ORDINANZA N. 421
ANNO 2005
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Annibale MARINI Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE “
- Ugo DE SIERVO “
- Romano VACCARELLA “
- Paolo MADDALENA “
- Alfio FINOCCHIARO “
- Alfonso QUARANTA “
- Franco GALLO “
- Luigi MAZZELLA “
- Gaetano SILVESTRI “
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, secondo comma, ultima proposizione, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza del 23 agosto 2004 dalla Corte d'appello di Venezia sul reclamo proposto da Simonetta Giatti contro Colorlife di Lanza Simonetta & C. s.n.c., iscritta al n. 979 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell'anno 2004.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 ottobre 2005 il Giudice relatore Romano Vaccarella.
Ritenuto che la Corte d'appello di Venezia, investita di un reclamo proposto – ai sensi dell'art. 22 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) – avverso il decreto in data 5 maggio 2004, con cui il Tribunale ordinario di Rovigo ha respinto l'istanza di un creditore tendente ad ottenere la dichiarazione di fallimento di una società in nome collettivo, ha sollevato, con ordinanza del 23 agosto 2004, questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 1, secondo comma, ultima proposizione, del citato regio decreto n. 267 del 1942 («legge fallimentare»), nella parte in cui non esonera dal fallimento le piccole società commerciali;
che, in punto di fatto, il giudice a quo riferisce che, accertati lo stato di insolvenza della società debitrice e la natura commerciale dell'attività da essa esercitata (commercio al minuto di abbigliamento), l'istanza di fallimento era stata respinta dal Tribunale in quanto la società, tenuto conto delle dimensioni dell'impresa (risultanti dall'impiego di non più di due dipendenti, da un modesto volume di affari e da un modesto reddito d'impresa), doveva qualificarsi piccolo imprenditore ed in quanto l'art. 1, secondo comma, del r.d. n. 267 del 1942 sarebbe stato implicitamente abrogato, nella parte in cui stabilisce che «in nessun caso sono considerate piccoli imprenditori le società commerciali»;
che, in punto di diritto, la Corte territoriale osserva che la Corte costituzionale, dopo aver indicato, nella sentenza n. 570 del 1989, i criteri per definire i limiti dell'assoggettabilità a fallimento – vale a dire il riferimento all'attività svolta, all'organizzazione dei mezzi impiegati, all'entità dell'impresa ed alle ripercussioni che il dissesto produce nell'economia generale; criteri che sembrano applicabili sia all'impresa individuale sia all'impresa collettiva – si è ripetutamente pronunciata nel senso che non contrasta con l'art. 3 Cost. il diverso trattamento riservato dall'ordinamento alle società commerciali, passibili di fallimento anche se di modeste dimensioni, rispetto alle società artigiane, che, avendo i caratteri del piccolo imprenditore, quali previsti dall'art. 2083 del codice civile, non falliscono (sentenze n. 54 del 1991 e n. 266 del 1994);
che da tali pronunce deve desumersi la persistente vigenza dell'art. 1, secondo comma, ultima parte, della legge fall. («in nessun caso sono considerate piccoli imprenditori le società commerciali»), per le società non artigiane;
che il giudice rimettente – pur consapevole di un recente orientamento interpretativo della Corte di cassazione, secondo cui l'ultimo inciso del secondo comma del citato art. 1, poiché operava in relazione alle presunzioni di fallibilità fissate nelle prime due proposizioni dello stesso comma, avrebbe perso significato e possibilità di applicazione a seguito dell'abrogazione implicita della prima presunzione e della dichiarazione di illegittimità costituzionale della seconda (sentenza 21 dicembre 2002, n. 18235) – non ritiene di poter aderire a tale interpretazione, che piegherebbe inammissibilmente la lettera della norma, «la quale non dispone che le due presunzioni citate non valgono se si è in presenza di una società commerciale, e neppure che non vige alcuna presunzione se si è in presenza di società commerciale, bensì dispone che “in nessun caso sono considerate piccoli imprenditori le società commerciali”»;
che, quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo osserva che la disciplina delle società artigiane, dettata dalla legge 8 agosto 1985, n. 443 (Legge-quadro per l'artigianato), è stata modificata, dall'art. 1 della legge 20 maggio 1997, n. 133 (Modifiche all'articolo 3 della legge 8 agosto 1985, n. 443, in materia di impresa artigiana costituita in forma di società a responsabilità limitata con unico socio o di società in accomandita semplice), e, poi, dall'art. 13 della legge 5 marzo 2001, n. 57 (Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati), nel senso che è ora consentito, a determinate condizioni, di costituire ed esercitare l'impresa artigiana anche in forma di società in accomandita semplice e in forma di società a responsabilità limitata, sia con unico socio sia con pluralità di soci, e che ciò renderebbe necessario un riesame della compatibilità con l'art. 3 Cost. della differenza di trattamento tra una società a responsabilità limitata esercente un'impresa artigianale di piccole dimensioni e una società di persone esercente un'impresa commerciale di analoghe piccole dimensioni;
che, inoltre, la presunzione di speculazione e profitto – che sarebbe insita nella forma societaria e mancherebbe, invece, nella piccola impresa individuale e che dovrebbe giustificare il diverso trattamento fatto alle società rispetto a quello riservato all'imprenditore persona fisica – appare, nell'attuale assetto economico-sociale, essere il portato di un'impostazione astratta, inidonea a fornire una ragionevole giustificazione alla disparità di trattamento che nel concreto si verifica, specie nel settore del commercio, essendo innumerevoli le imprese collettive nelle quali il capitale investito e l'apporto personale di pochi soci non sono quantitativamente e qualitativamente diversi da quelli di un'impresa individuale esercitata da un «piccolo commerciante»;
che, quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che, essendo già acclarato e non contestato lo stato di insolvenza, la possibilità o meno di considerare la società debitrice quale piccolo imprenditore – possibilità preclusa dalla norma denunciata – è determinante ai fini della decisione sul reclamo;
che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata, sottolineando che la questione è in tutto analoga a quella già esaminata e dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 54 del 1991, ed inoltre che, nel nostro sistema giuridico, la qualità di «piccolo imprenditore» (art. 2083 cod. civ.) è riferibile soltanto all'imprenditore individuale ed è ignota la figura della «piccola società commerciale», in quanto nella forma sociale va ravvisato l'elemento organizzativo (base di un'intermediazione speculativa funzionale al profitto), che, nella valutazione del legislatore, assume carattere preminente e qualificante, rispetto ad un'eventuale struttura economicamente piccola dell'impresa;
che l'assoggettabilità alla procedura concorsuale delle società, anche se di modeste dimensioni, trova, quindi, adeguata giustificazione nella presunzione di speculazione e profitto che è insita nella loro costituzione;
che non è, pertanto, irrazionale la denunziata diversità di disciplina, frutto di una scelta fra le varie soluzioni possibili, che – come ha riconosciuto la Corte costituzionale nella richiamata sentenza n. 54 del 1991 – spetta solo al legislatore e rientra nella sua sfera di discrezionalità, in quanto attinente alla generale politica economica e giudiziaria;
che, peraltro, nemmeno può ritenersi irrazionale l'esenzione dal fallimento della società artigiana di modeste dimensioni, dal momento che, laddove l'impresa superi i limiti dell'organizzazione artigianale e il guadagno assuma i connotati del profitto, anch'essa acquista le dimensioni dell'impresa commerciale o industriale, ed è, in quanto caratterizzata dal fine della speculazione e del profitto, soggetta al fallimento;
che, in definitiva, è del tutto ragionevole la valutazione del legislatore, secondo la quale o l'impresa collettiva ha certe caratteristiche e dimensioni e allora è artigiana e sottratta al fallimento, o non ha quelle caratteristiche o supera quelle dimensioni e allora è impresa commerciale o industriale ed è perciò soggetta al fallimento.
Considerato che la Corte d'appello di Venezia dubita della legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 1, comma secondo, ultima proposizione, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui – stabilendo che «in nessun caso sono considerate piccoli imprenditori le società commerciali» – non esonera dal fallimento le piccole società commerciali, e ciò in quanto esso determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra una società a responsabilità limitata esercente un'impresa artigianale di piccole dimensioni (non soggetta a fallimento) e una società di persone esercente un'impresa commerciale di analoghe piccole dimensioni, ed in quanto, inoltre, la disparità di trattamento fra un'impresa collettiva e un'impresa individuale, esercitate con un modesto capitale investito e apporto lavorativo personale (di pochi soci nell'una, del titolare nell'altra), non è giustificata dalla presunzione di speculazione e profitto, che sarebbe insita nella forma societaria e mancherebbe, invece, nella piccola impresa individuale;
che la questione è manifestamente infondata sotto entrambi i profili prospettati dal giudice rimettente;
che va premesso, quanto alla perdurante vigenza della norma denunciata di illegittimità costituzionale, che questa Corte deve limitarsi – come sempre in passato si è limitata – a prendere atto della non implausibilità della tesi interpretativa preferita dal rimettente, senza che l'esame nel merito della questione stessa possa intendersi, come fa il rimettente a proposito di precedenti pronunce di questa Corte, quale avallo di una opzione interpretativa contraria a quella da ultimo adottata, peraltro in taluni obiter dicta, dalla Corte di cassazione e da non pochi giudici di merito;
che, quanto alla pretesa irragionevole disparità di trattamento rispetto alla società artigiana – a prescindere dal rilievo che la ragionevolezza di una regola generale si vorrebbe fosse saggiata adottando, come tertium comparationis, un'eccezione alla regola stessa – le novità legislative segnalate in proposito dal giudice rimettente sono irrilevanti rispetto al criterio, enunciato da questa Corte con la sentenza n. 266 del 1994, secondo il quale «la disciplina della impresa artigiana costituisce oggetto di un complesso di valutazioni, e disposizioni legislative non limitabili esclusivamente al problema dell'assoggettabilità al fallimento»; il che esclude, come già statuito con la sentenza n. 54 del 1991, la violazione dell'art. 3 Cost.;
che, quanto alla pretesa irragionevole disparità di trattamento tra impresa collettiva e impresa individuale, i rilievi svolti dal giudice rimettente non possono portare all'auspicata dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma in quanto, anche a voler ritenere che la presunzione di speculazione e profitto, fondata sulla forma giuridica assunta dall'impresa (così sentenza n. 54 del 1991), sia divenuta meno aderente alla realtà economica, è indubbio che essa non può dirsi manifestamente irragionevole, e non può dirsi, pertanto, che il legislatore abbia fatto uso della sua discrezionalità in modo da violare il principio di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma secondo, ultima proposizione, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Venezia con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 novembre 2005.
Annibale MARINI, Presidente
Romano VACCARELLA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 14 novembre 2005.