ORDINANZA N.453
ANNO 2002
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Cesare RUPERTO Presidente
- Riccardo CHIEPPA Giudice
- Gustavo ZAGREBELSKY "
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 500, commi 2 e 4, del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 30 novembre e il 20 dicembre 2001 dal Tribunale di Brescia, iscritte ai nn. 114 e 170 del registro ordinanze 2002 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 12 e 17, prima serie speciale, dell’anno 2002.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella Camera di consiglio del 25 settembre 2002 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che con due ordinanze di identico tenore, emesse il 30 novembre 2001 ed il 20 dicembre 2001 nell’ambito di distinti procedimenti penali, il Tribunale di Brescia ha sollevato: a) in via principale, questione di legittimità costituzionale dell’art. 500, comma 2, del codice di procedura penale, in relazione agli artt. 2, 3, 24, primo comma, 25, secondo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede che le dichiarazioni precedentemente rese dal testimone ed utilizzate per la contestazione possano essere acquisite al fascicolo del dibattimento ed utilizzate dal giudice quale prova dei fatti; b) in via subordinata, questione di legittimità costituzionale dell’art. 500, comma 4, del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 111, quinto comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede che le dichiarazioni precedentemente rese dal testimone ed utilizzate per la contestazione possano essere acquisite al fascicolo del dibattimento e successivamente utilizzate dal giudice quale prova dei fatti, allorché si ravvisino, nella deposizione dibattimentale del testimone stesso, gli estremi del delitto di falsa testimonianza;
che il giudice a quo premette, in punto di fatto, che, in occasione dell’esame dibattimentale di alcuni testimoni, il pubblico ministero aveva proceduto alla contestazione delle dichiarazioni da essi rese alla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari - dichiarazioni difformi, in modo talora radicale, rispetto alla deposizione dibattimentale - chiedendo, quindi, che i relativi verbali venissero acquisiti al fascicolo del dibattimento;
che tale richiesta dovrebbe essere allo stato respinta, in quanto l’art. 500, comma 2, cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 16 della legge 1° marzo 2001, n. 63, consente al giudice di valutare le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni solo al fine di stabilire la credibilità del teste; mentre il comma 4 dello stesso articolo permette di acquisirle al fascicolo del dibattimento nei soli casi - non riscontrabili nella specie - in cui sussistano concreti elementi per ritenere che il teste sia stato subornato o sottoposto a violenza o minaccia, affinché non deponga o deponga il falso;
che ad avviso del rimettente, peraltro, l’art. 500, comma 2, cod. proc. pen. si porrebbe in contrasto con gli artt. 2, 3, 24, primo comma, 25, secondo comma, e 101, secondo comma, Cost. (il riferimento ad un inesistente quinto comma dell’art. 101 Cost., che compare nella parte finale della motivazione e nel dispositivo delle ordinanze di rimessione, è da ritenere evidentemente frutto di mero errore materiale);
che, infatti, la valutazione della credibilità del teste - ai cui fini la norma impugnata consente di utilizzare le dichiarazioni in questione - presupporrebbe una ricostruzione dei fatti alla stregua dell’istruttoria dibattimentale: con la irragionevole conseguenza che il giudice - il quale pure abbia escluso detta credibilità, essendosi convinto che i fatti si sono svolti in modo diverso rispetto a quanto riferito dal teste - si troverebbe poi costretto ad assumere determinazioni difformi dal suo convincimento, dovendo "privilegiare", in termini di efficacia probatoria, soltanto le dichiarazioni dibattimentali;
che affinché si realizzino "i principi costituzionali dei diritti inviolabili, tra cui quello di azione, nonché della giurisdizione penale e della legalità", dovrebbe essere di contro consentito al giudice utilizzare in modo pieno tutti gli elementi legittimamente emersi nel corso del dibattimento - comprese, dunque, le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni - poiché solo in tal modo il processo penale potrebbe conseguire il suo "fine primario ed ineludibile", costituito dalla ricerca della verità;
che, in via subordinata, il giudice a quo sottopone a scrutinio di costituzionalità la disposizione del comma 4 dell’art. 500, cod. proc. pen., nella parte in cui impedisce al giudice di acquisire ed utilizzare a fini di prova le precedenti dichiarazioni anche quando ravvisi, nella deposizione dibattimentale, gli estremi del delitto di falsa testimonianza;
che la disparità di trattamento dell’ipotesi in parola rispetto a quella del teste subornato ovvero sottoposto a violenza o minaccia - presa in considerazione dalla norma impugnata - risulterebbe difatti irragionevole, essendosi al cospetto, in entrambi i casi, di una testimonianza non veritiera "maturata nell’ambito di una condotta illecita";
che, in tale ottica, la disposizione denunciata contrasterebbe anche con l’art. 111, quinto comma, Cost., il quale - demandando alla legge di regolare i casi in cui la formazione della prova non ha luogo nel contraddittorio delle parti "per effetto di provata condotta illecita" - avrebbe inteso unificare in una medesima disciplina tutte le ipotesi di tal fatta: e ciò proprio al fine di garantire la ricerca della verità, evitando che il giudice debba assumere decisioni sulla base di elementi "inquinati";
che in entrambi i giudizi di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate non fondate.
Considerato che le due ordinanze di rimessione sollevano identiche questioni e che, pertanto, i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica decisione;
che la questione sollevata in via principale - attinente all’esclusione, nell’art. 500, comma 2, cod. proc. pen., della possibilità di utilizzare come prova dei fatti le dichiarazioni lette per la contestazione - è già stata scrutinata da questa Corte, in rapporto a tutti i parametri costituzionali oggi evocati (cfr. ordinanza n. 36 del 2002);
che questa Corte ha sottolineato, al riguardo, come l’art. 111 Cost. abbia attribuito espresso risalto costituzionale al principio del contraddittorio anche nella prospettiva della impermeabilità del processo, quanto alla formazione della prova, rispetto al materiale raccolto in assenza della dialettica tra le parti;
che la disposizione impugnata si presenta del tutto coerente con tale prospettiva: disponendo, in termini generali - e salve le ipotesi eccezionali di utilizzabilità pleno iure, cui poco oltre si accennerà - che le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate esclusivamente ai fini di stabilire la credibilità del teste, essa mira infatti ad impedire che l’istituto delle contestazioni si atteggi a meccanismo illimitato ed incondizionato di acquisizione di elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari, prima e fuori del contraddittorio;
che, costituendo applicazione dell’accennata indicazione costituzionale, la disposizione censurata non contrasta, dunque, né con il canone della ragionevolezza; né con il principio del libero convincimento del giudice, il quale non può che riferirsi alle prove legittimamente formate ed acquisite; né, infine, con il diritto di azione - pubblica e privata - il quale non può risultare leso da disposizioni in tema di formazione della prova che si configurano come frutto di una scelta sistematica, coerente con i principî costituzionali;
che tali considerazioni assorbono anche gli ulteriori profili di illegittimità costituzionale adombrati dal rimettente, tramite il riferimento - peraltro del tutto generico - ad una supposta violazione "dei diritti inviolabili", dei principî "della giurisdizione penale e della legalità";
che, quanto alla questione subordinata - concernente il comma 4 dell’art. 500 cod. proc. pen., nella parte in cui consente di utilizzare in modo pieno le dichiarazioni in parola soltanto nei casi di subornazione ovvero di violenza o minaccia esercitate sul teste, e non anche quando la sua deposizione dibattimentale appaia (al giudice che procede) integrativa del reato di falsa testimonianza - occorre osservare come la norma denunciata rappresenti diretta attuazione dell’art. 111, quinto comma, Cost., il quale prefigura una deroga al principio della formazione della prova in contraddittorio "per effetto di provata condotta illecita", affidandone alla legge la disciplina;
che, contrariamente a quanto adombrato dal giudice a quo, è senz’altro da escludere che la formula "condotta illecita", che compare nel precetto costituzionale, si presti ad una lettura lata, tale da abbracciare - oltre alle condotte illecite poste in essere "sul" dichiarante (quali la violenza, la minaccia o la subornazione) - anche quelle realizzate "dal" dichiarante stesso in occasione dell’esame in contraddittorio (quale, in primis, la falsa testimonianza, anche nella forma della reticenza);
che la ratio della deroga in parola - come si desume anche dalla circostanza che essa è affiancata, nel precetto costituzionale, a quelle legate al "consenso dell’imputato" e all’"accertata impossibilità di natura oggettiva" - sta, difatti, essenzialmente nell’impedimento che la "condotta illecita" reca all’esplicazione del contraddittorio, inteso come metodo di formazione della prova: la Carta costituzionale consente, cioè, eccezionalmente che la prova si formi fuori del contraddittorio (oltre che nel caso di rinuncia dell’imputato ad esso) quando il contraddittorio risulti oggettivamente impossibile, ovvero appaia compromesso da illecite interferenze esterne;
che, per contro, l’autonoma scelta del soggetto esaminato di dichiarare il falso in dibattimento (come pure di tacere) non incide, di per sé, sulla lineare esplicazione del contraddittorio sulla prova;
che tale conclusione trova conferma - oltre che nei lavori preparatori alla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, dai quali emerge come il Costituente, con la formula "provata condotta illecita", intendesse in effetti riferirsi essenzialmente ai casi di intimidazione e subornazione del dichiarante - anche nel necessario coordinamento fra la previsione del quinto comma dell’art. 111 Cost. e la regola, sancita appena prima dal quarto comma dello stesso articolo, per cui "la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore";
che, infatti, mentre le condotte illecite poste in essere da altri "sul" dichiarante incidono sulla sua "libertà di scelta", invece quelle realizzate "dal" dichiarante sua sponte presuppongono quest’ultima: l’autonoma decisione del teste di non rispondere in dibattimento (commettendo così il reato di falsa testimonianza per reticenza) è una scelta illecita, ma comunque libera; con la conseguenza che solo nel primo caso, e non nel secondo, è ipotizzabile - non operando la preclusione dianzi ricordata - l’acquisizione al materiale probatorio di dichiarazioni unilateralmente raccolte nel corso delle indagini preliminari;
che la condotta illecita che compromette la libertà di autodeterminazione della fonte dichiarativa finisce, dunque, per rappresentare - sul piano soggettivo - l’ipotesi complementare rispetto alla "accertata impossibilità di natura oggettiva", parimenti evocata dal Costituente fra le eccezionali - e tipizzate - deroghe al contraddittorio;
che accedendo alla contraria tesi del giudice rimettente, d’altro canto, il principio generale della formazione della prova in contraddittorio resterebbe, riguardo alla prova testimoniale, in larga misura svuotato: giacché in ogni caso di divergenza tra dichiarazioni dibattimentali e dichiarazioni pregresse - ma anche di reticenza, non essendovi ragione, nella prospettiva contrastata, per un diverso trattamento di tale ipotesi - si aprirebbe automaticamente la via, tramite la prospettazione dell’ipotesi della falsa testimonianza, al possibile "recupero" come prova piena di atti assunti fuori del contraddittorio;
che - escluso dunque il contrasto della norma impugnata con l’art. 111, quinto comma, Cost. - risulta altresì palese l’insussistenza della dedotta violazione dell’art. 3 Cost., stante l’eterogeneità delle situazioni poste a confronto: intimidazione o subornazione che coarta od orienta ab externo l’atteggiamento dibattimentale del testimone, da un lato; libera scelta del teste di rendere dichiarazioni non veritiere o di tacere in dibattimento, dall’altro;
che, alla luce delle considerazioni che precedono, le questioni proposte debbono essere pertanto dichiarate manifestamente infondate.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 500, commi 2 e 4, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, primo comma, 25, secondo comma, 101, secondo comma, e 111, quinto comma, della Costituzione, dal Tribunale di Brescia con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 ottobre 2002.
Cesare RUPERTO, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria il 12 novembre 2002.