SENTENZA N.264
ANNO 2003
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Riccardo CHIEPPA, Presidente
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
- Ugo DE SIERVO
- Romano VACCARELLA
- Alfio FINOCCHIARO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti) e 31 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 411 (recte: 511) (Guarentigie della magistratura), promosso con ordinanza del 12 luglio 2002 dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, iscritta al n. 396 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2002.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 aprile 2003 il Giudice relatore Valerio Onida.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza pronunciata il 12 luglio 2002 e pervenuta a questa Corte il 6 agosto 2002, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale degli articoli 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti) e 31 del regio decreto legislativo del 31 maggio 1946, n. 411 (recte: 511) (Guarentigie della magistratura), in relazione all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui tali disposizioni non prevedono un termine di durata massima della misura cautelare della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio del magistrato ordinario, sottoposto a procedimento penale (art. 31, terzo comma, del r.d.lgs. n. 511 del 1946).
Espone il remittente di doversi pronunciare, in un procedimento disciplinare, sull’istanza di revoca della misura cautelare sopra indicata, proposta da un magistrato ordinario.
Premette la Sezione disciplinare che tale magistrato, destinatario di ordinanza applicativa della misura cautelare della custodia in carcere in relazione al delitto di partecipazione ad associazione a delinquere di stampo camorristico (art. 416-bis cod. pen., commi primo, terzo, quarto e quinto), fu sospeso dalle funzioni dalla stessa Sezione remittente con collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura e con attribuzione di assegno alimentare, in applicazione dell’art. 31, primo comma, del r.d.lgs. n. 511 del 1946, che prevede, in caso di "ordine di cattura", la sospensione "di diritto" del magistrato.
A seguito di annullamento in sede giurisdizionale dell’ordinanza che aveva disposto la misura della custodia in carcere (stante la ritenuta insussistenza di esigenze cautelari), la Sezione disciplinare revocò il provvedimento sospensivo, ricollocando nel ruolo il magistrato.
Successivamente questi fu rinviato a giudizio innanzi al Tribunale di Salerno, in relazione all’imputazione originariamente formulata e al delitto di corruzione.
La Sezione disciplinare adottò, quindi, su conforme richiesta del Ministro della giustizia, nuovo provvedimento di sospensione, ai sensi dell’art. 31, terzo comma, del r.d.lgs. n. 511 del 1946, rigettando poi un’istanza di revoca di tale misura.
Il provvedimento cautelare fu annullato con rinvio dalla Corte di cassazione a Sezioni unite, che, superando il proprio precedente orientamento, ritenne necessario che la Sezione disciplinare valutasse non la gravità in astratto dell’imputazione, ma la consistenza e la serietà dei fatti contestati nel procedimento penale, sia pure nei limiti di una mera delibazione allo stato degli atti.
La Sezione disciplinare, sulla base dei predetti presupposti, sospese nuovamente il magistrato dalle funzioni ai sensi dell’art. 31, terzo comma, del r.d.lgs. n. 511 del 1946; il ricorso avverso tale provvedimento fu rigettato dalle Sezioni unite.
Successivamente il magistrato fu giudicato colpevole in primo grado dal Tribunale di Salerno dei reati ascrittigli e condannato alla pena di anni 6 di reclusione, con interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Il 3 gennaio 2002 il magistrato, premesso che l’efficacia della misura cautelare di sospensione dalle funzioni si era protratta oltre il periodo quinquennale previsto dall’art. 9, secondo comma, della legge n. 19 del 1990 (che impone, in relazione al pubblico dipendente, la revoca di diritto della misura assunta "a causa del procedimento penale", ove compiutosi tale termine), ha chiesto di essere reintegrato nelle funzioni.
La Sezione disciplinare ha rigettato tale ultima istanza, osservando in primo luogo che la misura cautelare era stata disposta, in applicazione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite, a seguito di una ponderata valutazione del fumus di commissione del delitto, ciò che, in armonia con la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 447 del 1995, n. 206 del 1999 e n. 454 del 2000), consentirebbe di sottrarla ad un prefissato termine di decadenza; in secondo luogo, che, quand’anche si fosse ritenuto applicabile al magistrato ordinario l’art. 9 della legge n. 19 del 1990, tuttavia l’art. 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche) avrebbe dovuto condurre alla reiezione della domanda.
Tale disposizione, infatti, stabiliva, al tempo in cui la Sezione disciplinare si è pronunciata, che la sospensione del pubblico dipendente dal servizio, seguita di diritto alla condanna, anche non definitiva, per il delitto, tra gli altri, di cui all’art. 319 cod. pen., perdesse efficacia "decorso un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato".
In seguito, ricorda la Sezione remittente, è sopraggiunta la sentenza n. 145 del 2002 di questa Corte, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 97 del 2001, nella parte in cui disponeva che la sospensione perdesse efficacia decorso un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato, ed ha individuato nel termine di cinque anni di cui all’art. 9 della legge n.19 del 1990 l’espressione di "una vera e propria clausola di garanzia, avente portata generale e dunque comprensiva, in difetto di diversa disciplina legislativa, di ogni e qualsiasi ipotesi di "sospensione cautelare dal servizio a causa del procedimento penale", sia facoltativa che obbligatoria".
Alla luce di tale pronuncia, il magistrato ha reiterato la propria istanza di revoca della misura cautelare di natura disciplinare per decorrenza del termine, originando così il procedimento a quo.
Evidenzia il remittente che, con la decisione n. 145 del 2002, questa Corte avrebbe affermato che compete al legislatore, nell’esercizio di una non irragionevole discrezionalità, identificare ipotesi circoscritte nelle quali l’esigenza cautelare che fonda la sospensione è apprezzata in via generale ed astratta dalla stessa legge e che, tuttavia, nel caso di specie il collegamento della durata della misura cautelare al termine di prescrizione del reato si palesava irragionevole e lesivo dell’art. 3 della Costituzione.
Tale giurisprudenza, prosegue la Sezione disciplinare, ha perciò per oggetto le ipotesi di sospensione dal servizio applicata "a causa del procedimento penale", nelle quali, vale a dire, è direttamente la legge a porre l’obbligo per l’amministrazione di disporre la misura in ragione della pendenza del procedimento penale (cd. sospensione automatica), ovvero nelle quali l’amministrazione, pur chiamata ad esprimere un giudizio, tuttavia opera una "valutazione in astratto della gravità dell’imputazione", incentrata sulla sola "pendenza del procedimento (penale) in sé e per sé considerata".
La pronuncia da ultimo intervenuta si porrebbe, prosegue la Sezione remittente, nel solco di un consolidato orientamento della Corte, maturato fin dalla sentenza n. 447 del 1995, e proseguito con le decisioni n. 206 del 1999 e n. 454 del 2000.
Nel sistema normativo vigente, conclude il remittente sulla base di tali precedenti, non è previsto un termine massimo di durata della misura cautelare, legato al mero decorso del tempo, con riguardo all’ipotesi di sospensione cautelare disposta dall’amministrazione in relazione alla pendenza di un procedimento penale, ma in base ad un’autonoma (sia pur sommaria) delibazione nel merito dei fatti contestati.
La Sezione disciplinare non intende negare che esista diversità di situazione tra tale ultima ipotesi ed il caso in cui, viceversa, la misura cautelare sia applicata solo "a causa del procedimento penale", nell’accezione già descritta di questa espressione. Né ignora la sentenza n. 454 del 2000 di questa Corte, con cui è stata rigettata questione di costituzionalità concernente l’art. 140 della legge notarile, posto che l’inabilitazione prevista da tale norma in via cautelare segue ad un procedimento fondato su una valutazione, seppur sommaria, dei fatti, viene applicata da un organo giurisdizionale con garanzia del contraddittorio, e resta comunque revocabile.
Tuttavia il remittente ritiene che la predetta diversità, dapprima stimata costituzionalmente ammissibile dalla stessa Sezione disciplinare, abbia cessato di essere "razionalmente giustificata", a seguito della sentenza n. 145 del 2002 di questa Corte.
Premesso infatti che l’art. 9, secondo comma, della legge n. 19 del 1990 si rende applicabile ai magistrati, in virtù del rinvio disposto dall’art. 276 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario) alle disposizioni generali relative agli impiegati civili dello Stato, ne seguirebbe che la sospensione del magistrato disposta "automaticamente" a seguito di condanna penale, pur non definitiva (in forza dell’art. 4 della legge n. 97 del 2001), sarebbe destinata a perdere efficacia, decorso il termine quinquennale, mentre la sospensione applicata sulla base di una valutazione sommaria dei fatti non incontrerebbe alcun limite di durata. Ciò, prosegue la Sezione disciplinare, nonostante il bilanciamento tra l’esigenza cautelare e l’interesse del dipendente sia stato operato dal legislatore, fissando un limite massimo di durata della sospensione dal servizio, che resterebbe invece inapplicabile alla misura disposta ai sensi dell’art. 31 del r.d.lgs. n. 411 del 1946, sia pure sulla base di un apprezzamento discrezionale in ordine alla sussistenza del fumus degli addebiti e delle esigenze cautelari, ma "pur sempre in relazione alla pendenza di un procedimento penale ed ai fatti per i quali in esso si procede".
Nel caso di specie, aggiunge il remittente, il magistrato è stato sospeso dalle funzioni a seguito di una valutazione sommaria dei fatti addebitatigli nel procedimento penale.
Inoltre, essendo difficile immaginare mutamenti delle circostanze poste a fondamento della contestazione, suscettibili di giustificare una revoca della misura cautelare, non riconducibili agli sviluppi del procedimento penale, la misura stessa finirebbe per avere una "durata indefinita".
Pertanto, conclude la Sezione remittente, la mancata previsione nelle disposizioni censurate di un termine di durata massima della misura cautelare applicata a seguito di delibazione dei fatti apparirebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, in quanto introdurrebbe una disparità di trattamento non giustificabile rispetto al modo in cui è disciplinata l’ipotesi della sospensione applicata "a causa del procedimento penale".
2.– E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
Con memoria depositata in prossimità della camera di consiglio, l’Avvocatura, ripercorse le tappe del procedimento penale e disciplinare a carico del magistrato, ha osservato che il giudizio demandato alla Sezione disciplinare del CSM è autonomo rispetto al processo penale per i medesimi fatti, posto che tende a "rendere concreto il diritto all’autotutela dell’amministrazione giudiziaria", garantendo l’immagine e la credibilità dell’ordine giudiziario.
Pertanto, conclude l’Avvocatura, benché la mancata previsione di un termine massimo di durata della misura cautelare comporti una "discriminazione" tra i magistrati e gli altri pubblici dipendenti, tuttavia quest’ultima è da ritenersi non irragionevole.
Vi sarebbe, infatti, la necessità di precludere il rientro del magistrato nell’esercizio delle funzioni, fino a quando sia stato fugato ogni dubbio sull’"irreprensibilità" del suo comportamento.
Considerato in diritto
1.– La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, chiamata a pronunciarsi sull’istanza di revoca di un provvedimento di sospensione di un magistrato dalle funzioni e dallo stipendio, disposto a seguito del rinvio a giudizio del medesimo con l’imputazione di partecipazione ad associazione a delinquere di stampo camorristico e di corruzione, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 9, secondo comma, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti), e dell’art. 31 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), nella parte in cui non prevedono "un termine di durata massima della misura cautelare della sospensione discrezionalmente disposta in base a valutazione sommaria nel merito dei fatti dedotti nel procedimento penale".
La Sezione remittente premette che il magistrato imputato era stato sospeso, ai sensi dell’art. 31, terzo comma, del r.d.lgs. n. 511 del 1946 (secondo il quale "il magistrato sottoposto a procedimento penale per delitto non colposo può ... essere provvisoriamente sospeso dalle funzioni e dallo stipendio"), con un’ordinanza che – a seguito dell’annullamento di un precedente analogo provvedimento, e in conformità al principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione – era stata adottata non già sul mero presupposto della pendenza del procedimento penale e di una valutazione in astratto della gravità dell’imputazione, ma alla stregua di una autonoma valutazione, sia pure contenuta nei limiti di una delibazione sommaria, del merito in ordine alla responsabilità del magistrato, al rilievo disciplinare della condotta attribuitagli e alla sussistenza di esigenze che in concreto rendevano inopportuna la sua permanenza in servizio.
La Sezione richiama la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale ricava il principio secondo cui la regola della durata massima quinquennale della misura cautelare sospensiva, stabilita dall’art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990 in relazione ai pubblici dipendenti sospesi "a causa del procedimento penale", vale come clausola di garanzia di portata generale applicabile sia nelle ipotesi in cui la sospensione è disposta in base ad un obbligo di legge (c.d. sospensione "automatica"), sia in quelle in cui, pur essendo rimesso all’amministrazione il potere di disporre la misura cautelare, l’applicazione di questa consegua ad una valutazione in cui è la pendenza del procedimento penale in sé e per sé considerata, in ragione della gravità dei fatti contestati, a costituire la ragione giustificatrice sufficiente dell’esercizio del potere discrezionale da parte dell’amministrazione medesima; e sottolinea la differenza tra l’ipotesi di misura sospensiva applicabile automaticamente e quella di sospensione c.d. "discrezionale" conseguente ad una valutazione nel merito dei fatti, sia pure contenuta nei limiti di una delibazione sommaria.
Tuttavia la Sezione, alla luce della recente sentenza di questa Corte n. 145 del 2002, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, della legge n. 97 del 2001 – relativo alla sospensione obbligatoria dei dipendenti pubblici condannati, anche non definitivamente, per determinati reati – nella parte in cui disponeva che la sospensione perdesse efficacia solo decorso un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato, rendendo così applicabile alla fattispecie la regola della durata massima quinquennale di cui all’art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990, reputa che non sia razionalmente giustificata, alla luce dell’art. 3 della Costituzione, una diversità di disciplina per cui, mentre la sospensione cautelare dal servizio disposta automaticamente per effetto di una sentenza penale di condanna perde efficacia decorsi cinque anni, è invece suscettibile di protrarsi anche oltre tale termine la sospensione disposta discrezionalmente dall’amministrazione in base ad un’autonoma e sommaria valutazione dei fatti dedotti nel procedimento penale, e quindi pur sempre in relazione alla pendenza del procedimento penale ed ai fatti per i quali in esso si procede. E aggiunge che, nel caso concreto, restando lo sviluppo del procedimento disciplinare condizionato dallo svolgimento del procedimento penale, apparirebbe difficile ipotizzare mutamenti di circostanze suscettibili di giustificare una revoca della misura cautelare, che non siano sopravvenuti nel corso del procedimento penale e non si riconducano agli sviluppi di esso.
2.– La questione non è fondata.
Come la stessa Sezione remittente ricorda, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato da tempo la necessità che le misure cautelari sospensive nei confronti di pubblici impiegati o di esercenti funzioni pubbliche siano adottate, in linea di principio, dall’amministrazione competente in base ad un apprezzamento concreto sia degli addebiti, sia delle esigenze cautelari; ha precisato che non può però negarsi al legislatore, in circoscritte ipotesi, la possibilità di effettuare direttamente l’apprezzamento di tali esigenze cautelari in relazione alla pendenza, a carico dell’interessato, di procedimenti penali per fatti suscettibili di avere anche rilievo disciplinare, e comunque per accuse suscettibili di rendere inopportuna, per l’amministrazione, la permanenza dell’interessato nell’esercizio delle funzioni; ha affermato che, ove la misura cautelare si colleghi esclusivamente, come effetto "automatico", alla pendenza di un procedimento penale, un corretto contemperamento degli interessi di rilievo costituzionale in gioco esige che sia fissata una ragionevole durata massima alla misura cautelare (cfr. sentenze n. 766 del 1988, n. 595 del 1990, n. 239 del 1996, n. 447 del 1995, n. 206 del 1999, n. 454 del 2000, n. 145 del 2002).
L’esigenza di tale limitazione temporale è connessa al carattere "automatico" della misura o quanto meno alla circostanza che la sospensione sia disposta sulla base del mero dato formale della pendenza del procedimento penale, cioè è connessa al fatto che l’apprezzamento dell’esistenza delle esigenze cautelari, anziché essere frutto di una autonoma valutazione dell’amministrazione, è compiuto "in astratto" dal legislatore, e collegato all’accusa penale "solo in quanto è la pendenza dell’accusa, come tale, che mette in pericolo interessi" dell’amministrazione (sentenza n. 206 del 1999).
Quando invece la misura cautelare sia di applicazione discrezionale, nel senso che "in tanto può essere adottata, in quanto l’autorità competente riscontri in concreto la sussistenza delle esigenze cautelari che la motivano, e può essere mantenuta solo fino a quando tali esigenze permangano", allora "si deve escludere che sia costituzionalmente necessaria la determinazione di un limite massimo di durata, oltre il quale la misura non possa essere mantenuta, pur permanendo, in ipotesi, le esigenze cautelari" (sentenza n. 454 del 2000).
Da questi principi non si discosta la sentenza n. 145 del 2002, invocata dalla Sezione remittente: in essa si ribadisce che la clausola di garanzia della durata massima della misura comprende ogni "ipotesi di sospensione dal servizio a causa del procedimento penale, sia facoltativa che obbligatoria", con riferimento ai casi in cui è la sola pendenza del procedimento penale, in quanto tale, che conduce alla sospensione, indipendentemente da un autonomo apprezzamento delle esigenze cautelari in concreto ad opera dell’amministrazione: e infatti l’applicazione del principio fatta dalla Corte in quel caso riguarda proprio una ipotesi – quella di cui all’art. 4, comma 2, della legge n. 97 del 2000 – che prevede la sospensione obbligatoria (c.d. "automatica") a seguito di condanna, anche non definitiva, per determinati delitti.
In coerenza con questa impostazione, la stessa Corte, quando ha giustificato costituzionalmente la durata limitata nel tempo della sospensione del dipendente a causa del mero dato formale della pendenza del procedimento penale, o ha fornito un’interpretazione costituzionalmente conforme di norme che prevedevano siffatte ipotesi di sospensione, ritenendole vincolate ad una durata massima limitata nel tempo, ha sottolineato che, scaduto il termine massimo di durata della sospensione "a causa del procedimento penale", all’amministrazione resta il potere di ricorrere, sussistendone i presupposti, alla sospensione facoltativa o discrezionale, per motivi non più consistenti nella mera pendenza del procedimento penale, ma fondati sulla cognizione sia pure sommaria dei fatti costituenti illecito disciplinare e sull’apprezzamento in concreto delle esigenze cautelari (sentenza n. 447 del 1995 e n. 206 del 1999; ordinanza n. 278 del 1999, e cfr. anche sentenza n. 454 del 2000).
3.– La normativa tuttora vigente, relativa ai magistrati ordinari, prevede che all’inizio o nel corso del procedimento disciplinare l’organo competente (oggi la Sezione disciplinare del CSM), su richiesta del Ministro o del pubblico ministero, possa, sentito l’incolpato, "disporne la sospensione provvisoria dalle funzioni e dallo stipendio" (art. 30, primo comma, del r.d.lgs. n. 511 del 1946); che il magistrato sottoposto a procedimento penale sia sospeso di diritto dalle funzioni e dallo stipendio "dal giorno in cui è stato emesso contro di lui mandato o ordine di cattura" (art. 31, primo comma); e che il magistrato sottoposto a procedimento penale per delitto non colposo possa "essere provvisoriamente sospeso dalle funzioni e dallo stipendio" (art. 31, terzo comma).
Non sembra dubbio che, nell’impostazione originaria della legge, tale ultima sospensione, pur facoltativa, si configurasse come conseguenza del semplice dato formale della pendenza del procedimento penale, comportando per l’amministrazione solo il potere-dovere di apprezzare in astratto la gravità dell’accusa. E dunque, fino a quando questo era il senso attribuito a tale norma – in conformità anche alla meno recente giurisprudenza di legittimità –, ad essa avrebbe dovuto assegnarsi portata analoga a quella di altre norme simili che prevedono la sospensione "a causa del procedimento penale", con conseguente applicabilità della garanzia relativa al termine di durata massima.
Ma non è questo il significato che alla norma impugnata attribuisce la Sezione remittente: la quale, fondandosi su una più recente giurisprudenza di legittimità, formatasi proprio con riguardo al caso concreto davanti ad essa in esame, e che ha corretto il precedente orientamento (Cass., sez. un. civ., 3 giugno 1997, n. 4965; 8 luglio 1998, n. 6631), intende la norma in questione nel senso che la misura cautelare può essere disposta non già sul mero presupposto della pendenza del procedimento penale e sulla base di un esame solo formale dell’accusa contestata in quel procedimento, ma in base ad una autonoma delibazione "del merito … in ordine alla responsabilità del magistrato, al rilievo disciplinare della condotta attribuitagli e alla sussistenza di esigenze che in concreto" renderebbero "inopportuna la sua permanenza in servizio", e dunque in base ad un apprezzamento "in ordine alla sussistenza del ‘fumus’ degli addebiti e delle esigenze cautelari", ancorché pur sempre in relazione alla pendenza del procedimento penale ed ai fatti per i quali in esso si procede.
In tale contesto, la misura cautelare non ha più nulla dell’"automatismo" che secondo la giurisprudenza di questa Corte comporta, per ragioni di contemperamento degli interessi costituzionali in gioco, la necessità di una durata rigidamente limitata nel tempo: essa può dunque legittimamente durare fino a quando permangano le esigenze cautelari discrezionalmente apprezzate dall’amministrazione.
D’altra parte possono ipotizzarsi anche mutamenti di circostanze, tali da poter comportare una revoca della misura, che non si riconducano alle vicende del procedimento penale; e l’esigenza cautelare può e deve sempre essere rivalutata dall’amministrazione anche in relazione al tempo trascorso e ad eventuali sviluppi del procedimento penale che possano avere specifico rilievo a tali fini.
4.– E’ pur vero che, interpretato l’art. 31, terzo comma, del r.d.lgs. n. 511 del 1946 nel senso fatto proprio dalla Sezione remittente e dalla più recente giurisprudenza di legittimità, vengono a sfumare considerevolmente i confini fra questa ipotesi normativa e quella della sospensione per gravi motivi adottata all’inizio o nel corso del procedimento disciplinare, prevista dall’art. 30, primo comma, dello stesso r.d.lgs. n. 511 del 1946. E tuttavia tale circostanza, se può fondare l’auspicio di un riordino legislativo dell’intera materia, non muta i presupposti costituzionali su cui si fonda la giurisprudenza di questa Corte, secondo i quali la necessità di un termine rigido di durata massima della misura cautelare vale solo nei casi in cui essa non sia adottata in base ad una autonoma valutazione discrezionale dell’amministrazione in ordine ai presupposti di fatto e alla sussistenza delle esigenze cautelari.
Nella specie, ciò conduce a ritenere non fondata la questione nei riguardi delle norme impugnate, interpretate nel senso dianzi visto e fatto proprio dalla Sezione remittente.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, secondo comma, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti) e dell’art. 31 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2003.
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Valerio ONIDA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2003.