubblici è la risultante di un intreccio di potestà pubbliche, che sottendono altrettanti interessi meritevoli di tutela delle comunità amministrate. Gli atti di gestione e di disposizione riguardanti tali beni possono assumere, secondo scelte diverse del legislatore, natura pubblicistica o privatistica, ma la qualità degli interessi collettivi tutelati, la loro esistenza, rilevanza e attualità devono essere previamente apprezzati dai soggetti istituzionali competenti.
4. – Nel merito, il ricorso è fondato.
4.1. – La necessaria valutazione ponderata degli interessi pubblici coinvolti esclude che possa procedersi ad una sdemanializzazione ope legis di aree non identificate né dalle amministrazioni competenti né dallo stesso legislatore, ma individuate solo per la loro contiguità ad opere eseguite mediante sconfinamento su terreni demaniali. L’intento del legislatore, fatto palese dalla norma prima ricordata, è quello di accelerare la cessione ai soggetti richiedenti di aree non più utilizzabili per le finalità pubblicistiche originarie, a causa dell’irreversibile mutamento dello stato dei luoghi derivante dall’esecuzione di opere sconfinate in terreno demaniale. Lo stesso legislatore ha cura di escludere in modo assoluto e incondizionato dalla procedura accelerata di alienazione il demanio marittimo e le aree sottoposte a tutela ai sensi del testo unico in materia di beni culturali e ambientali (oggi “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, ai sensi dell’art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137, approvato con decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42).
Non emerge dalla norma statale in questione una volontà di generale declassificazione di aree demaniali, da cedere ai soggetti sconfinanti dietro mera richiesta e pagamento del prezzo. Al contrario, il legislatore statale mostra particolare attenzione a non pregiudicare interessi collettivi primari collegati ai beni pubblici oggetto della specifica disciplina dettata per l’alienazione. Non appare ragionevole un’interpretazione della norma in esame che presuppone, accanto all’esclusione generalizzata di alcune categorie di beni, ispirata ad una logica di forte garanzia dell’interesse pubblico, un altrettanto generalizzato abbandono di tutte le rimanenti aree demaniali, esclusa ogni valutazione concreta da parte delle amministrazioni locali competenti, ispirato all’opposta logica della dismissione incontrollata del patrimonio pubblico. Un consolidato insegnamento ermeneutico impone che, prima di constatare una contraddizione intrinseca nel corpo di una disposizione normativa, si esplori la possibilità di dare al testo da interpretare un significato coerente e ragionevole e solo nell’ipotesi di esito negativo di tale ricerca si concluda per l’irreparabile irragionevolezza della stessa.
Nel caso oggetto del presente giudizio l’interpretazione con esiti contraddittori del citato art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003 non è una strada obbligata, giacché è ben possibile, anzi necessario, interpretare la medesima disposizione come disciplina dei rapporti tra l’amministrazione statale ed i soggetti richiedenti, fermo restando il quadro normativo e istituzionale preesistente, che non risulta superato o alterato da alcuna delle norme in essa contenute. Di tale quadro fanno parte i rapporti tra Stato e Regioni in materia di governo del territorio, con particolare riferimento al demanio idrico, sul quale deve concentrarsi l’analisi giuridica necessaria ai fini dello scrutinio di costituzionalità dell’atto impugnato.
4.2. – L’art. 86 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59) dispone che «Alla gestione dei beni del demanio idrico provvedono le Regioni e gli enti locali competenti per territorio»; il secondo comma aggiunge: «I proventi dei canoni ricavati dalla utilizzazione del demanio idrico sono introitati dalla Regione». I successivi artt. 89 e 105 elencano in modo dettagliato le funzioni conferite alle Regioni e agli enti locali.
Alla luce del nuovo testo dell’art. 118 Cost., dopo la riforma del Titolo V della Parte II, l’attribuzione alle Regioni ed agli enti locali delle funzioni amministrative in materia è sorretta dal principio di sussidiarietà, che implica l’allocazione delle funzioni amministrative al livello di governo il più possibile prossimo alle comunità amministrate. D’altronde, l’esercizio dei poteri dominicali dello Stato nei confronti dei beni del demanio idrico deve necessariamente ispirarsi anche al principio costituzionale di leale collaborazione, proprio perché occorre in concreto bilanciare l’interesse dello Stato proprietario e gli interessi delle collettività locali fruitrici dei beni.
Questa Corte ha costantemente affermato che il principio di leale collaborazione deve presiedere a tutti i rapporti che intercorrono tra Stato e Regioni: la sua elasticità e la sua adattabilità lo rendono particolarmente idoneo a regolare in modo dinamico i rapporti in questione, attenuando i dualismi ed evitando eccessivi irrigidimenti. La genericità di questo parametro, se utile per i motivi sopra esposti, richiede tuttavia continue precisazioni e concretizzazioni. Queste possono essere di natura legislativa, amministrativa o giurisdizionale, a partire dalla ormai copiosa giurisprudenza di questa Corte. Una delle sedi più qualificate per l’elaborazione di regole destinate ad integrare il parametro della leale collaborazione è attualmente il sistema delle Conferenze Stato-Regioni e autonomie locali. Al suo interno si sviluppa il confronto tra i due grandi sistemi ordinamentali della Repubblica, in esito al quale si individuano soluzioni concordate di questioni controverse.
In materia di demanio idrico, in sede di Conferenza unificata è stato sottoscritto, nella seduta del 20 giugno 2002, un accordo rilevante per l’oggetto della presente controversia: «Risultando in alcuni casi particolarmente attive le procedure di “sdemanializzazione” (vendita al privato di aree demaniali), il provvedimento finale di sdemanializzazione potrà essere assunto solo a seguito di parere favorevole delle Regioni e Province autonome, tenuto anche conto degli indirizzi della Autorità di bacino».
Accordi come quello appena citato rappresentano la via maestra per conciliare esigenze unitarie e governo autonomo del territorio, poteri dominicali e interessi delle collettività amministrate. Il principio di leale collaborazione, anche in una accezione minimale, impone alle parti che sottoscrivono un accordo ufficiale in una sede istituzionale di tener fede ad un impegno assunto.
La via di concretizzazione del parametro della leale collaborazione che passa attraverso gli accordi in sede di Conferenza Stato-Regioni appare anche la più coerente con la sistematica delle autonomie costituzionali, giacché obbedisce ad una concezione orizzontale-collegiale dei reciproci rapporti più che ad una visione verticale-gerarchica degli stessi.
Una norma legislativa, come l’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003, intervenuta ad un anno di distanza dal citato accordo, senza che sul punto ci fossero state altre forme di interlocuzione ufficiali ed istituzionali tra Stato e Regioni, si inserisce nel quadro sopra tracciato e deve essere letta al suo interno. Solo in estrema ipotesi si potrebbe concludere per una deliberata ed unilaterale deroga all’accordo da parte dello Stato, a mezzo della norma citata. Come già detto prima, tale conclusione non è autorizzata dal testo della disposizione in parola, che nulla dice a proposito dei rapporti tra istituzioni e si limita a fissare le regole procedurali che devono disciplinare la presentazione delle domande ed i rapporti tra privati e Agenzia del demanio territorialmente competente.
4.3. – L’acquisizione del parere della Regione si colloca in un altro circuito di rapporti, che attiene alla valutazione ponderata degli interessi pubblici in gioco, rispetto ai quali viene in rilievo la competenza regionale in materia di gestione del demanio idrico stabilita dall’art. 86 del d.lgs. n. 112 del 1998, rispetto al quale l’accordo del 2002 si pone esplicitamente in funzione attuativa. Nella premessa del suddetto accordo si legge infatti che «in sede di verifica dell’attuazione dell’art. 86 del […] decreto legislativo n. 112 del 1998 sono emersi alcuni problemi connessi alla piena e corretta attuazione delle disposizioni di cui allo stesso articolo 86 del d.lgs. n. 112 del 1998, esaminati con l’ufficio del Commissario straordinario del Governo per l’attuazione del decentramento amministrativo». Il titolo stesso dell’accordo conferma lo stretto legame con la norma generale di conferimento delle funzioni amministrative sopra citata: «Accordo tra lo Stato, le Regioni e gli Enti locali in materia di demanio idrico ai sensi dell’art. 86 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112».
In mancanza di una chiara e inequivocabile volontà legislativa contraria, si deve ritenere che un’interpretazione sistematica dell’art. 86 del d.lgs. n. 112 del 1998, dell’accordo Stato-Regioni del 20 giugno 2002 e dell’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003 conduca alla conclusione della perdurante attualità del ruolo della Regione nell’apprezzare la sussistenza di eventuali ragioni ostative alla cessione a terzi dei beni del demanio idrico. Al riguardo occorre infatti tener conto della precipua destinazione di tali beni alla soddisfazione di interessi delle comunità regionali e locali, che non possono essere sacrificati in partenza da una generale sdemanializzazione, legata soltanto all’interesse particolare dei privati sconfinanti ed all’interesse finanziario dello Stato, realizzato peraltro in misura modesta.
Il senso dell’art. 86 più volte citato è proprio quello di attribuire all’ente esponenziale della comunità regionale, con la gestione del demanio idrico, tutte le funzioni amministrative inerenti agli interessi pubblici delle collettività locali soddisfatti dai beni del suddetto. È irragionevole, pertanto, un’interpretazione dell’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003 nel senso che lo stesso introduca un’innovazione particolare rispetto al regime giuridico generale precedente, escludendo in modo radicale la Regione da ogni interlocuzione nelle procedure di vendita a terzi dei beni del demanio idrico.
4.4. – L’impugnata circolare dell’Agenzia del demanio si discosta da questo quadro normativo e istituzionale conforme ai principî costituzionali ed omette ogni riferimento alla Regione nello scandire le fasi del procedimento che porta all’atto finale di cessione del bene demaniale al soggetto richiedente. Il diritto all’acquisto dell’area statale interessata dallo sconfinamento è collegato dalla circolare in questione «esclusivamente all’esistenza di un titolo che legittimi sotto il profilo edilizio la realizzazione dell’opera». È agevole notare che invece l’art. 5-bis sopra citato non introduce questa esclusività, ma si limita ad individuare i presupposti in base ai quali il privato può richiedere allo Stato la vendita di beni appartenenti al demanio statale, senza nulla disporre in merito all’eventuale intervento di altri enti nel procedimento, peraltro legato al tipo di demanio di cui trattasi. Appare evidente che l’esistenza o meno di un potere consultivo della Regione nella materia specifica del demanio idrico, nei sensi precisati dal citato accordo del 20 giugno 2002, non incide sui presupposti che legittimano il proprietario dell’area che abbia sconfinato in terreno demaniale a chiedere la cessione in proprietà dell’area occupata, nei limiti stabiliti dalla stessa disposizione di legge. Si tratta di due profili distinti, che finiscono per essere sovrapposti dalla trasformazione di un procedimento accelerato di vendita a privati di porzioni di terreno demaniale in una generalizzata sdemanializzazione ope legis, che annulla ogni potere di apprezzamento da parte della Regione sulla sottrazione all’uso pubblico di beni affidati dalla legge alla sua gestione.
L’intento di escludere l’interlocuzione di altri enti nel procedimento risulta evidente in un altro passo dell’atto impugnato, nel quale testualmente si legge, con riferimento al citato art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003: «Per effetto di tale norma i beni di demanio pubblico interessati dallo sconfinamento che costituiranno oggetto di alienazione sono da considerarsi tacitamente sdemanializzati senza necessità di apposito provvedimento che ne sancisca il passaggio al Patrimonio dello Stato e di acquisizione di ulteriori diversi pareri». Viene pure stabilito, nella circolare in questione, che «devono ritenersi automaticamente sospesi gli eventuali procedimenti amministrativi di sdemanializzazione interessanti tali beni ancora pendenti stante l’effetto conseguito ope legis».
Non spetta a questa Corte, ma al giudice competente, valutare la legittimità dell’atto in relazione alla legislazione ordinaria vigente ed in particolare allo stesso art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003, di cui l’atto stesso si pone come attuazione. Uguale affermazione deve farsi a proposito della previsione, ampiamente censurata dalla ricorrente Regione, di una sorta di automatico effetto traslativo delle autorizzazioni e dei pareri ottenuti dal privato sconfinante per il proprio terreno sulla porzione di terreno demaniale occupato, ancorché lo stesso sia gravato dal vincolo paesaggistico e ambientale, considerato dal medesimo art. 5-bis come ostativo all’inclusione dei beni ad esso sottoposti nel novero di quelli cedibili a terzi con la procedura accelerata prevista.
Ciò che invece deve essere censurato in questa sede è la totale esclusione della Regione dal procedimento delineato dall’atto impugnato. Tale esclusione non è conseguenza necessaria della legislazione ordinaria vigente, che al contrario richiede come indispensabile la partecipazione della Regione in quanto portatrice di interessi costituzionalmente protetti delle collettività locali. La chiusura unilaterale del procedimento prescritto dell’Agenzia del demanio menoma pertanto in modo illegittimo la sfera di attribuzioni della ricorrente e si pone in violazione del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni.
5. – Per i motivi illustrati nei punti precedenti, si riscontra la menomazione della sfera di attribuzioni della Regione ricorrente solo con riferimento ai beni appartenenti al demanio idrico compresi nel territorio regionale. Restano pertanto assorbiti gli altri profili di illegittimità prospettati dalla Regione ricorrente.
6. – La rilevata illegittima menomazione della sfera di attribuzioni costituzionalmente protetta della Regione Lombardia impone, come necessaria conseguenza, l’annullamento dell’atto impugnato nella parte in cui esclude l’intervento della stessa nel procedimento di alienazione di aree appartenenti al demanio idrico. Detto annullamento assorbe la richiesta di sospensione dell’atto stesso.
per questi motiviLA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara che non spetta allo Stato, e per esso all’Agenzia del demanio, escludere la partecipazione delle Regioni al procedimento diretto all’alienazione di aree situate nel territorio della stessa Regione e appartenenti al demanio idrico dello Stato, disciplinato dalla circolare dell’Agenzia del demanio, Direzione generale, del 23 settembre 2003, prot. 2003/35540/NOR, avente ad oggetto «Decreto legge 24 giugno 2003 n. 143 convertito con legge 1 agosto 2003 n. 212 recante “Disposizioni urgenti in tema di versamento e riscossione di tributi, di fondazioni bancarie e di gare indette dalla Consip S.p.A., nonché di alienazione di aree appartenenti al Patrimonio e al Demanio dello Stato” pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 185 dell’11 agosto 2003 s.o. n. 131/L», e conseguentemente
annulla, per quanto di ragione, la predetta circolare dell’Agenzia del demanio.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 2006.
F.to:
Annibale MARINI, Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l’1 febbraio 2006.