ORDINANZA N. 206
ANNO 2005
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Fernanda CONTRI Presidente
- Guido NEPPI MODONA Giudice
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 13, comma 2, lettere a) e b), comma 3 e comma 13, 14, comma 5-ter, e 17 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), e dell’art. 558 del codice di procedura penale, promossi con ordinanze del 12 novembre 2002 dal Tribunale di Roma, del 30 ottobre 2002 dal Tribunale di Termini Imerese, del 3 dicembre 2002 dal Tribunale di Firenze, dell’11 gennaio 2003 dal Tribunale di Roma e del 30 giugno 2003 dal Tribunale di Terni, rispettivamente iscritte ai nn. 44, 53, 78, 133 e 753 del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale nn. 7, 8, 10, 13 e 38, prima serie speciale, dell’anno 2003.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 marzo 2005 il giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che con le ordinanze in epigrafe, di analogo tenore, il Tribunale di Roma ed il Tribunale di Terni hanno sollevato, in riferimento agli artt. 24, 27, 104 e 111 della Costituzione – e, quanto all’ordinanza r.o. n. 133 del 2003 del Tribunale di Roma, anche all’art. 11 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 13, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), e «di conseguenza» dell’art. 13, commi 3 e 13, e dell’art. 17 del medesimo decreto legislativo, nella parte in cui prevedono l’immediata espulsione, con accompagnamento coattivo alla frontiera, dello straniero sottoposto a procedimento penale per i reati di cui ai citati artt. 13, comma 13, e 14, comma 5-ter, prima che tale procedimento sia definito e indipendentemente dal suo esito, subordinando, altresì, ad autorizzazione del questore il rientro nel territorio dello Stato dell’imputato espulso ai fini dell’esercizio del diritto di difesa;
che i giudici a quibus riferiscono di essere investiti di processi penali nei confronti di cittadini extracomunitari imputati del reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, per essersi trattenuti senza giustificato motivo nel territorio dello Stato, in violazione dell’ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis del medesimo articolo;
che in sede di convalida dell’arresto – previsto come obbligatorio per il reato de quo dal comma 5-quinquies dell’art. 14 – il pubblico ministero non aveva richiesto l’applicazione di alcuna misura coercitiva, in quanto non consentita dalla natura contravvenzionale della fattispecie criminosa;
che si procedeva, quindi – nei casi oggetto delle ordinanze del Tribunale di Roma – con rito direttissimo nei confronti di imputati a piede libero, i quali avevano formulato richiesta di termini a difesa ai sensi dell’art. 558, comma 7, cod. proc. pen., con conseguente rinvio del processo a nuova udienza; mentre la questione viene sollevata dal Tribunale di Terni subito dopo la convalida dell’arresto, in via preliminare rispetto al rilascio del nulla osta all’espulsione ex art. 13, comma 3-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998 ed alla fissazione dell’udienza per il giudizio;
che i rimettenti rilevano come gli artt. 13, comma 13, e 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, nel testo modificato dalla legge n. 189 del 2002, contemplino due distinte, ma analoghe figure di reato, volte a punire, rispettivamente, lo straniero colpito da provvedimento di espulsione amministrativa che rientri illegalmente nel territorio dello Stato o che vi si trattenga senza giustificato motivo in violazione dell’ordine di allontanamento del questore;
che in entrambi i casi è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza e lo svolgimento del processo con rito direttissimo; si stabilisce, inoltre, che lo straniero venga nuovamente espulso «con accompagnamento immediato alla frontiera» (art. 13, comma 13) e «con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica» (art. 14, comma 5-ter);
che l’accompagnamento alla frontiera deve aver luogo immediatamente, non appena lo straniero venga rimesso in libertà, senza attendere la definizione del processo penale: deponendo in tal senso sia il tenore letterale delle norme richiamate che la previsione del successivo art. 17, in forza della quale «lo straniero parte offesa ovvero sottoposto a procedimento penale è autorizzato a rientrare in Italia per il tempo strettamente necessario per l’esercizio del diritto di difesa, al solo fine di partecipare al giudizio o al compimento di atti per i quali è necessaria la sua presenza»;
che la stessa disposizione aggiunge che l’autorizzazione «è rilasciata dal questore anche per il tramite di una rappresentanza diplomatica o consolare su documentata richiesta» dell’interessato o del difensore;
che, ad avviso dei rimettenti, tale disciplina si porrebbe in contrasto con l’art. 24 Cost., dato che l’imputato allontanato coattivamente dal territorio dello Stato prima della conclusione del processo vedrebbe gravemente compromessa la possibilità di predisporre una difesa adeguata – tanto più nei ristretti tempi del rito direttissimo – non solo personalmente, ma anche a mezzo del difensore, le cui attività solo con evidente difficoltà potrebbero essere sollecitate ed orientate da una persona che non si trova nel territorio nazionale;
che a garantire il rispetto dell’art. 24 Cost. non basterebbe la facoltà di rientro in Italia dello straniero per l’esercizio del diritto di difesa, prevista dal citato art. 17 del d.lgs. n. 286 del 1998: facoltà che si tradurrebbe in una mera affermazione di principio, giacché – a prescindere dalla sua subordinazione ad un provvedimento autorizzativo del questore a carattere discrezionale – il rientro potrebbe risultare di fatto ostacolato o reso impossibile dalla insufficienza dei mezzi economici dell’interessato;
che la «nuova» espulsione prevista dalle norme impugnate, d’altra parte, per la sua diretta connessione con un fatto di reato, andrebbe qualificata, non come provvedimento amministrativo, ma come misura di sicurezza, e dunque disposta in sede giurisdizionale, con le relative garanzie: onde l’allontanamento immediato dal territorio dello Stato finirebbe per tradursi in un’anticipazione degli effetti della condanna, contrastante con la presunzione di non colpevolezza stabilita dall’art. 27 Cost.;
che risulterebbero lesi, inoltre, i principi del «giusto processo» enunciati dall’art. 111 Cost., giacché la procedura censurata renderebbe puramente eventuale la partecipazione dell’imputato al processo, impedendogli di articolare un’effettiva e tempestiva difesa e di farlo in condizioni di parità con l’accusa;
che la subordinazione dell’esercizio delle facoltà difensive dell’imputato alla valutazione del questore – organo amministrativo e non giurisdizionale – prefigurata dall’art. 17 del d.lgs. n. 286 del 1998 lederebbe, altresì, l’art. 104 Cost., che qualifica la magistratura come «ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»: e ciò in quanto tale subordinazione impedirebbe al giudice la diretta esplicazione di attività volte all’acquisizione di prove, quali l’accompagnamento coattivo dell’imputato o l’esercizio dei poteri di cui all’art. 507 cod. proc. pen. (che presuppongono l’esaurimento delle acquisizioni probatorie proposte dalle parti), sottraendogli altresì il compito di valutare la sussistenza di valide ragioni per assicurare la presenza dell’imputato medesimo nel processo a fini di difesa;
che non sarebbe possibile, d’altra parte, una interpretazione “costituzionalmente orientata” delle norme impugnate, a fronte della quale il giudice possa consentire all’imputato di trattenersi nel territorio dello Stato per il tempo necessario alla trattazione del processo;
che una simile interpretazione rimarrebbe infatti preclusa dall’art. 13 del d.lgs. n. 286 del 1998, come novellato dalla legge n. 189 del 2002, che – relativamente al caso dello straniero sottoposto a procedimento penale, il quale non si trovi in stato di custodia cautelare – stabilisce che il giudice può negare il nulla osta all’espulsione «solo in presenza di inderogabili esigenze processuali valutate in relazione all’accertamento della responsabilità di eventuali concorrenti nel reato o di imputati in procedimenti per reati connessi, e all’interesse della persona offesa»: con la conseguenza che, nell’ipotesi in questione, il giudice – che l’art. 111 Cost. vuole «terzo e imparziale» – potrebbe assicurare la presenza dell’imputato nel processo solo per garantire le esigenze dell’accusa pubblica o privata; e non, invece, per assicurare l’esercizio del diritto alla difesa e l’effettivo contraddittorio fra le parti;
che, secondo l’ordinanza del Tribunale di Roma r.o. n. 133 del 2003, le norme censurate violerebbero anche l’art. 11 Cost., in quanto non rispondenti ai principi affermati dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che stabilisce la presunzione di non colpevolezza della persona accusata ed il diritto di questa di disporre del tempo e delle condizioni necessari per la preparazione della difesa;
che nei giudizi di costituzionalità promossi dal Tribunale di Roma è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate non fondate;
che, con l’ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Termini Imerese ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 10, 13 (parametro evocato solo in motivazione), 24 e 111 della Costituzione, dell’art. 13, comma 2, lettere a) e b), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, nella parte in cui prevede l’automatico rilascio, da parte del giudice, del nulla osta all’esecuzione dell’espulsione, mediante accompagnamento immediato alla frontiera, dello straniero sottoposto a procedimento penale;
che il giudice a quo premette di essere investito del procedimento penale nei confronti di uno straniero di nazionalità iugoslava, appartenente ad una minoranza etnica perseguitata nel luogo di origine (come attesterebbe l’avvenuta concessione dell’asilo politico al padre), tratto in arresto per il reato di ingiustificato trattenimento nel territorio dello Stato, di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, e presentato quindi ad esso giudice per il rito direttissimo «obbligatorio», previsto dal comma 5-quinquies del medesimo articolo;
che – convalidato l’arresto e nell’impossibilità di disporre una misura coercitiva, stante la natura contravvenzionale della fattispecie criminosa – il rimettente dovrebbe rilasciare il nulla osta all’espulsione dell’imputato, a norma dell’art. 13, commi 3 e 3-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998;
che, ad avviso del giudice a quo, l’automatismo nel rilascio del nulla osta all’espulsione – prefigurato dalla disciplina richiamata – impedendo irrazionalmente al giudice una valutazione comparativa degli interessi coinvolti (gestione efficace dei flussi di immigrazione clandestina, da un lato; diritto di difesa e partecipazione dello straniero al processo, dall’altro lato), risulterebbe lesivo di plurimi precetti costituzionali;
che sarebbe violato, anzitutto, l’art. 10 Cost., segnatamente ove l’espulsione immediata comporti il rientro dello straniero in uno Stato nel quale gli sia impedito l’esercizio delle libertà democratiche, garantite dalla Costituzione;
che risulterebbero altresì compromessi il diritto di difesa (art. 24 Cost.) ed i principi del «giusto processo»: e ciò con particolare riguardo al diritto dell’imputato di essere informato nel più breve tempo possibile della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; a quello di disporre del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; a quello di essere interrogato o rendere dichiarazioni al giudice; al diritto di interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, e di acquisire ogni mezzo di prova a suo favore (art. 111 Cost.);
che tali diritti non potrebbero ritenersi, infatti, adeguatamente tutelati dalla facoltà di rientro nel territorio dello Stato per l’esercizio del diritto di difesa, previa autorizzazione del questore, accordata allo straniero dall’art. 17 del d.lgs. n. 286 del 1998: dovendo ritenersi estremamente improbabile che soggetti arrestati per il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, vengano a trovarsi – una volta espulsi – nelle condizioni economiche e materiali per affrontare i gravosi oneri che il temporaneo rientro in Italia comporta; senza che a ciò possa sopperire efficacemente il difensore, molto spesso nominato d’ufficio;
che la previsione dell’art. 17 si porrebbe, d’altra parte, in apparente contraddizione con quella dell’art. 13, comma 13, del d.lgs. n. 286 del 1998, secondo cui «lo straniero espulso non può rientrare nel territorio dello Stato senza una speciale autorizzazione del Ministro dell’interno»: onde ne risulterebbe una disciplina ambigua, a fronte della quale lo straniero, che abbia chiesto al questore l’autorizzazione al rientro per l’esercizio del diritto di difesa, rischierebbe di trovarsi esposto ad una nuova e più grave sanzione per non aver ottenuto anche quella del Ministro;
che i dubbi di legittimità costituzionale sarebbero accresciuti dal disposto dell’art. 13, comma 3-quater, del d.lgs. n. 286 del 1998, in forza del quale, nei casi di cui ai commi 3, 3-bis e 3-ter, il giudice, acquisita la prova dell’avvenuta espulsione, se non è stato ancora emesso il provvedimento che dispone il giudizio, pronuncia sentenza di non luogo a procedere;
che, bloccando l’esercizio dell’azione penale qualora l’espulsione sia stata effettivamente eseguita, la norma impedirebbe infatti allo straniero di accedere ad un «giusto processo» riguardo ai fatti contestatigli: con violazione non soltanto degli artt. 24 e 111 Cost., ma anche dell’art. 3 Cost. in relazione agli artt. 5, comma 4, e 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché dell’art. 13 Cost., prevedendosi un caso di restrizione della libertà personale (arresto obbligatorio) che non trova il suo naturale sbocco nel vaglio giurisdizionale;
che sarebbe censurabile, sul piano del rispetto dei principi di uguaglianza e di difesa, anche la scelta legislativa di imporre, per il reato in questione, un anomalo rito direttissimo: impedendo così, da un lato, al pubblico ministero di esercitare l’azione penale secondo i criteri ordinari e, in particolare, in base alla regola di cui all’art. 449 cod. proc. pen., che configura come facoltativa la diretta presentazione dell’imputato in stato di arresto davanti al giudice del dibattimento (e ciò segnatamente ove le circostanze concrete possano far ritenere giustificata la permanenza sul territorio dello Stato dello straniero arrestato); e ostacolando, dall’altro lato, l’esercizio del diritto di difesa dell’imputato, anche tramite lo svolgimento di indagini difensive tese al reperimento di prove di cause giustificative di detta permanenza;
che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata;
che con l’ordinanza in epigrafe, emessa nel corso di un procedimento penale nei confronti di uno straniero imputato del reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il Tribunale di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 10, 13 (parametro indicato solo in motivazione), 24, 101 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 558 del codice di procedura penale e degli artt. 13 e 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, come modificati dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, nella parte in cui impediscono, rispetto alla maggior parte dei reati commessi da stranieri espulsi – e comunque rispetto al reato di cui al comma 5-ter dell’art. 14 – che i giudizi direttissimi instaurati davanti al giudice monocratico nei confronti di detti soggetti si concludano con una decisione di merito;
che l’ordinanza premette che – convalidato l’arresto dell’imputato – si dovrebbe procedere nei suoi confronti con giudizio direttissimo, in virtù del combinato disposto degli artt. 558 cod. proc. pen. e 14, comma 5-quinquies, del d.lgs. n. 286 del 1998;
che, alla luce di una serie di norme introdotte dalla novella del 2002, tale giudizio sarebbe peraltro destinato ineluttabilmente a sfociare in una pronuncia non di merito;
che, essendo stata rigettata la richiesta del pubblico ministero di applicazione della custodia cautelare in carcere, dovrebbe essere infatti rilasciato, a norma dell’art. 13, commi 3 e 3-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, il nulla osta all’esecuzione dell’espulsione dello straniero;
che solo l’applicazione della predetta misura cautelare viene infatti configurata come impedimento assoluto all’espulsione, mentre negli altri casi la discrezionalità accordata al giudice è minima: potendo egli negare il nulla osta solo «in presenza di inderogabili esigenze processuali valutate in relazione all’accertamento della responsabilità di eventuali concorrenti nel reato o imputati in procedimenti connessi, e all’interesse della persona offesa»; ovvero se si tratta dei reati previsti dall’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen.;
che nella maggior parte dei casi, pertanto – e comunque riguardo al reato oggetto del giudizio a quo, rispetto al quale le predette esigenze appaiono difficilmente configurabili – l’attuazione dell’espulsione (che, quale provvedimento amministrativo, costituisce lo stesso presupposto del reato) non potrebbe essere impedita dal giudice e risulterebbe, dunque, praticamente certa;
che in forza del comma 3-quater dell’art. 13, d’altro canto, il giudice, «se non è stato ancora emesso il provvedimento che dispone il giudizio» – come avverrebbe inevitabilmente nel caso di giudizio direttissimo monocratico, che non conosce tale provvedimento, essendo ben diverse la forma e la natura della presentazione dell’arrestato all’udienza da parte del pubblico ministero, di cui all’art. 558 cod. proc. pen. – «acquisita la prova dell’avvenuta espulsione … pronuncia sentenza di non luogo a procedere»;
che ne deriverebbe, quindi, che, rispetto alla maggioranza dei reati commessi da immigrati espulsi, e comunque per il reato oggetto del giudizio a quo, i giudizi direttissimi davanti al giudice monocratico sarebbero destinati a concludersi obbligatoriamente con una sentenza di improcedibilità per effetto della mera «circostanza estrinseca» dell’avvenuta espulsione: condizione, questa, che si realizzerebbe peraltro automaticamente, ad esempio, a seguito della richiesta di termini a difesa;
che, in tal modo, lo straniero verrebbe peraltro privato del diritto di difesa e del diritto di accesso ad un «giusto processo» quanto ai fatti contestati, in violazione degli artt. 24 e 111 Cost., nonché dell’art. 10, secondo comma, Cost., in riferimento agli artt. 5 e 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali;
che sarebbe inoltre violato l’art. 13 Cost., configurandosi un caso di restrizione della libertà personale – arresto obbligatorio – che non trova il suo naturale sbocco nel vaglio giurisdizionale sul merito dell’accusa; nonché l’art. 101, secondo comma, Cost., in quanto il giudice verrebbe «espropriato» dell’esercizio della giurisdizione, rimanendo soggetto non alla legge, ma ad una decisione amministrativa del questore – quella relativa all’esecuzione dell’espulsione – che, imponendo una pronuncia di non luogo a procedere, condizionerebbe il contenuto della sua decisione.
Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni in larga parte analoghe, onde deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi;
che, successivamente alle ordinanze di rimessione, questa Corte, con sentenza n. 223 del 2004, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 13 Cost., l’art. 14, comma 5-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nella parte in cui stabiliva che per il reato di ingiustificato trattenimento dello straniero nel territorio dello Stato, previsto dal comma 5-ter del medesimo articolo, è obbligatorio l’arresto dell’autore del fatto: e ciò in quanto tale misura «precautelare» si risolveva in una limitazione «provvisoria» della libertà personale priva di qualsiasi giustificazione processuale, non potendo essere finalizzata all’adozione di alcun provvedimento coercitivo, data la natura contravvenzionale della fattispecie, né costituendo un presupposto del procedimento amministrativo di espulsione;
che, di seguito a tale pronuncia, il decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241 (Disposizioni urgenti in materia di immigrazione), convertito, con modificazioni, in legge 12 novembre 2004, n. 271, ha mutato il trattamento sanzionatorio delle fattispecie criminose di illegale rientro e di ingiustificato trattenimento dello straniero nel territorio dello Stato, di cui agli artt. 13, comma 13, e 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, trasformandole da contravvenzioni in delitti puniti con la reclusione da uno a quattro anni – configurazione che consente, ai sensi dell’art. 280 cod. proc. pen., l’applicazione di misure coercitive – fatta eccezione per l’ipotesi dell’ingiustificato trattenimento nel caso di espulsione disposta perché il permesso di soggiorno è scaduto da più di sessanta giorni e non ne è stato richiesto il rinnovo, la quale mantiene l’originaria natura contravvenzionale (commi 2-ter e 5-bis dell’art. 1 del decreto-legge n. 241 del 2004, aggiunti dalla legge di conversione);
che, correlativamente, è stata ripristinata – per le ipotesi di ingiustificato trattenimento che hanno assunto connotazione delittuosa – la misura dell’arresto obbligatorio (comma 5-quinquies, terzo periodo, dell’art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998, come sostituito dall’art. 1, comma 6, del decreto-legge n. 241 del 2004);
che la decisione della Corte e la novella legislativa dianzi indicate – pur non incidendo direttamente né sulla previsione in forza della quale per i reati considerati si procede con giudizio direttissimo, né sulla disciplina dell’espulsione amministrativa dello straniero sottoposto a procedimento penale – hanno comportato mutamenti della cornice sistematica e delle concrete modalità operative dei meccanismi normativi sottoposti a scrutinio di costituzionalità;
che, in particolare, la sentenza n. 223 del 2004 è valsa a modificare – riguardo ai fatti di ingiustificato trattenimento commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 271 del 2004 (quali quelli oggetto dei giudizi a quibus) – le modalità di instaurazione del giudizio direttissimo: a seguito di tale sentenza, infatti, non potendosi più procedere all’arresto dell’imputato ed alla sua presentazione diretta in udienza, a norma dell’art. 558 cod. proc. pen., il giudizio direttissimo viene instaurato attraverso la citazione a comparire, con un termine non inferiore a tre giorni (art. 450, comma 2, cod. proc. pen.), che assicura comunque uno spazio temporale preventivo alla difesa; con possibili riflessi anche sull’operatività della previsione di cui all’art. 13, comma 3-quater, del d.lgs. n. 286 del 1998, in tema di declaratoria di non luogo a procedere nel caso di «avvenuta espulsione, se non è ancora stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio»;
che, d’altra parte, una volta che per i fatti dianzi indicati non venga effettuato l’arresto, resta inoperante l’obbligo di rilascio immediato del nulla osta all’espulsione da parte del giudice in sede di convalida della misura, previsto dall’art. 13, comma 3-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998;
che, a loro volta, le successive modifiche legislative introdotte dal decreto-legge n. 241 del 2004, come integrato dalla relativa legge di conversione – ferma restando, ovviamente, l’impossibilità di applicare la nuova disciplina sostanziale ai fatti anteriormente commessi, trattandosi di novella in malam partem – alterano la sequenza procedimentale denunciata dai giudici rimettenti;
che, in particolare, l’applicabilità della misura della custodia cautelare in carcere per i reati in questione, conseguente alla loro trasformazione in delitti – misura che impedisce il rilascio del nulla osta all’espulsione, ai sensi dell’art. 13, commi 3 e 3-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998 – viene ad incidere sull’«automatismo» del meccanismo di espulsione degli stranieri imputati dei reati stessi, oggetto delle censure dei giudici a quibus; e sposta, al tempo stesso, gli equilibri normativi fra le esigenze di immediato allontanamento dello straniero illegalmente presente sul territorio dello Stato e quelle connesse alla celebrazione del processo a suo carico;
che gli atti vanno pertanto restituiti ai giudici a quibus, ai fini di una nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza delle questioni, alla luce dei sopravvenuti mutamenti del quadro normativo.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
ordina la restituzione degli atti ai giudici rimettenti.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 maggio 2005.
Fernanda CONTRI, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria il 26 maggio 2005.