ORDINANZA N.69
ANNO 2003
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Riccardo CHIEPPA, Presidente
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
- Ugo DE SIERVO
- Romano VACCARELLA
- Paolo MADDALENA
- Alfio FINOCCHIARO
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 281-ter del codice di procedura civile promosso con ordinanza del 18 dicembre 2001 dal Giudice istruttore del Tribunale di Grosseto nel procedimento civile vertente tra la Curatela del Fallimento Parco dei Faggi s.r.l. e Galassi Monica, iscritta al n. 157 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 2002.
Udito nella camera di consiglio del 12 febbraio 2003 il Giudice relatore Romano Vaccarella.
Ritenuto che nel corso di un giudizio civile, promosso, davanti al Tribunale di Grosseto, dal curatore del fallimento della società Parco dei Faggi s.r.l. nei confronti di Monica Galassi, amministratore unico della medesima società fallita, per ottenere la condanna della convenuta al risarcimento dei danni a titolo di responsabilità ex art. 2394 del codice civile, il giudice istruttore di detto tribunale, con ordinanza del 18 dicembre 2001, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, dell’art. 281-ter del codice di procedura civile, "nella parte in cui non prevede che il giudice istruttore possa disporre d’ufficio la prova testimoniale formulandone i capitoli, quando le parti nella esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità, anche nelle cause riservate alla decisione collegiale";
che il giudice rimettente riferisce che l’attore, esponendo i fatti a fondamento della sua pretesa, ha, tra l’altro, fatto riferimento ad alcune circostanze a lui stesso riferite da tale Fabio Nulli, custode dell’immobile di proprietà della società fallita, circa la consistenza dei beni aziendali, la mancata custodia e la sottrazione dei medesimi beni ad opera di terzi, ma che su tali circostanze di fatto, rilevanti ai fini della dimostrazione e della mala gestio della convenuta e dei danni conseguenti, l’attore non ha, tuttavia, dedotto alcuna prova, limitandosi a produrre in giudizio la relazione ex art. 33 della legge fallimentare (regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 – Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella quale erano state raccolte le dichiarazioni del Nulli;
che, essendosi maturate le preclusioni istruttorie a carico delle parti, il giudice rimettente, opinando non potersi attribuire alcuna rilevanza probatoria alla relazione del curatore, ritiene che sarebbe necessario disporre d’ufficio la prova testimoniale sui fatti, di cui il Nulli risulta dalla medesima relazione essere a conoscenza, ma che simile prova ufficiosa non gli è consentita dalla vigente disciplina dell’istruzione del processo civile, giacché l’art. 281-ter cod. proc. civ. - a norma del quale "il giudice può disporre d’ufficio la prova testimoniale formulandone i capitoli, quando le parti nella esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità" - è applicabile soltanto nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica (art. 281-bis cod. proc. civ.), mentre, nella specie, trattandosi di una causa di responsabilità contro un amministratore di società, la decisione, ai sensi dell’art. 50-bis, n. 5, cod. proc. civ., è riservata al tribunale in composizione collegiale;
che nella mancata estensione del potere di deduzione ufficiosa della prova testimoniale al giudice istruttore nel procedimento davanti al tribunale in composizione collegiale, il giudice a quo ravvisa un vizio di legittimità costituzionale del citato art. 281-ter cod. proc. civ., vizio che sarebbe legittimato a dedurre davanti a questa Corte, trattandosi di norme delle quali, quale giudice istruttore civile, egli dovrebbe fare applicazione per l’emanazione di provvedimenti rientranti nei suoi poteri, ovvero di norme che escludono poteri da lui rivendicati;
che la questione sarebbe rilevante, in quanto la norma impugnata è applicabile, ai sensi dell’art. 135 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 (Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado), ai procedimenti pendenti davanti al tribunale alla data di efficacia del medesimo decreto, nei quali non siano già state precisate le conclusioni, come nel caso di specie, ed in quanto, essendo stata chiusa l’istruzione probatoria, ma non essendo ancora state invitate le parti a precisare le conclusioni, sarebbe ammissibile – secondo un diffuso orientamento interpretativo, cui egli aderisce – la deduzione della prova testimoniale d’ufficio; inoltre sussisterebbero le condizioni per l’applicabilità della norma, in quanto i fatti su cui la prova verterebbe sono stati esposti dalla parte attrice e la persona, che dei fatti medesimi sarebbe a conoscenza, è stata da essa indicata; e tali fatti, in mancanza di tale mezzo istruttorio, resterebbero indimostrati, sicché la controversia dovrebbe essere decisa in base alla regola di giudizio di cui all’art. 2697 del codice civile;
che, quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice rimettente sostiene che la differenziazione, che la norma introduce fra il procedimento davanti al tribunale in composizione collegiale e quello davanti al tribunale in composizione monocratica, in punto di poteri istruttori ufficiosi, non è ragionevolmente giustificabile e, quindi, comporta violazione del principio di uguaglianza, sancito dall’art. 3 della Costituzione, in quanto, se la ratio del previgente art. 317 del cod. proc. civ. (poi trasfuso nell’art. 312 cod. proc. civ.), che attribuiva al pretore ed al conciliatore (poi al giudice di pace) il potere di disporre d’ufficio la prova testimoniale, poteva essere ravvisata nella opportunità che, nelle cause di minor valore (quali appunto quelle di competenza di detti giudici monocratici), nelle quali sono in giuoco gli interessi dei cittadini meno abbienti e meno colti, il giudice si avvicini a loro, per supplire con più larghi poteri alla loro inesperienza ed alla minor facilità che essi hanno di giovarsi dell’opera di validi difensori (come si legge nella Relazione del Guardasigilli al codice di procedura civile del 1940), la medesima ratio non può più essere scorta nel nuovo art. 281-ter cod. proc. civ., avendo questo, nell’ambito della riforma istitutiva del giudice unico di primo grado (attuata col decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51), reso di generale applicazione il potere in questione in ogni controversia in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, senza che abbia più alcun rilievo il valore della causa;
che, ad avviso del rimettente, la ragione giustificatrice della nuova norma va individuata nell’<<interesse pubblico a che si formi una decisione giusta>>, ma tale interesse è ravvisabile tanto nelle cause in cui la decisione è demandata al giudice monocratico, quanto in quelle in cui la decisione è riservata al giudice collegiale, sicché la diversità di disciplina fra il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e quello davanti al tribunale in composizione collegiale "configura una ingiustificata disparità di trattamento di situazioni sostanziali identiche, posto che l’esigenza sottintesa dal potere officioso de quo è ravvisabile" sia nelle cause che debbono essere decise dal giudice monocratico sia in quelle che debbono essere decise dal collegio;
che il giudice a quo ravvisa, altresì, nella norma dell’art. 281-ter cod. proc. civ. una violazione dell’art. 24 della Costituzione, che garantisce il <<diritto alla prova>>, il quale "non può farsi coincidere soltanto con il diritto della parte ad introdurre i fatti rilevanti nel processo e a provarli con i mezzi istruttori da essa proposti", ma implica "il diritto della parte ad avvalersi di ogni mezzo di prova esperibile nel processo", laddove nel procedimento davanti al tribunale in composizione collegiale, "la irragionevole limitazione del potere officioso del giudice in punto di prova testimoniale del terzo ex art. 281-ter, oltre a realizzare una disparità di trattamento censurabile per le ragioni in precedenza già indicate, si traduce anche in una violazione del diritto alla prova nella accezione proposta".
Considerato che il Tribunale di Grosseto dubita della legittimità costituzionale dell’art. 281-ter cod. proc. civ., in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., in quanto non applicabile nelle cause riservate alla cognizione del tribunale in composizione collegiale;
che la questione appare irrilevante, non essendo condivisibile l’assunto dal quale muove il rimettente circa l’utilizzabilità del potere officioso di cui all’art. 281-ter cod. proc. civ. fino al momento della precisazione delle conclusioni;
che, al contrario, pur prevedendo la norma che il giudice abbia esclusivamente il potere di formalizzare in un capitolo di prova la fonte di prova (quanto ai fatti allegati e quanto ai testi) indicata, ma non formalizzata, dalla parte, tale potere si risolve pur sempre in una eccezione al principio della disponibilità delle prove (art. 115, primo comma, cod. proc. civ.) svincolata, ormai, dalla natura bagattellare della causa, la quale eccezione, per giunta, si inserisce in un processo governato dal principio di preclusione;
che, conseguentemente, in nessun caso il potere officioso di cui all’art. 281-ter cod. proc. civ. potrebbe – senza attribuire al giudice un arbitrario (più che discrezionale) potere di disporre, per lasciarle o non definitivamente maturare, delle decadenze istruttorie nelle quali una parte fosse incorsa – essere esercitato oltre i limiti della fase istruttoria, ferma l’applicabilità del disposto dell’art. 184, ultimo comma, cod. proc. civ.;
che il rimettente dà esplicitamente atto dell’essersi, nel caso di specie, maturate le preclusioni istruttorie a carico delle parti e, quindi, dell’essersi maturata una situazione processuale in presenza della quale l’applicabilità dell’art. 281-ter cod. proc. civ. vulnererebbe il principio di parità delle armi delle parti in causa, mai potendo il potere officioso del giudice risolversi in un mezzo per aggirare, in favore di una parte ed in danno dell’altra, gli effetti del maturarsi delle preclusioni;
che, pertanto, la questione deve essere dichiarata, per la sua irrilevanza nel giudizio a quo, manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 281-ter del codice di procedura civile sollevata, in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Grosseto con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 marzo 2003.
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Romano VACCARELLA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 14 marzo 2003.