ORDINANZA N.405
ANNO 2002
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare RUPERTO, Presidente
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
- Francesco AMIRANTE
- Ugo DE SIERVO
- Romano VACCARELLA
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 273, comma 1-bis, e 192, commi 3 e 4, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 25 settembre 2001 dal Tribunale di Catanzaro sull’istanza proposta da I. F., iscritta al n. 934 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2002.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 3 luglio 2002 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che con ordinanza emessa il 25 settembre 2001 il Tribunale di Catanzaro ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 273, comma 1-bis, e 192, commi 3 e 4, del codice di procedura penale, "nella parte in cui non prevedono che, in caso di accertata sottoposizione a minaccia della persona informata dei fatti, affinché non renda dichiarazioni ovvero dichiari il falso, il giudice possa valutare le dichiarazioni precedentemente rese dalla stessa senza applicare i predetti commi dell’art. 192 cod. proc. pen.";
che il giudice a quo - chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di riesame dell’ordinanza con la quale era stata disposta la custodia cautelare in carcere di una persona indagata per fatti di estorsione in danno di un imprenditore - premette che con riguardo ad uno degli episodi estorsivi, culminato nel versamento all’indagato di una somma di denaro a mezzo di assegno bancario, la misura cautelare si basava sulle dichiarazioni accusatorie rese dalla persona offesa alla polizia giudiziaria: dichiarazioni che la stessa persona offesa aveva peraltro smentito nel corso di una successiva audizione, affermando che l’assegno in questione era stato emesso in pagamento di crediti di lavoro di un proprio dipendente;
che, secondo il rimettente, ai fini dell’individuazione delle regole di valutazione del materiale indiziario, il dichiarante dovrebbe essere qualificato - quantunque non consti a suo carico alcuna iscrizione nel registro delle notizie di reato - come persona indagata di un reato collegato a quello per cui si procede, ai sensi dell’art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc. pen.; infatti, stante la causale estorsiva originariamente attribuita alla dazione della somma di denaro, avrebbe dovuto ipotizzarsi, in rapporto alle diverse dichiarazioni successivamente rese dall’offeso, il reato di favoreggiamento personale, e conseguentemente procedersi alle "formalità" di cui agli artt. 63 e 335 cod. proc. pen.: obbligo, questo, il cui inadempimento non potrebbe d’altra parte "ritorcersi in pregiudizio dell’indagato";
che risulterebbe pertanto applicabile il comma 1-bis dell’art. 273 cod. proc. pen. (aggiunto dall’art. 11 della legge 1° marzo 2001, n. 63), che, con il richiamo alle regole di valutazione della prova di cui all’art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., imporrebbe - ai fini della valutazione dell’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza, richiesti per l’adozione della misura cautelare - dopo la verifica dell’attendibilità dell’accusatore, la ricerca di un "riscontro esterno individualizzante" delle sue dichiarazioni;
che nel caso di specie, mentre le iniziali dichiarazioni accusatorie dell’offeso risulterebbero "intrinsecamente attendibili", la sua successiva versione dei fatti si presenterebbe, per contro, "del tutto inverosimile" e conseguente all’avvenuta intimidazione del dichiarante mediante minaccia;
che le predette dichiarazioni accusatorie non troverebbero, tuttavia, uno specifico "riscontro esterno", di modo che si imporrebbe, alla luce del combinato disposto dei citati artt. 273, comma 1-bis, e 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., la revoca della misura cautelare in atto per difetto dei gravi indizi di colpevolezza;
che ad avviso del rimettente, peraltro, le norme denunciate violerebbero l’art. 3 Cost., disciplinando in modo irragionevolmente diverso una fattispecie del tutto analoga a quella prevista dall’art. 500, comma 4, cod. proc. pen.;
che l’ipotesi in questione sarebbe segnatamente quella della persona offesa che, dopo aver reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di un soggetto, indicandolo come responsabile di un reato, renda ulteriori dichiarazioni inconciliabili con le prime e favorevoli all’indagato: dichiarazioni che comportano l’assunzione, da parte della stessa persona offesa, della qualità di indagato di reato collegato, ma che risultano successivamente frutto di intimidazione;
che in simile situazione - secondo il rimettente - mentre il giudice del dibattimento, in forza del "meccanismo di salvezza" di cui all’art. 500, comma 4, cod. proc. pen., potrebbe pervenire all’affermazione della responsabilità dell’imputato sulla base delle sole accuse iniziali, ritenute attendibili; il giudice della cautela si troverebbe viceversa impossibilitato, in assenza di analogo meccanismo, a valorizzare appieno le genuine dichiarazioni d’accusa iniziali, nonostante l’accertata minaccia nei confronti del testimone;
che siffatta disparità di trattamento - per cui, in sostanza, nel contrasto fra dichiarazioni "di verità" e "di intimidazione", il recupero pieno delle prime sarebbe consentito solo nel dibattimento e non nel corso delle indagini preliminari - non potrebbe d’altro canto trovare giustificazione nella diversità delle fasi processuali in cui le vicende si svolgono: giacché, al contrario, tale rilievo renderebbe ancor più evidente l’incongruenza di un sistema che, in presenza dei medesimi elementi probatori, non consente la cattura nell’un caso e permette la condanna nell’altro;
che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.
Considerato che il Tribunale rimettente sottopone a scrutinio di costituzionalità il combinato disposto degli artt. 273, comma 1-bis, e 192, commi 3 e 4, del codice di procedura penale, censurando come contrario all’art. 3 Cost. il fatto che esso imponga, ai fini dell’adozione delle misure cautelari personali, la ricerca di un "riscontro esterno individualizzante" delle dichiarazioni accusatorie rese da persona indagata (o imputata) in un procedimento connesso ovvero per un reato collegato ai sensi dell’art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc. pen.: e ciò anche quando risulti che il dichiarante è stato sottoposto a minaccia, affinché non renda dichiarazioni o dichiari il falso nel corso di una successiva audizione;
che il supposto vulnus costituzionale deriverebbe segnatamente dalla irragionevole disparità del trattamento in tal modo riservato alla fattispecie in questione nel confronto con la disciplina valevole per la fase dibattimentale: fase nella quale - ad avviso del rimettente - il giudice potrebbe viceversa, tramite il "meccanismo di salvaguardia" prefigurato dall’art. 500, comma 4, cod. proc. pen., fondare, coeteris paribus, l’affermazione di responsabilità dell’imputato sulle sole dichiarazioni accusatorie iniziali del soggetto "intimidito", ancorché non corroborate dai "riscontri" richiesti dall’art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen.;
che - a prescindere da ogni rilievo circa la validità dell’assunto del rimettente, secondo cui nel procedimento a quo il dichiarante-persona offesa andrebbe qualificato come indagato di reato collegato (favoreggiamento personale), per il sol fatto di aver reso alla polizia giudiziaria due versioni contrastanti dei fatti (una accusatoria, reputata attendibile, e una successiva "liberatoria", viceversa "inverosimile"), indipendentemente dalla assunzione effettiva (e non meramente potenziale) della suddetta "qualità" personale - si deve peraltro osservare come, nel formulare l’anzidetta censura, il rimettente attribuisca alla previsione dell’art. 500, comma 4, cod. proc. pen. (come sostituito dall’art. 14 della legge 1° marzo 2001, n. 63) un significato inesatto, confondendo in sostanza i due profili dell’acquisizione e della valutazione della prova;
che la disposizione da ultimo citata - consentendo di acquisire al fascicolo del dibattimento e di utilizzare come prova dei fatti le dichiarazioni precedentemente rese dalla persona esaminata, allorché vi siano elementi concreti per ritenere che essa sia stata sottoposta a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non renda dichiarazioni in dibattimento o dichiari il falso - rimuove, in effetti, lo sbarramento all’utilizzabilità dibattimentale di determinate dichiarazioni rese fuori del contraddittorio delle parti: e lo rimuove - in attuazione all’art. 111, quinto comma, Cost., aggiunto dall’art. 1 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 - a fronte della circostanza che il contraddittorio (quello genuino) non può nella contingenza instaurarsi, perché ostacolato da una condotta illecita;
che ciò non significa affatto, tuttavia, che le dichiarazioni accusatorie acquisite in forza dell’art. 500, comma 4, cod. proc. pen. restino sottratte alle regole generali sulla valutazione della prova, beneficiando di una sorta di regime "privilegiato" di attendibilità;
che al contrario – qualora, in base alla previsione normativa in parola, vengano acquisite dichiarazioni accusatorie rese da un imputato in procedimento connesso o di reato collegato ex art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc. pen. (cfr. artt. 197-bis e 210, comma 5, cod. proc. pen.) - tali dichiarazioni restano pienamente soggette alla regola dettata dall’art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., alla stregua della quale esse sono valutate "unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità", posto che la lettera e la ratio dell’art. 500, comma 4, cod. proc. pen., non autorizzano una conclusione diversa;
che, di conseguenza - mentre è evidente che il "meccanismo di recupero" di cui all’art. 500, comma 4, cod. proc. pen., non viene, né può venire, in considerazione ai fini dell’adozione e del riesame delle misure cautelari personali nella fase delle indagini, potendo il giudice utilizzare, a tali fini, il materiale probatorio raccolto unilateralmente dal pubblico ministero, senza sbarramenti di sorta - non è riscontrabile, in realtà, alcuna disparità di trattamento tra fase delle indagini e dibattimento, in punto di valutazione delle dichiarazioni accusatorie rese dall’indagato in procedimento connesso o di reato collegato "coartato": restando ferma, in entrambi i casi, l’applicabilità della regola di valutazione de qua;
che la questione va dichiarata dunque manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 273, comma 1-bis, e 192, commi 3 e 4, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Catanzaro con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2002.
Cesare RUPERTO, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2002.