Ordinanza n. 183 del 2003

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ORDINANZA N.183

ANNO 2003

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-    Riccardo                                      CHIEPPA                                    Presidente

-    Gustavo                                       ZAGREBELSKY                          Giudice

-    Valerio                                        ONIDA                                               "

-    Carlo                                           MEZZANOTTE                                  "

-    Fernanda                                     CONTRI                                              "

-    Guido                                          NEPPI MODONA                              "

- Piero Alberto                                 CAPOTOSTI                                       "

-    Annibale                                      MARINI                                              "

-    Franco                                         BILE                                                    "

-    Giovanni Maria                           FLICK                                                 "

- Ugo                                                DE SIERVO                                       "

- Romano                                         VACCARELLA                                 "

- Alfio                                              FINOCCHIARO                                “

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 33-sexies del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 26 giugno 2002 dal Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Nardò nel procedimento penale a carico di P.G., iscritta al n. 437 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2002.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 aprile 2003 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che il Tribunale di Lecce ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 33-sexies del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede — nell’ipotesi in cui il giudice dell’udienza preliminare abbia erroneamente disposto il rinvio a giudizio, omettendo di rilevare che per il reato contestato doveva procedersi con citazione diretta — la rimessione in termini dell’imputato per la richiesta di applicazione della pena o di giudizio abbreviato;

che l’ordinanza premette, in punto di fatto, che l’imputato nel processo a quo era stato rinviato a giudizio con decreto del giudice dell’udienza preliminare per rispondere del reato «di cui agli artt. 624 e 625 cod. pen., vigenti all’epoca e poi sostituiti dall’art. 624-bis cpv. cod. pen.»;

che in sede dibattimentale, l’imputato aveva chiesto di essere rimesso in termini al fine di proporre istanza di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., sull’assunto che, essendo stato seguito un rito diverso da quello previsto per l’ipotesi di reato contestata, egli si era visto applicare degli sbarramenti temporali nei quali non sarebbe incorso qualora si fosse proceduto nel modo corretto;

che, al riguardo, il rimettente rileva come l’art. 624-bis cod. pen., aggiunto dalla legge 26 marzo 2001, n. 128, abbia introdotto un’autonoma disciplina del furto con destrezza (rectius: con strappo), già regolato dall’art. 625, numero 4), cod. pen., prevedendo un regime sanzionatorio più severo, in particolare per quanto attiene al minimo edittale: con la conseguenza che, nel caso di specie, in base all’art. 2, terzo comma, cod. pen., dovrebbe essere applicata la norma abrogata, in quanto più favorevole al reo;

che nei confronti dell’imputato avrebbe dovuto pertanto procedersi con citazione diretta a giudizio, risultando la fattispecie di cui all’art. 625, numero 4), cod. pen. inclusa — a differenza di quella, pur identica, di cui al nuovo art. 624-bis cod. pen. — nell’elenco dei reati che, ai sensi dell’art. 550 cod. proc. pen., sono giudicati dal tribunale in composizione monocratica con detta procedura;

che il pubblico ministero, invece, aveva esercitato l’azione penale mediante richiesta di rinvio a giudizio: richiesta che il giudice dell’udienza preliminare aveva accolto, omettendo di fare applicazione dell’art. 33-sexies cod. proc. pen., che, nell’ipotesi in questione, consente al giudice di rilevare d’ufficio l’errore, disponendo la trasmissione degli atti al pubblico ministero per l’emissione del decreto di citazione a giudizio;

che la legge processuale — prosegue il rimettente — disciplina il caso in cui il pubblico ministero eserciti l’azione penale con citazione diretta per un reato per il quale è prevista l’udienza preliminare, stabilendo, all’art. 550, comma 3, cod. proc. pen., che tale violazione debba essere eccepita entro il termine di esaurimento delle questioni preliminari; ma non regola, invece, l’ipotesi in cui il giudice dell’udienza preliminare disponga erroneamente il rinvio a giudizio per un reato per il quale è prevista la citazione diretta;

che l’imputato avrebbe peraltro interesse a dolersi di tale errore, giacché se, per certi versi, il rito con citazione diretta offre minori garanzie; sotto altri profili, sarebbe invece l’udienza preliminare a penalizzare l’imputato stesso, costringendolo a decidere in tempi molto più brevi la propria linea difensiva;

che la normativa processuale vigente prevede, infatti, una serie di «rigidissimi sbarramenti» legati alla celebrazione dell’udienza preliminare, segnatamente in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti e di giudizio abbreviato; mentre, invece, nei casi di citazione diretta a giudizio l’imputato gode di un termine a comparire di sessanta giorni per predisporre la sua difesa e per adire, quindi, i predetti riti alternativi, l’accesso ai quali risulterebbe così più agevole;

che si spiegherebbe proprio in tale prospettiva, ad avviso del rimettente, la circostanza che la legge, nell’ipotesi di cui all’art. 33-sexies cod. proc. pen., preveda la rilevabilità d’ufficio del vizio, privilegiando il corretto svolgimento dell’azione penale a scapito dell’economia processuale; e richieda, per contro, l’eccezione di parte, con un rigido limite temporale — regime, questo, solitamente riservato ai vizi meno gravi — nell’ipotesi opposta di mancata celebrazione dell’udienza preliminare in rapporto ad un reato per il quale essa è prevista;

che nell’ipotesi in questione, d’altro canto, non potrebbe neppure addebitarsi alla parte di non aver sollevato eccezione nell’udienza preliminare, proprio perché il vizio avrebbe dovuto essere rilevato d’ufficio dal giudice;

che in tale ottica, l’art. 33-sexies cod. proc. pen. — omettendo di prevedere, nell’ipotesi considerata, la rimessione in termini dell’imputato per la richiesta di applicazione della pena o di giudizio abbreviato — si porrebbe dunque in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., determinando una disparità di trattamento tra gli imputati giudicati «con errore di procedura» e tutti gli altri imputati dello stesso reato per i quali sia stata osservata la procedura corretta; con conseguente pregiudizio del diritto dei primi a fruire della «migliore delle difese in giudizio», disponendo «del tempo e delle condizioni necessarie» a tal fine;

che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.

Considerato che il giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., dell’art. 33-sexies cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la restituzione in termini dell’imputato per la richiesta di applicazione della pena o di giudizio abbreviato, avuto riguardo all’ipotesi in cui il giudice dell’udienza preliminare abbia erroneamente disposto il rinvio a giudizio in rapporto ad un reato per il quale doveva procedersi con citazione diretta;

che il dubbio di costituzionalità si fonda sull’effetto penalizzante che deriverebbe dall’erronea celebrazione dell’udienza preliminare, in punto di compressione dello spatium temporis garantito all’imputato ai fini dell’accesso ai predetti riti alternativi: infatti,  mentre nel rito con udienza preliminare la presentazione della relativa richiesta è soggetta a limiti temporali collegati all’udienza stessa, l’avviso della cui fissazione deve essere notificato all’imputato (rilievo, questo, non sviluppato dal rimettente, ma implicito nelle sue deduzioni) con un termine dilatorio di soli dieci giorni (art. 419, comma 4, cod. proc. pen.); nel rito con citazione diretta, la richiesta può essere invece presentata sino alla dichiarazione di apertura del dibattimento (art. 555, comma 2, cod. proc. pen.), onde l’imputato si vede in fatto assicurato, ai fini considerati, il più ampio termine dilatorio di sessanta giorni, previsto per la notifica del decreto di citazione (art. 552, comma 3, cod. proc. pen.);

che, al riguardo, occorre peraltro osservare come il rito con udienza preliminare offra indubitabilmente, nel suo complesso, maggiori garanzie all’imputato rispetto al rito con citazione diretta, in quanto caratterizzato da un vaglio giudiziale aggiuntivo sull’esercizio dell’azione penale;

che il carattere maggiormente “garantito” del rito con udienza preliminare non rappresenta, d’altro canto, solo un dato di evidenza irrefutabile, ma anche un principio che orienta la disciplina processuale positiva: basti considerare che in forza dell’art. 551 cod. proc. pen., nel caso di procedimenti connessi, se la citazione diretta è ammessa solo per alcuni di essi, il pubblico ministero deve presentare per tutti la richiesta di rinvio a giudizio (prevale, cioè, il rito con udienza preliminare);

che questa Corte ha ritenuto, in tale ottica, costituzionalmente legittima, anche in riferimento all’art. 3 Cost., la generalizzata applicazione del rito con udienza preliminare nel procedimento penale militare, pure quando si tratti di reati militari corrispondenti a reati comuni per i quali si procede con citazione diretta: rilevando, in proposito, come si sia al cospetto di una disparità di trattamento in melius, che accresce, e non già riduce, le garanzie dell’imputato (cfr. ordinanza n. 204 del 2001);

che, in simile prospettiva — a prescindere da ogni rilievo circa la validità dell’assunto del giudice a quo, in forza del quale l’imputato sarebbe legittimato a dolersi in dibattimento dell’erronea celebrazione dell’udienza preliminare anche quando non abbia sollevato la relativa eccezione nel corso di detta udienza (assunto che appare di problematica compatibilità, sul piano sistematico, col disposto dell’art. 33-quinquies cod. proc. pen.) — deve comunque escludersi che l’adozione della sequenza processuale complessivamente più “garantita”, in relazione a reati per i quali essa non era dovuta, possa ritenersi foriera di disparità di trattamento in peius e di pregiudizi al diritto di difesa solo perché, nel confronto su singoli e specifici aspetti della disciplina — e, segnatamente, in relazione allo spazio temporale per la richiesta di riti alternativi —, il rito con citazione diretta possa risultare, nella valutazione dell’imputato, preferibile al primo;

che la contraria affermazione del rimettente sarebbe condivisibile, in effetti, solo qualora il termine del quale l’imputato dispone, nel caso di celebrazione dell’udienza preliminare, per formulare la predetta richiesta risultasse, di per sé, oggettivamente inadeguato (il che peraltro implicherebbe, più a monte, l’illegittimità costituzionale della norma che lo prevede): conclusione alla quale, tuttavia, nemmeno lo stesso giudice a quo perviene (ipotizzando egli non già una lesione del diritto di difesa, quanto piuttosto del diritto alla «migliore delle difese»); e che appare, d’altra parte, tanto meno plausibile ove si consideri che la persona sottoposta alle indagini è oggi destinataria della preventiva notificazione dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari, con i termini collegati di cui all’art. 415-bis comma 3 cod. proc. pen.;

che la dedotta violazione dell’art. 111 Cost. non risulta, inoltre, in alcun modo motivata;

che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 33-sexies del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2003.

Riccardo CHIEPPA, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2003.