ORDINANZA N.77
ANNO 2003
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Riccardo CHIEPPA Presidente
- Gustavo ZAGREBELSKY Giudice
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO “
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 409, comma 5, del codice di procedura penale promosso con ordinanza dell’11 ottobre 2001 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di B.M., iscritta al n. 215 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2002.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 29 gennaio 2003 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 409, comma 5, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede "che il giudice fissi con decreto l’udienza preliminare, osservando in quanto applicabili le disposizioni degli artt. 418 e 419 cod. proc. pen. anche nel caso in cui il reato per cui è stata ordinata la formulazione dell’imputazione sia compreso tra quelli per cui si deve procedere con citazione diretta a giudizio ovvero nella parte in cui non prevede che il pubblico ministero debba formulare l’imputazione con citazione diretta a giudizio nel caso in cui l’ordine di formulare l’imputazione riguardi un reato compreso tra quelli per cui si deve procedere con citazione diretta";
che il giudice a quo premette, in fatto, che il pubblico ministero, dopo aver formulato l’imputazione a norma dell’art. 409, comma 5, cod. proc. pen., ha provveduto a trasmettere gli atti allo stesso giudice, il quale, a sua volta, dovrebbe ora fissare – in base alla medesima norma – l’udienza preliminare, "benché il reato per cui si procede appartenga alla cognizione del tribunale in composizione monocratica e non sia prevista, ai sensi dell’art. 550 cod. proc. pen., la fissazione dell’udienza preliminare";
che tale epilogo sarebbe frutto, ad avviso del rimettente, di "una svista legislativa", giacché il legislatore, "nel riscrivere le regole del procedimento" davanti al tribunale in composizione monocratica "ed in particolare l’art. 554 cod. proc. pen.", avrebbe omesso di prevedere "che, in caso di ordinanza di formulazione coatta dell’imputazione per un reato attribuito alla cognizione del tribunale monocratico per il quale non sia imposta la celebrazione dell’udienza preliminare, il pubblico ministero formuli l’imputazione nelle forme del decreto di citazione diretta a giudizio anziché con quelle della richiesta di rinvio a giudizio (cui consegue la fissazione dell’udienza preliminare)";
che da ciò deriverebbe una violazione del principio di ragionevolezza, in quanto, in base all’art. 33-sexies cod. proc. pen., "nell’udienza preliminare, il giudice non potrebbe far altro che restituire gli atti al pubblico ministero perché eserciti l’azione penale con decreto di citazione diretta a giudizio";
che risulterebbe violato anche l’art. 111 della Carta fondamentale, in quanto la disposizione impugnata "andrebbe nella direzione opposta rispetto" alla regola costituzionale secondo la quale la legge deve assicurare la ragionevole durata del processo;
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo dichiararsi inammissibile o comunque infondata la questione proposta, riservandosi di illustrare i motivi con successiva memoria, peraltro poi non depositata.
Considerato che il giudice a quo pone a fondamento del quesito di legittimità costituzionale quello che, a suo stesso dire, costituisce soltanto un difetto formale di coordinamento normativo, derivante dalla "storia" che ha caratterizzato la disposizione impugnata rispetto ad altri modelli differenziati;
che, infatti, è agevole osservare come la previsione dettata dall’art. 409, comma 5, cod. proc. pen., rinvenisse la propria ragion d’essere con specifico ed esclusivo riferimento al modello ordinario del procedimento di archiviazione e dei suoi possibili epiloghi, delineato per i reati di competenza del tribunale e della corte di assise, per i quali l’udienza preliminare rappresentava uno snodo ineludibile, ad eccezione dell’ipotesi in cui l’imputato vi avesse espressamente rinunciato; modello, questo, rispetto al quale l’alternativa era rappresentata dal rito pretorile, per il quale la vocatio in iudicium, anche a seguito di richiesta di archiviazione non accolta, promanava sempre dal pubblico ministero, senza ovviamente l’udienza preliminare;
che, effettivamente, l’assetto normativo è stato incrinato, peraltro sul piano meramente formale, a seguito della riforma del giudice unico, giacché non tutti i procedimenti devoluti alla cognizione del tribunale in composizione monocratica prevedono il passaggio attraverso l’udienza preliminare, posto che per alcuni reati è stabilita la citazione diretta da parte del pubblico ministero, analogamente a quanto in origine era previsto per i reati di competenza del pretore;
che, peraltro, alla luce della evoluzione subita dal quadro normativo di riferimento, il dedotto mancato coordinamento tra l’art. 409, comma 5, cod. proc.pen., e la previsione di reati a citazione diretta, è del tutto privo di conseguenze, proprio perché - avuto riguardo ai passaggi normativi segnalati e all’evidente ratio della disposizione - non v’è dubbio che, in ipotesi di "imputazione coatta" riguardante reati per i quali è prevista la citazione diretta, il giudice per le indagini preliminari non debba far altro che invitare il pubblico ministero a formulare l’imputazione con la conseguente emissione del decreto di citazione a giudizio;
che in tal senso, d’altra parte, si è già espressa anche la giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. VI, 21 marzo 2002, n. 659; Cass., Sez. VI, 12 aprile 2002, n. 1044), segnalando il rilievo che a questi fini assume il dato testuale dell’art. 549 cod. proc. pen., il quale, nel richiamare le norme applicabili al rito monocratico, fa rinvio, salvo espresse previsioni contrarie, alle disposizioni dettate "nei libri che precedono" – dunque, anche in tema di archiviazione – peraltro "in quanto applicabili": una clausola di compatibilità, quest’ultima, che evidentemente impone di interpretare la disposizione dettata dall’art. 409, comma 5, cod. proc. pen., nel senso di cui innanzi si è detto;
che, pertanto, risultando errata la premessa interpretativa posta a base della questione sollevata, la stessa deve essere dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza delle questione di legittimità costituzionale dell’art. 409, comma 5, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 marzo 2003.
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria il 27 marzo 2003.