ANNO 2005
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Piero Alberto CAPOTOSTI Presidente
- Fernanda CONTRI Giudice
- Guido NEPPI MODONA “
- Annibale MARINI “
- Franco BILE “
- Giovanni Maria FLICK “
- Francesco AMIRANTE “
- Ugo DE SIERVO “
- Romano VACCARELLA “
- Paolo MADDALENA “
- Alfio FINOCCHIARO “
- Alfonso QUARANTA “
- Franco GALLO “
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 36, comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 (Norme di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi e dell'imposta sul valore aggiunto, nonché di modernizzazione del sistema di gestione delle dichiarazioni), nel testo risultante dall'integrazione apportata dall'art. 1 del decreto legislativo 28 dicembre 1998, n. 490 (Disposizioni integrative del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, concernenti la revisione della disciplina dei centri di assistenza fiscale), promosso con ordinanza del 4 maggio 2004 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio sul ricorso proposto da Giuseppina Fallica ed altri contro il Ministero dell'economia e delle finanze, iscritta al n. 760 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 2004.
Visti l'atto di costituzione di Giuseppina Fallica ed altri, nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 21 giugno 2005 il Giudice relatore Franco Gallo;
uditi l'avvocato Elio Vitale per Giuseppina Fallica ed altri e l'avvocato dello Stato Ruggero Di Martino per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto che, nel corso di un giudizio promosso da alcuni avvocati tributaristi aventi la qualifica di revisori contabili e diretto all'annullamento dell'art. 1 del decreto del Ministro delle finanze 29 dicembre 1999 (Disposizioni in materia di certificazione tributaria), che attribuisce solo ad alcune categorie di professionisti diverse da quelle dei ricorrenti il potere di effettuare la certificazione tributaria dei redditi d'impresa dei clienti operanti in regime di contabilità ordinaria, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con ordinanza datata 24 marzo 2004 e depositata il 4 maggio 2004, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 35, 76 e 97 della Costituzione – questione incidentale di legittimità costituzionale della disposizione di legge di cui il decreto ministeriale impugnato costituisce attuazione, e cioè dell'art. 36, comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 (Norme di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi e dell'imposta sul valore aggiunto, nonché di modernizzazione del sistema di gestione delle dichiarazioni), nel testo risultante dall'integrazione apportata dall'art. 1 del decreto legislativo 28 dicembre 1998, n. 490 (Disposizioni integrative del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, concernenti la revisione della disciplina dei centri di assistenza fiscale);
che, con tale ordinanza di rimessione, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha reiterato la questione già sollevata nello stesso giudizio e dichiarata da questa Corte, con ordinanza n. 499 del 2002, manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza;
che il giudice rimettente muove dalla constatazione che l'art. 1 del decreto ministeriale impugnato dai ricorrenti attua e riproduce la norma di legge censurata, la quale attribuisce il potere di effettuare, ai soli fini fiscali, la suddetta certificazione tributaria – prevista dal comma 2 del denunciato art. 36 del d.lgs. n. 241 del 1997 nei riguardi dei contribuenti titolari di redditi d'impresa operanti, anche se per opzione, in regime di contabilità ordinaria – esclusivamente ai revisori contabili iscritti negli albi dei dottori commercialisti, dei ragionieri e periti commerciali e dei consulenti del lavoro, alla condizione che abbiano esercitato la professione per almeno cinque anni e che abbiano tenuto le scritture contabili dei contribuenti stessi nel corso del periodo d'imposta cui si riferisce la certificazione;
che, secondo il Tar del Lazio, le disposizioni censurate impedirebbero agli avvocati tributaristi, pur a parità di ogni altra condizione, di effettuare l'indicata certificazione tributaria;
che, su tale premessa, il giudice a quo afferma che la norma denunciata violerebbe: a) l'art. 35 Cost., perché «l'attribuzione a determinate categorie di soggetti, legittimati a rilasciare la certificazione, anche della tenuta della contabilità e dell'effettuazione della dichiarazione dei redditi», comporterebbe «una sorta di riserva monopolizzatrice» di tali attività a favore di alcuni professionisti ed a scapito di altri, che invece legittimamente la potrebbero esercitare, e si risolverebbe, non ricorrendo ragioni di interesse generale, in una «ingiustificata limitazione alla scelta lavorativa e al libero svolgimento di attività lavorative»; b) l'art. 76 Cost., perché l'art. 3, comma 134, lettera d), della legge di delegazione legislativa 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), nello stabilire il criterio direttivo di individuare le modalità di presentazione delle dichiarazioni, anche attraverso strutture intermedie tra contribuente ed amministrazione finanziaria, a fini di semplificazione e di agevolazione degli uffici finanziari, non avrebbe consentito al legislatore delegato di escludere dal novero dei soggetti abilitati alla certificazione tributaria quei professionisti (come gli avvocati tributaristi) che offrano garanzie di esperienza e di provata professionalità pari a quelle dei soggetti espressamente abilitati; c) l'art. 3 Cost., perché sarebbe in contrasto con il «principio perequativo»; d) l'art. 97 Cost., perché sarebbe contraria ai princìpi di razionalità e di buona amministrazione;
che la questione sarebbe rilevante – per il Tar del Lazio – perché la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma denunciata comporterebbe l'illegittimità derivata dell'impugnato articolo del decreto ministeriale che la riproduce, con il conseguente accoglimento del ricorso;
che il rimettente aggiunge, sempre in punto di rilevanza, che i ricorrenti, in adempimento di una specifica richiesta del Tribunale ed a séguito dell'indicata ordinanza della Corte costituzionale n. 499 del 2002, hanno espressamente dichiarato, sotto la propria personale responsabilità, di essere avvocati tributaristi iscritti «al registro dei revisori contabili, di esercitare la professione di revisore contabile da almeno cinque anni e di detenere presso di sé le scritture contabili dei propri clienti»;
che in virtù di tale dichiarazione sarebbe venuta meno, secondo il giudice a quo, la carenza di motivazione sulla rilevanza, constatata dalla citata ordinanza n. 499 del 2002, emessa dalla Corte costituzionale in riferimento alla medesima questione, precedentemente sollevata nello stesso giudizio principale;
che si sono costituite le parti private del giudizio principale, insistendo genericamente per l'accoglimento della sollevata questione;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità o di manifesta infondatezza della questione;
che, in punto di inammissibilità, la difesa erariale eccepisce che il rimettente, nel limitarsi a prendere acriticamente atto delle dichiarazioni rese dalle parti private sul possesso dei requisiti necessari per l'abilitazione alla certificazione tributaria, avrebbe omesso qualsiasi valutazione sulla concreta attitudine degli elementi istruttori acquisiti a comprovare tale possesso e sarebbe così incorso in un vizio di carenza di motivazione sulla rilevanza, tale da indurre ad una pronuncia di manifesta inammissibilità non diversa da quella dell'indicata ordinanza n. 499 del 2002 della Corte costituzionale;
che, quanto alla manifesta infondatezza, l'Avvocatura generale dello Stato afferma che sarebbe escluso il denunciato eccesso di delega, perché il legislatore delegato si sarebbe limitato, con la disposizione censurata, ad adempiere il cómpito demandatogli dalla legge di delegazione di specificare adempimenti e responsabilità di alcuni “studi professionali” – quali “strutture intermedie” tra i contribuenti e l'Amministrazione finanziaria dello Stato – nella presentazione delle dichiarazioni dei loro clienti in materia di imposte sul reddito e di IVA;
che, sempre in ordine alla manifesta infondatezza, la difesa erariale, in relazione agli altri parametri costituzionali evocati, afferma che la delicatezza e l'importanza della potestà certificativa prevista dall'art. 36 del d.lgs. n. 241 del 1997 hanno indotto il legislatore delegato, con «scelta […] non soltanto ragionevole ma […] addirittura necessitata», ad attribuire tale potestà soltanto a soggetti appartenenti a determinate categorie in possesso di specifici requisiti professionali, in connessione con l'ulteriore requisito – ragionevole e coerente con le funzioni e responsabilità demandate agli stessi soggetti – consistente nella tenuta (o nel diretto controllo) delle scritture contabili dei clienti certificati, nel periodo d'imposta di riferimento, fermo restando che il controllo finale sull'operato del contribuente resta di pertinenza esclusiva dell'Amministrazione finanziaria, senza alcuna possibilità di conflitti di interesse tra professionista certificatore e contribuente certificato;
che l'Avvocatura generale dello Stato, nell'escludere che la norma denunciata istituisca un “monopolio” di attività a favore di alcune categorie professionali, osserva che la certificazione tributaria non è condizione di validità della dichiarazione di imposta e che la circostanza che il contribuente possa in concreto ritenere preferibile avvalersi della consulenza di un professionista abilitato alla certificazione tributaria costituisce un mero accadimento di fatto, inidoneo a fondare il prospettato dubbio di legittimità costituzionale;
che, nell'imminenza della pubblica udienza, le parti private hanno depositato una memoria illustrativa, affermando la rilevanza e la fondatezza della questione: la rilevanza conseguirebbe al contenuto delle dichiarazioni rilasciate dai ricorrenti nel giudizio principale, sia in punto di anzianità dell'iscrizione all'albo, sia in punto di tenuta della contabilità dei clienti; la fondatezza deriverebbe dalla duplice considerazione che «un'attività di consulenza fiscale “protetta”», quale quella dei dottori commercialisti o dei ragionieri, non potrebbe operare «a danno» degli avvocati tributaristi con qualifica di revisori dei conti, e che la certificazione tributaria è consentita dalla norma denunciata perfino ai periti commerciali ed ai consulenti del lavoro, ai quali non compete attività di consulenza fiscale o di tenuta di scritture contabili.
Considerato che il Tribunale amministrativo regionale del Lazio dubita della legittimità costituzionale dell'art. 36, comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 (Norme di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi e dell'imposta sul valore aggiunto, nonché di modernizzazione del sistema di gestione delle dichiarazioni), nel testo risultante dall'integrazione apportata dall'art. 1 del decreto legislativo 28 dicembre 1998, n. 490 (Disposizioni integrative del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, concernenti la revisione della disciplina dei centri di assistenza fiscale);
che, secondo il giudice rimettente, la norma denunciata, nel riservare l'attività di certificazione tributaria ai revisori contabili iscritti negli albi dei dottori commercialisti, dei ragionieri e periti commerciali e dei consulenti del lavoro, alla condizione che abbiano esercitato la professione da almeno cinque anni e che abbiano tenuto le scritture contabili dei contribuenti loro clienti nel corso del periodo d'imposta cui si riferisce la certificazione, violerebbe: a) l'art. 35 Cost., perché «l'attribuzione a determinate categorie di soggetti, legittimati a rilasciare la certificazione, anche della tenuta della contabilità e dell'effettuazione della dichiarazione dei redditi» comporterebbe «una sorta di riserva monopolizzatrice» di tali attività a favore di alcuni professionisti e si risolverebbe, non ricorrendo ragioni di interesse generale, in una «ingiustificata limitazione alla scelta lavorativa e al libero svolgimento di attività lavorative»; b) l'art. 76 Cost., per eccesso di delega, perché, escludendo dal novero dei soggetti abilitati alla certificazione tributaria professionisti (come gli avvocati tributaristi) che offrono garanzie di esperienza e di provata professionalità pari a quelle dei soggetti abilitati, violerebbe la norma interposta di cui all'art. 3, comma 134, lettera d), della legge di delegazione legislativa 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), la quale stabilisce soltanto il criterio direttivo di individuare le modalità di presentazione delle dichiarazioni anche attraverso “strutture intermedie” tra contribuente ed amministrazione finanziaria, a fini di semplificazione e di agevolazione degli uffici finanziari; c) l'art. 3 Cost., perché si porrebbe in contrasto con il «principio perequativo»; d) l'art. 97 Cost., perché sarebbe contraria alla razionalità ed alla buona amministrazione;
che la questione è stata già sollevata nel medesimo giudizio principale ed è stata dichiarata manifestamente inammissibile da questa Corte con ordinanza n. 499 del 2002, perché nell'ordinanza di rimessione mancava «qualsiasi specifico riferimento (salva la notazione che gli avvocati tributaristi ricorrenti sono revisori contabili) ai profili di rilevanza della questione nella concreta fattispecie all'esame del giudice a quo, in riferimento al possesso […] degli altri requisiti che devono accompagnare quello relativo all'iscrizione negli appositi albi dei revisori contabili (esercizio da parte dei revisori della professione per almeno cinque anni; tenuta di scritture contabili) per poter essere abilitati al rilascio, ai soli fini fiscali, della certificazione tributaria, di cui al comma 2 dell'art. 36 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241»;
che il Tar del Lazio, nel riproporre la questione, ha inteso colmare le indicate lacune della motivazione sulla rilevanza mediante il mero richiamo della dichiarazione, rilasciata da ciascuno dei ricorrenti sotto la propria personale responsabilità ed in adempimento di una specifica richiesta del Tribunale stesso, di essere «avvocato tributarista iscritto al registro dei revisori contabili, di esercitare la professione di revisore contabile da almeno cinque anni e di detenere presso di sé le scritture contabili dei propri clienti»;
che, tuttavia, neppure con la seconda ordinanza di rimessione le suddette rilevate lacune sono state colmate;
che, in primo luogo, quanto al requisito dell'«esercizio da parte dei revisori della professione per almeno cinque anni» (citata ord. n. 499 del 2002), il rimettente omette di specificare se i revisori contabili ricorrenti abbiano esercitato la professione di avvocato tributarista da almeno cinque anni, perché, erroneamente interpretando sia l'indicata ordinanza della Corte sia la disposizione censurata, da un lato considera sufficiente l'iscrizione in “albi”, indipendentemente dall'effettivo esercizio della professione, e dall'altro ritiene che tale esercizio riguardi soltanto la “professione” di revisore contabile e non, invece, la professione specificamente consentita dall'iscrizione nell'albo professionale;
che l'erroneità dell'interpretazione seguita dal Tar risulta evidente dal tenore letterale della disposizione denunciata, che esige l'esercizio per almeno cinque anni della professione consentita dall'iscrizione in “albi” professionali (dottore commercialista; ragioniere o perito commerciale; consulente del lavoro) e distingue tale esercizio da quello della funzione consentita dall'iscrizione nel “registro” dei revisori contabili (v., in tal senso, il punto 1 del “Considerato in diritto” della sentenza n. 307 del 2002, di questa Corte);
che, in secondo luogo, quanto alla «tenuta di scritture contabili» relative ai propri clienti da parte dei revisori contabili ricorrenti, il rimettente omette di precisare se nella specie sussista tale requisito, perché, confondendo la “tenuta delle scritture contabili” richiesta dalla norma denunciata con la mera detenzione materiale dei documenti nei quali le scritture sono riportate, si limita a richiamare l'irrilevante circostanza della «detenzione» dei documenti contabili «presso» i ricorrenti;
che, invece, l'espressione “tenuta delle scritture contabili” impiegata dal legislatore nella disposizione denunciata va intesa come formazione diretta di tali scritture o comunque come formazione di esse sotto il diretto controllo e la responsabilità del professionista, secondo quanto risulta sia dal comune significato delle parole, sia dalla ratio della norma (intesa a valorizzare, nell'àmbito dei vari requisiti stabiliti per l'abilitazione alla certificazione tributaria, la circostanza che il professionista abbia formato, nella sostanza, quelle stesse scritture contabili sulle quali è chiamato ad esprimere la propria valutazione), sia dalla normativa secondaria di attuazione (che ha espressamente ribadito tale accezione, da ultimo chiarendo che per “tenuta delle scritture contabili” deve intendersi non solo la diretta formazione di queste, ma anche la loro formazione sotto il diretto controllo e la responsabilità del professionista: art. 24, comma 2, del decreto ministeriale n. 164 del 1999);
che, in terzo luogo, nell'ordinanza di rimessione manca qualsiasi motivazione sulla ricorrenza dei predetti due requisiti richiesti dalla norma denunciata per l'abilitazione al rilascio della certificazione tributaria, perché il Tar del Lazio si limita a riportare le dichiarazioni rilasciate al riguardo dai ricorrenti, senza dare alcuna valutazione sulla sussistenza effettiva di tali requisiti;
che, in conclusione, non avendo il giudice a quo motivato sulla rilevanza della sollevata questione, questa deve essere dichiarata manifestamente inammissibile, restando così precluso ogni esame di merito (peraltro già affrontato da questa Corte, in riferimento a molti dei profili sollevati con l'ordinanza di rimessione indicata in epigrafe, e deciso nel senso della non fondatezza della questione con la sentenza n. 307 del 2002).
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 36, comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 (Norme di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi e dell'imposta sul valore aggiunto, nonché di modernizzazione del sistema di gestione delle dichiarazioni), nel testo risultante dall'integrazione apportata dall'art. 1 del decreto legislativo 28 dicembre 1998, n. 490 (Disposizioni integrative del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, concernenti la revisione della disciplina dei centri di assistenza fiscale), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 35, 76 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 2005.
Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente
Franco GALLO, Redattore
Depositata in Cancelleria il 26 luglio 2005.