Ordinanza n. 137 del 2005

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ORDINANZA N. 137

ANNO 2005

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

- Fernanda                CONTRI                                     Presidente

- Guido                     NEPPI MODONA                      Giudice

- Piero Alberto          CAPOTOSTI                              "

- Annibale                 MARINI                                     "

- Franco                    BILE                                           "

- Giovanni Maria      FLICK                                         "

- Francesco               AMIRANTE                               "

- Ugo                        DE SIERVO                               "

- Romano                  VACCARELLA                         "

- Paolo                      MADDALENA                          "

- Alfio                       FINOCCHIARO                        "

- Alfonso                  QUARANTA                              "

- Franco                    GALLO                                       "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 500, comma 4, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 26 gennaio 2004 dal Tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di D.P.V., iscritta al n. 515 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2004.

 

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 26 gennaio 2005 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

 

Ritenuto che con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111, quinto comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 500, comma 4, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che possano essere acquisite al fascicolo per il dibattimento le dichiarazioni rese dal testimone nel corso delle indagini preliminari, contenute nel fascicolo del pubblico ministero, quando il testimone medesimo, esaminato in dibattimento, abbia reso per sua scelta dichiarazioni palesemente false o reticenti;

 

che il giudice a quo premette che, nel corso del dibattimento di un processo penale nei confronti di persona imputata dei reati di minaccia aggravata e di minaccia per costringere a commettere un reato, la persona offesa – sentita due volte, dapprima come testimone e poi come «testimone assistito» – aveva reso dichiarazioni palesemente false e reticenti, non solo negando di aver subito minacce, ma addirittura di conoscere l’autore delle stesse;

 

che il pubblico ministero aveva quindi richiesto la lettura dei verbali delle plurime dichiarazioni rese dal medesimo soggetto nel corso delle indagini preliminari, nelle quali era stata data ampia descrizione delle minacce ricevute e delle relative modalità;

 

che la lettura di tali dichiarazioni – pure di tutto rilievo ai fini della ricostruzione dei fatti oggetto di giudizio – risultava però impedita dall’art. 500, comma 4, cod. proc. pen.: quest’ultimo, infatti, consente l’acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone, solo quando vi siano concreti elementi (nella specie mancanti) per ritenere che il testimone stesso sia stato subornato, ovvero sottoposto a violenza o minaccia affinché non deponga o deponga il falso; e non anche nel caso in cui egli abbia reso in dibattimento dichiarazioni palesemente false o reticenti per sua scelta;

 

che, ad avviso del rimettente, la norma impugnata contrasterebbe, in parte qua, con gli artt. 3 e 111, quinto comma, Cost.;

 

che alla luce del nuovo testo dell’art. 111 Cost., difatti, il principio del contraddittorio nella formazione della prova sarebbe assurto nel novero dei principî fondanti il processo penale, ma non in una accezione «massimalistica e totalizzante», come attesterebbero le eccezioni al principio stesso enunciate dal quinto comma dello stesso art. 111 Cost., tra le quali assume particolare rilievo quella relativa all’ipotesi in cui il contraddittorio non possa aver luogo per effetto di provata condotta illecita;

 

che, a fronte di tale previsione, l’ordinamento non potrebbe in nessun caso consentire alla persona che rende la testimonianza di interdire la formazione della prova in contraddittorio o di determinarne l’inquinamento: il rischio della sanzione penale, «spesso assai blanda», per la falsa testimonianza non costituirebbe, difatti, un adeguato deterrente, potendosi comunque conseguire lo scopo illecito;

 

che, d’altro canto, la tutela del contraddittorio in senso soggettivo – inteso come diritto individuale dell’imputato al confronto con l’accusatore, a garanzia del quale è prevista, nello stesso art. 111 Cost., l’impossibilità di fondare il giudizio di colpevolezza sulle «dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore» – si porrebbe in rapporto di complementarità rispetto alla nozione di contraddittorio in senso oggettivo, costituendone una specificazione: nel senso che, allorquando viene rispettato il diritto soggettivo al contraddittorio – perché il dichiarante non si sottrae all’interrogatorio dell’imputato – l’effetto negativo di inutilizzabilità, conseguente all’interdizione del contraddittorio stesso, non dovrebbe prodursi;

 

che, nel caso specifico della testimonianza falsa o reticente, mentre non potrebbe affermarsi che il testimone si sia sottratto all’interrogatorio dell’imputato o del suo difensore, sarebbe altresì indubbio che la scelta del teste di non adempiere al dovere di deporre – rispondendo secondo verità – concreti una condotta illecita;

 

che, proprio perché illecita, tale scelta non potrebbe provocare l’inutilizzabilità delle dichiarazioni a contenuto accusatorio dello stesso soggetto, acquisite senza l’apporto dialettico dell’imputato, giacché la deroga alla formazione della prova in contraddittorio prevista dal quinto comma dell’art. 111 Cost. riguarderebbe, logicamente, non solo e non tanto le condotte illecite poste in essere da terzi sul dichiarante – rispetto alle quali l’espressa previsione della norma costituzionale non sarebbe stata neppure necessaria – ma anche e soprattutto le condotte illecite realizzate dal dichiarante stesso;

 

che sarebbe pertanto irragionevole – e dunque contrastante con l’art. 3 Cost. – un sistema che predispone le «tutele dovute» per il caso in cui l’assunzione dialettica della prova sia interdetta o inquinata dal fatto illecito del terzo ed omette, per contro, di adottarle nel caso in cui l’interdizione o l’inquinamento siano frutto di libera scelta del testimone: non essendovi, tra le due ipotesi, alcuna apprezzabile differenza sotto il profilo considerato;

 

che, diversamente opinando, verrebbero paradossalmente legittimati sul piano processuale gli effetti di un atto illecito, provocando «la distruzione dell’essenza stessa della categoria della testimonianza», dato che la prova diverrebbe disponibile anche da parte del soggetto gravato dal dovere di verità;

 

che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.

 

Considerato che questa Corte, esaminando analoghe questioni, ha già avuto occasione di escludere che l’art. 500, comma 4, cod. proc. pen. si ponga in contrasto con i parametri costituzionali evocati dall’odierno giudice rimettente, nella parte in cui consente di utilizzare in modo pieno le dichiarazioni precedentemente rese dal testimone soltanto nei casi di subornazione, ovvero di violenza o minaccia esercitate sul testimone stesso, e non anche quando la sua deposizione appaia integrativa del reato di falsa testimonianza (cfr. ordinanze n. 453 e n. 518 del 2002);

 

che, al riguardo, questa Corte ha infatti chiarito come – contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo – l’art. 111, quinto comma, Cost., nel prefigurare una deroga al principio della formazione della prova in contraddittorio «per effetto di provata condotta illecita», abbia inteso riferirsi alle sole «condotte illecite» poste in essere «sul» dichiarante (quali la violenza, la minaccia o la subornazione), e non anche a quelle realizzate «dal» dichiarante stesso in occasione dell’esame in contraddittorio (quale, principalmente, la falsa testimonianza): e ciò alla luce sia della ratio del precetto costituzionale, che del suo necessario coordinamento con la previsione del secondo periodo del quarto comma del medesimo art. 111, che immediatamente lo precede;

 

che questa Corte ha rilevato, altresì, come l’eterogeneità delle situazioni poste a confronto – intimidazione o subornazione che coarta od orienta ab externo l’atteggiamento dibattimentale del testimone, da un lato; libera scelta del teste di rendere dichiarazioni non veritiere o di tacere in dibattimento, dall’altro – renda palese l’insussistenza della dedotta violazione dell’art. 3 Cost.;

 

che il giudice a quo non prospetta, nella sostanza, argomenti ulteriori e diversi rispetto a quelli già esaminati nelle precedenti decisioni, peraltro affatto ignorate dall’ordinanza di rimessione;

 

che la questione deve essere dichiarata pertanto manifestamente infondata.

 

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 500, comma 4, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111, quinto comma, della Costituzione, dal Tribunale di Milano con l’ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 marzo 2005.

 

Fernanda CONTRI, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 6 aprile 2005.