Ordinanza n. 9 del 2005

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ORDINANZA N. 9

ANNO 2005

 

REPUBBLICA ITALIANA                 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO             

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Carlo                        MEZZANOTTE                         Presidente

-  Fernanda                 CONTRI                                      Giudice

-  Piero Alberto           CAPOTOSTI                                     "

-  Annibale                  MARINI                                            "

-  Franco                     BILE                                                  "

-  Giovanni Maria       FLICK                                               "

-   Francesco               AMIRANTE                                      "

-  Ugo                         DE SIERVO                                      "    

-   Romano                  VACCARELLA                               "

-   Paolo                      MADDALENA                                 "

-  Alfio                        FINOCCHIARO                               "

-   Alfonso                  QUARANTA                                    "

-   Franco                    GALLO                                             "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come sostituito dall’art. 4, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), promossi con ordinanze del 15 maggio 2003 e del 25 agosto 2003 dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia - sezione staccata di Brescia sui ricorsi proposti da Dusha Sokol e da Belghith Essaied Ben Braiek contro il Ministero dell’Interno ed altro, iscritte ai nn. 577 e 898 del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 34 e 45, prima serie speciale, dell’anno 2003.

  Visto  l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 29 settembre 2004 il Giudice relatore Fernanda Contri.

Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, sezione di Brescia, con ordinanza emessa in data 15 maggio 2003, ha sollevato per violazione degli artt. 3 e 13 della Costituzione questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come sostituito dall’art. 4, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), applicato in relazione agli artt. 5, comma 5, e 13, comma 2, lettera b), dello stesso d.lgs., nella parte in cui pone quale elemento ostativo all’ingresso ed alla permanenza in Italia dello straniero l’intervenuta condanna dello stesso per determinati reati, senza prevedere la verifica in concreto della sua pericolosità sociale;

che il rimettente è investito dell’esame di un ricorso col quale è stato chiesto l’annullamento del provvedimento del questore che ha negato ad un cittadino extracomunitario il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, in quanto il richiedente risulta avere precedenti penali per reati concernenti gli stupefacenti;

che, come osserva il giudice a quo, il ricorso è sostenuto da una serie di motivi volti a censurare le norme poste alla base del rifiuto sotto diversi profili di illegittimità costituzionale;

che, quanto alla rilevanza, il rimettente rileva che l’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 pone quale condizione ostativa all’ingresso ed alla permanenza dello straniero nel territorio nazionale la condanna per reati inerenti agli stupefacenti, e che essendo l’emanazione del provvedimento amministrativo vincolata al principio tempus regit actum, nel caso di specie la condanna riportata dal ricorrente gli preclude il rinnovo del permesso di soggiorno;

che, come continua l’ordinanza, la legge 21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa) ha attribuito al giudice amministrativo l’esercizio di poteri cognitivi di merito anche in sede cautelare, e ciò non solo al fine dell’emissione di un’eventuale sentenza in forma abbreviata in caso di manifesta fondatezza, ovvero di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso, ma anche al fine della motivazione del provvedimento cautelare in caso di accoglimento della relativa istanza;

che, sempre ad avviso del rimettente, l’art. 21, settimo comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), così come sostituito dall’art. 3 della citata legge n. 205 del 2000, prevede che l’ordinanza cautelare sia motivata in ordine alla valutazione del pregiudizio e che siano individuati i profili che indicano la ragionevole previsione dell’esito del ricorso;

che, secondo il giudice a quo, il TAR ha ritenuto che il ricorso, volto ad ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno “quale bene della vita cui ambisce il ricorrente”, possa essere accolto, ma solo previa declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione censurata;

che, sempre secondo il rimettente, il Consiglio di Stato, con la sentenza della Sezione quinta del 7 febbraio 2003, n. 645, ha affermato che l’effettività della tutela giurisdizionale nel processo amministrativo deve essere garantita anche attraverso la puntuale applicazione dell’art. 112 del codice di procedura civile, a norma del quale il giudice deve pronunciarsi su tutta la domanda e, nell’affrontare le diverse questioni, deve iniziare da quelle che appaiono idonee a soddisfare maggiormente l’interesse sostanziale del ricorrente, per passare solo successivamente all’esame degli ulteriori motivi;

che, quanto alla non manifesta infondatezza, il TAR rimettente osserva che l’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 stabilisce che il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati - ed il permesso già rilasciato viene revocato - quando mancano o vengono successivamente a mancare i requisiti richiesti per l’ingresso o il soggiorno dello straniero nel territorio dello Stato, mentre l’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 stabilisce che non è ammesso in Italia lo straniero “che risulti condannato, anche a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per i reati previsti dall’articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale, ovvero per i reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite”;

che, ad avviso del rimettente, la disposizione in esame considera quale elemento ostativo all’ingresso dello straniero ed al rinnovo del permesso di soggiorno la semplice condanna per determinati reati, mentre l’art. 15 del medesimo d.lgs., nel disciplinare l’espulsione quale misura di sicurezza, consente al giudice di ordinare la stessa nel caso in cui lo straniero sia stato condannato per uno dei delitti previsti dagli artt. 380 e 381 cod. proc. pen., ma solo quando egli risulta essere socialmente pericoloso;

che secondo il giudice a quo il procedimento amministrativo per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno deve essere coordinato con il procedimento di espulsione, disciplinato dall’art. 13 del d.lgs. citato, per l’ipotesi in cui il permesso di soggiorno sia stato revocato o annullato ovvero risulti scaduto da oltre sessanta giorni e non  ne sia stato richiesto il rinnovo;

che il procedimento di rinnovo, come prosegue il rimettente, costituisce l’antecedente logico in forza del quale, in caso di rifiuto, viene successivamente avviato il procedimento di espulsione, e non sembra pertinente l’obiezione secondo la quale è in tale sede che deve avvenire il giudizio di pericolosità sociale, visto che è quello il momento in cui l’autorità amministrativa è chiamata a valutare i requisiti per il rilascio o il rinnovo dell’atto;

che nel caso di specie l’unico precedente penale ostativo è costituito dalla condanna dello straniero per il reato di detenzione illecita di sostanze stupefacenti, pronunciata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., sentenza divenuta irrevocabile il 3 febbraio 2000;

che, la Corte con la sentenza n. 58 del 1995 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 86, comma 1, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui obbligava il giudice ad emettere l’ordine di espulsione dello straniero condannato per reati in materia di stupefacenti, senza l’accertamento della sussistenza in concreto della sua pericolosità sociale, come previsto dall’art. 31 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà);

che ad avviso del rimettente l’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, “applicato in correlazione con i successivi artt. 5, comma 5, e 13, comma 2, lettera b)”, viola l’art. 3 Cost. in quanto consente all’autorità amministrativa di disporre l’espulsione dello straniero dal territorio italiano per la semplice condanna per determinati reati, senza richiedere la valutazione in concreto della pericolosità sociale, come invece è tenuto a fare il giudice quando applica l’espulsione a titolo di misura di sicurezza, pur essendo analoghi nei due casi gli effetti del provvedimento;

che la violazione dell’art. 3 Cost., secondo il giudice a quo, sarebbe confermata dalla circostanza che, mentre l’art. 445 cod. proc. pen. non consente l’applicazione di misure di sicurezza per le sentenze pronunciate a seguito di patteggiamento, stante il carattere premiale attribuito dal legislatore a tale rito speciale, il ricorrente verrebbe a patire l’espulsione a seguito del diniego del rinnovo del permesso di soggiorno vedendo in tal modo vanificato l’effetto premiale conseguito in sede giudiziaria;

che, trattandosi di misura che incide sulla libertà personale, l’espulsione disposta in via amministrativa e l’espulsione disposta dal giudice come misura di sicurezza, se non assistite dal previo vaglio di pericolosità sociale, violano anche l’art. 13 Cost., che si applica a tutti, cittadini o stranieri;

che nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo alla Corte di dichiarare la questione inammissibile;

che secondo l’Avvocatura l’oggetto del giudizio a quo è dato dal rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro e non da un provvedimento di espulsione (che nella specie non risulta neppure emanato), assunto al contrario nella ordinanza come presupposto dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati;

che, come rileva ancora la difesa erariale, l’espulsione amministrativa è disciplinata dall’art. 13 del d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dalla legge n. 189 del 2002, una disposizione puntualmente osservata dall’amministrazione interessata;

che con altra ordinanza, emessa il 25 agosto 2003, il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, sezione di Brescia, ha nuovamente sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, come sostituito dall’art. 4, comma 1, della legge n. 189 del 2002, applicato in relazione con i successivi artt. 5, comma 5, e 13, comma 2, lettera b), del medesimo d.lgs., per violazione degli artt. 2, 3, 4, 13, 16 e “29 e seguenti” Cost.;

che il rimettente è investito dell’esame di un ricorso col quale un cittadino straniero chiede l’annullamento del provvedimento del questore che gli ha negato il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro in quanto il richiedente risulta avere precedenti penali ritenuti ostativi;

che l’ordinanza prosegue riportando, in parte, il testo della motivazione del precedente atto di promovimento del giudizio di legittimità costituzionale, cui aggiunge le ulteriori ragioni che seguono;

che, quanto alla non manifesta infondatezza, il TAR rimettente osserva che la disposizione censurata si pone in contrasto, oltre che con gli artt. 3 e 13 Cost., anche con gli artt. 2, 4, 16 e 29 e seguenti Cost., nella parte in cui pone quale elemento ostativo all’ingresso o alla permanenza in Italia dello straniero la intervenuta condanna per determinati reati, compresa quella subita a seguito di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., in epoca antecedente alle modifiche introdotte dalla citata legge n. 189 del 2002;

che, ad avviso del giudice a quo, è irragionevole la scelta del legislatore di ritenere rilevanti ai fini della non ammissione in Italia anche le sentenze di patteggiamento pronunciate prima dell’entrata in vigore delle modifiche legislative, perché in tal modo si disconosce l’effetto premiale di tali pronunce, come confermato dalla sentenza della Corte n. 394 del 2002, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche);

che, secondo il rimettente, la componente negoziale insita nell’istituto del patteggiamento esige una consapevole manifestazione di volontà dell’imputato ed impone di preservare la genuinità dell’accordo, non quale aspettativa generica circa la vigenza di una specifica disciplina legislativa, ma perché lesiva di un affidamento qualificato e costituzionalmente protetto;

che, come prosegue l’ordinanza, l’aspettativa che appare meritevole di tutela deriva dai riflessi che la sentenza di patteggiamento è in grado di produrre sulle libertà della persona, e in particolare per la permanenza dello straniero in Italia e sulle opportunità che essa offre per il lavoro (art. 4 Cost.), per l’esercizio di tutte le altre garanzie costituzionalmente riconosciute e protette dagli artt. 13, 16 e 29 e seguenti Cost., quali espressioni di libertà e di sviluppo della personalità umana dell’individuo, inteso come singolo e nelle formazioni sociali in cui essa si svolge (art. 2 Cost.); 

che il giudice rimettente ancora osserva che il ricorrente ha riportato una condanna ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. e si vede ora rifiutare per tale ragione il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato in forza della disposizione introdotta con la legge n. 189 del 2002, quando egli al momento del patteggiamento non era certamente in grado di valutare i “costi-benefici” della scelta del rito alternativo;

che in ragione delle finalità dell’accordo allora concluso tra lo Stato e l’imputato extracomunitario, appare irragionevole la soluzione adottata, che comporta la vanificazione degli effetti del patteggiamento a danno di una sola delle parti;

che il TAR rimettente prosegue osservando che, pur essendo diversi i  procedimenti, amministrativo e giurisdizionale, che portano rispettivamente al diniego del permesso di soggiorno ed alla successiva espulsione, in entrambi i casi risulta identico il risultato, che consiste nell’allontanamento dello straniero dal territorio nazionale e nella conseguente impossibilità per lo stesso di esercitare i diritti e godere delle libertà che la Costituzione riconosce;

che, sotto un ulteriore profilo, secondo il rimettente la scelta del legislatore appare irragionevole e sproporzionata in quanto essa sanziona col diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, e quindi con l’espulsione dal territorio dello Stato, anche fatti di lieve e lievissima entità;

che in assenza di un “ragionevole giudizio di pericolosità sociale quale necessario momento di valutazione e di applicazione di una misura proporzionale alla gravità dei fatti commessi”, vi sarebbe la lesione di diritti inviolabili e costituzionalmente garantiti secondo principi affermati da diverse pronunce di questa Corte. 

Considerato che le due ordinanze del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, sezione di Brescia, sollevano entrambe questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come sostituito dall’art. 4, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), “applicato in correlazione” con gli artt. 5, comma 5, e 13, comma 2, lettera b), del medesimo d.lgs., nella parte in cui pone come elemento ostativo al rinnovo del permesso di soggiorno, e conseguentemente alla permanenza in Italia dello straniero, l’intervenuta condanna, anche a seguito di patteggiamento, per determinati reati, senza prevedere un’ulteriore verifica in concreto della pericolosità sociale del soggetto; 

che le due ordinanze sollevano questioni in parte identiche ed in parte analoghe, sia pure fondate su parametri non del tutto coincidenti, e che le stesse devono perciò essere riunite per essere decise con unico provvedimento;

che, come risulta chiaramente dal testo della motivazione delle due ordinanze, il rimettente è investito dell’esame di due ricorsi proposti da cittadini extracomunitari avverso provvedimenti del questore che hanno loro negato il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, in quanto essi risultavano aver riportato condanne a seguito di patteggiamento per reati concernenti gli stupefacenti;

che l’oggetto dei due giudizi davanti al TAR rimettente è quindi precisamente definito dai ricorsi avverso i provvedimenti coi quali è stato rifiutato il rinnovo dei due permessi di soggiorno, e non dalla impugnazione di provvedimenti di espulsione;

che, al contrario, il giudice a quo assume come presupposto delle censure di legittimità costituzionale le conseguenze che i due ricorrenti potrebbero subire in ordine alla loro successiva espulsione dal territorio nazionale;

che in ogni caso il TAR non è competente ad esaminare le doglianze relative a provvedimenti di espulsione, la cui cognizione è attribuita ai giudici ordinari;

che, a prescindere dalla pertinenza di alcuni dei parametri invocati e dalla carente motivazione di alcune delle censure svolte nelle ordinanze, le questioni risultano quindi manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza nei giudizi a quibus, nei quali non si controverte in ordine a provvedimenti di espulsione.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti  i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come sostituito dall’art. 4, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 13, 16, e 29 e seguenti della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, sezione di Brescia, con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,

l'11  gennaio 2005.

Carlo MEZZANOTTE, Presidente

Fernanda CONTRI, Redattore

Depositata in Cancelleria il 14 gennaio 2005.