ORDINANZA N. 307
ANNO 2005
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Piero Alberto CAPOTOSTI Presidente
- Fernanda CONTRI Giudice
- Guido NEPPI MODONA "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 335, comma 1, e 407, comma 3, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 12 gennaio 2004 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Modena nel procedimento penale a carico di M. P., iscritta al n. 230 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2004.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’8 giugno 2005 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che con l’ordinanza in epigrafe il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Modena ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24 e 111, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 335, comma 1, e 407, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono l’inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti nei confronti dell’imputato in epoca anteriore alla sua iscrizione nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen. e successiva al momento nel quale ha comunque assunto la qualità di persona nei cui confronti sono svolte le indagini;
che il giudice a quo premette di essere investito, in qualità di giudice dell’udienza preliminare, del processo penale nei confronti di una persona imputata del reato di omicidio aggravato in danno del figlio;
che, nel corso dell’udienza, la difesa dell’imputata aveva evidenziato come l’iscrizione del relativo nominativo nel registro delle notizie di reato, di cui all’art. 335 cod. proc. pen., fosse avvenuta solo dopo il deposito di una relazione di consulenza tecnica, da cui emergeva la coincidenza tra il profilo genotipico dell’imputata e quello della persona cui appartenevano le tracce biologiche rinvenute sugli oggetti utilizzati per sopprimere la vittima;
che già da tempo, tuttavia – sempre secondo quanto dedotto dalla difesa – erano state avviate attività investigative giustificabili solo alla luce del convincimento che l’imputata fosse la persona indagata;
che, in particolare, a distanza di sole poche ore dalla consumazione del delitto – avvenuta oltre un mese prima della predetta iscrizione – il pubblico ministero aveva disposto l’intercettazione “ambientale” delle conversazioni tra l’imputata ed altro familiare, motivandola con le «incongruenze tra gli elementi […] rilevati in sede di sopralluogo e le indicazioni fornite oralmente e sul luogo dei fatti» dai familiari della vittima;
che l’imputata aveva inoltre partecipato all’acquisizione del materiale biologico presente sugli oggetti sequestrati ed alla comparazione con i campioni biologici di confronto nella veste di persona offesa, e non già – come avrebbe imposto l’«inequivoca realtà sostanziale» – quale persona sottoposta alle indagini, legittimata, come tale, a presentare riserva di incidente probatorio;
che la difesa aveva eccepito, di conseguenza, la nullità e l’inutilizzabilità degli atti d’indagine compiuti e, in subordine, l’illegittimità costituzionale degli artt. 335, 405 e 407 cod. proc. pen.;
che il rimettente osserva come, in base all’indirizzo interpretativo prevalente – da ritenere pienamente condivisibile alla luce del dato normativo – l’art. 407, comma 3, cod. proc. pen. colpisca con la sanzione di inutilizzabilità esclusivamente gli atti di indagine posti in essere successivamente alla scadenza del termine – originario o prorogato – di durata massima delle indagini preliminari: termine che decorre dalla data dell’iscrizione della persona, cui il reato è attribuito, nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen.;
che tale disciplina lascerebbe dunque aperto il problema del trattamento da riservare agli atti di indagine compiuti anteriormente al predetto dies a quo: e, più precisamente, nel lasso temporale intercorrente tra il momento di acquisizione della qualità “sostanziale” di persona sottoposta alle indagini da parte di un determinato soggetto – acquisizione da ritenere direttamente collegata alla «direzione soggettiva» assunta dall’attività investigativa – e quello della “formale” iscrizione del suo nominativo nel registro;
che, ad avviso del giudice a quo, la sanzione di inutilizzabilità contemplata dall’art. 407, comma 3, cod. proc. pen. – stante il regime di tassatività che la contraddistingue – non potrebbe essere estesa in via interpretativa agli atti in parola;
che tale conclusione indurrebbe tuttavia a dubitare della legittimità costituzionale delle norme impugnate sotto plurimi profili;
che esse si porrebbero in contrasto, anzitutto, con l’art. 3 Cost., determinando una irragionevole disparità di trattamento tra il soggetto la cui iscrizione nel registro segua immediatamente all’assunzione della qualità di persona sottoposta alle indagini, ed il soggetto che – pur versando nella medesima situazione, perché raggiunto da identiche risultanze processuali – venga invece iscritto nel registro dal pubblico ministero solo in un momento successivo: disparità di trattamento per effetto della quale il secondo «vedrebbe preclusa la possibilità di evocare tanto la inutilizzabilità degli atti compiuti prima dell’iscrizione, quanto la inutilizzabilità ex art. 407, comma 3, cod. proc. pen. di quelli assunti dopo la scadenza del termine computato a partire dalla data in cui l’iscrizione avrebbe dovuto essere disposta»;
che sarebbe altresì vulnerato il diritto di difesa, in quanto l’indagato, tardivamente iscritto, verrebbe ad essere privato della possibilità di svolgere una efficace difesa contro gli atti di indagine compiuti prima dell’iscrizione e che diverranno comunque utilizzabili nei suoi confronti nelle successive fasi del processo: e ciò in quanto l’iscrizione – se pure non determina la conoscenza, da parte dell’indagato, dell’esistenza di investigazioni sul suo conto – costituirebbe comunque «misura della garanzia del contraddittorio, ove previsto, in ogni stato e grado del giudizio»;
che risulterebbe compromesso, infine, l’art. 111, terzo comma, Cost., in quanto dalla discrezionalità riconosciuta al pubblico ministero, circa il tempo dell’iscrizione del nominativo dell’indagato nel registro delle notizie di reato, deriverebbe la vanificazione della garanzia, riconosciuta alla persona accusata di un reato, di essere, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico;
che la questione sarebbe d’altro canto rilevante nel giudizio a quo, in quanto, se il primo degli atti di indagine compiuti nel caso di specie – ossia l’intercettazione di conversazioni tra presenti – poteva considerarsi ancora “generico”, dal punto di vista della direzione soggettiva; l’atto immediatamente successivo – avvenuto peraltro anch’esso lo stesso giorno del rinvenimento del cadavere della vittima, e costituito dall’acquisizione di reperti recanti tracce di campioni biologici dell’imputata e del marito – presupponeva, per contro, la possibilità di un diretto coinvolgimento dell’imputata stessa nel fatto oggetto di investigazione: con conseguente acquisizione, da parte della medesima, dello status di persona sottoposta alle indagini;
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
Considerato che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Modena dubita – in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24 e 111, terzo comma, Cost. – della legittimità costituzionale degli artt. 335, comma 1, e 407, comma 3, cod. proc. pen., dolendosi, nella sostanza, della mancata previsione della inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti nei confronti di un determinato soggetto dopo che è emersa la sua qualità di persona sottoposta alle indagini, ma prima della formale iscrizione del suo nominativo nel registro delle notizie di reato;
che è lo stesso rimettente a qualificare, peraltro, come «principio ampiamente condiviso» – ponendolo, anzi, a premessa fondante del quesito – quello in forza del quale la qualità di persona sottoposta alle indagini non discende dalla iscrizione nel registro, la quale assume «una mera funzione ricognitiva di un dato procedimentale potenzialmente preesistente»;
che – sempre per affermazione del giudice a quo – la predetta qualità, ove non emerga direttamente dalla notitia criminis, si acquisisce, infatti, prima e a prescindere dall’iscrizione, in ragione della «direzione soggettiva» concretamente assunta dall’attività investigativa: e ciò alla luce di un insieme di previsioni normative (vengono citati, in particolare, gli artt. 63, comma 2, 349 e 350, comma 5, cod. proc. pen.) rivelatrici dell’intenzione del legislatore;
che se, peraltro, l’iscrizione nel registro ha una valenza meramente ricognitiva, e non già costitutiva dello status di persona sottoposta alle indagini, è di tutta evidenza come le garanzie difensive che la legge accorda a quest’ultima, in relazione ai singoli atti compiuti, debbano ritenersi pienamente operanti anche in assenza dell’iscrizione: con la conseguenza che il tardivo espletamento della formalità non può essere considerato fonte di pregiudizio al diritto di difesa sotto il profilo indicato dal giudice rimettente;
che risulta quindi insussistente anche la ventilata disparità di trattamento tra «indagati» tempestivamente iscritti e «indagati» tardivamente iscritti;
che nell’ipotesi, infatti, in cui il pubblico ministero procrastini indebitamente l’iscrizione del registro, il problema che può porsi attiene unicamente all’artificiosa dilazione del termine di durata massima delle indagini preliminari: vale a dire alla possibile elusione della sanzione di inutilizzabilità che colpirebbe, ai sensi dell’art. 407, comma 3, cod. proc. pen., gli atti di indagine collocati temporalmente “a valle” della scadenza del predetto termine, computato a partire dal momento in cui l’iscrizione avrebbe dovuto essere effettuata;
che tale profilo resta peraltro estraneo al thema decidendum del giudizio a quo, nel quale si discute di atti compiuti ampiamente entro il termine di durata massima delle indagini, computato dal momento nel quale – secondo il rimettente – l’iscrizione doveva aver luogo;
che neppure è ravvisabile, infine, la dedotta violazione dell’art. 111, terzo comma, Cost., sotto il profilo che la ritardata iscrizione conculcherebbe il diritto della persona accusata di essere, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico;
che dall’iscrizione nel registro delle notizie di reato non scaturisce, difatti, alcun diretto obbligo informativo dell’organo dell’accusa nei confronti dell’indagato; né – a prescindere da ogni altra possibile considerazione – viene in rilievo nel giudizio a quo la facoltà della persona, cui il reato è attribuito, di ottenere la comunicazione dell’iscrizione, ai sensi dell’art. 335, comma 3, cod. proc. pen., dato che tale facoltà – oltre ad incontrare il limite del potere di “segretazione” del pubblico ministero (comma 3-bis del medesimo articolo) – presuppone comunque la richiesta dell’interessato: richiesta che non risulta dall’ordinanza di rimessione essere stata formulata nel caso di specie;
che l’anzidetto obbligo informativo del pubblico ministero si connette, per contro, nell’ambito delle indagini preliminari, solo al compimento di un “atto garantito”, ossia di un atto che – dovendo essere compiuto alla presenza del difensore – presuppone l’invio dell’informazione di garanzia (art. 369 cod. proc. pen.);
che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 335, comma 1, e 407, comma 3, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24 e 111, terzo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Modena con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta il 7 luglio 2005.
Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2005.