ORDINANZA N.384
ANNO 2002
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai Signori:
- Cesare RUPERTO Presidente
- Riccardo CHIEPPA Giudice
- Gustavo ZAGREBELSKY "
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 669- septies, secondo comma, del codice di procedura civile, promosso con ordinanza emessa il 1° agosto 2001 dal Tribunale di Torino nel procedimento civile vertente tra Caffè Fioccucci s.n.c. e Giuseppe Maggio, iscritta al n. 914 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2001.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 19 giugno 2002 il Giudice relatore Franco Bile.
Ritenuto che, con ordinanza in data 1° agosto 2001, il Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 669-septies, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevede che il giudice possa provvedere sulle spese nel caso di pronuncia di rigetto o di dichiarazione di incompetenza sulla domanda di provvedimento cautelare proposta nel corso della causa di merito;
che la questione è stata proposta nel corso del giudizio introdotto dalla s.n.c. Caffè Fioccucci contro Giuseppe Maggio, per ottenere la riduzione del prezzo della compravendita di un’azienda, in pendenza del quale la società attrice ha presentato un’istanza ex art. 700 del codice di procedura civile, chiedendo che fosse ordinata la sospensione del pagamento delle cambiali all’uopo rilasciate;
che il rimettente – premesso che l’istanza cautelare è infondata, per carenza dei requisiti del fumus boni juris e dell’irreparabilità del pregiudizio - rileva di non poter pronunciare sulle spese del procedimento, perché l’art. 669-septies, secondo comma, del codice di procedura civile ammette la liquidazione delle spese solo in caso di rigetto della misura cautelare richiesta ante causam o di dichiarazione di incompetenza a provvedere su di essa;
che ne deriverebbe - ad avviso del rimettente -un’ingiustificata disparità di trattamento, lesiva dell’ art. 3 della Costituzione, tra due situazioni omogenee, secondo che la soccombenza riguardi una domanda cautelare proposta ante causam o in corso di causa, potendo la condanna alle spese seguire solo nel primo caso e non anche nel secondo;
che inoltre la mancata previsione della regolazione delle spese nei casi di rigetto delle istanze cautelari proposte nel corso del processo non potrebbe essere ragionevolmente giustificata con l’argomento che tale regolazione potrà avvenire con la sentenza che definisce il giudizio, perché non sempre i processi si chiudono con sentenza; perché non mancano ipotesi di provvedimenti provvisori (viene citato l’art. 186-quater cod. proc. civ.), per i quali si prevede la regolazione di spese; perché la differenza di trattamento non servirebbe a deflazionare, ed anzi incrementerebbe, << il ricorso ad un esagitato uso dell’azione cautelare atipica>>;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, tramite l’Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato memoria, nella quale ha sostenuto l’infondatezza della questione.
Considerato che in tema di condanna nelle spese giudiziali civili vige la regola generale per cui essa è correlata alla chiusura del procedimento avanti al giudice (art. 91 del codice di procedura civile);
che di tale regola l’art. 669-septies del codice di procedura civile, concernente la liquidazione delle spese in caso di rigetto della domanda cautelare proposta ante causam, rappresenta un’applicazione, in quanto - non essendo previsto alcun automatismo per l’inizio del giudizio di merito - il provvedimento di rigetto definisce il procedimento cautelare;
che, invece, il provvedimento di rigetto della domanda cautelare proposta in corso di causa non <<chiude>> il processo avanti al giudice (semmai definisce solo un sub-procedimento interno al giudizio a cognizione piena), e per tale ragione la decisione sulle spese relative alla domanda cautelare è rimessa al momento della definizione del giudizio di merito;
che pertanto la censura di disparità di trattamento fra l’ipotesi del rigetto ante causam e quella del rigetto in corso di causa, fra le quali non sussiste alcuna omogeneità, è manifestamente infondata;
che altrettanto deve dirsi per la censura di irragionevolezza, prospettata in ragione del rilievo che non sempre il giudizio di merito è definito con sentenza;
che infatti tale ipotesi si verifica in caso di estinzione del giudizio, la quale - che avvenga per rinuncia agli atti, ovvero per inattività delle parti – non solo trova nel codice precise regole riguardo alle spese (art. 306, ultimo comma; art. 310, ultimo comma), ma comunque si correla ad una decisione delle parti (e, quindi, anche di quella che vede rigettata l’altrui domanda cautelare);
che – circa l’ulteriore profilo di censura relativo all’esistenza di provvedimenti provvisori che regolano le spese pur non definendo il giudizio avanti al giudice che li pronuncia, discostandosi dalla regola emergente dall’art. 91 cod. proc. civ. (come nel caso, citato dal remittente, della liquidazione delle spese recata dall’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione ex art. 186-quater cod. proc. civ., ma anche nei casi del decreto ingiuntivo ex art. 641 cod. proc. civ. e dell’ordinanza-ingiunzione ex art. 186-ter cod. proc. civ.) - è decisivo il rilievo che queste deroghe alla regola generale non possono essere assunte come tertia comparationis, perché, al di là delle peculiarità di struttura e funzione di ciascun istituto, sono correlate all’attitudine di tali provvedimenti ad acquisire successivamente un certo grado di stabilità circa l’assetto degli interessi coinvolti, eventualmente con la forza del giudicato o con la possibilità di essere posti in discussione solo in successivi giudizi a cognizione piena;
che questo rilievo vale in particolare per l’istituto (ricordato dal rimettente) di cui all’art. 186-quater cod. proc. civ., il quale sul piano dei presupposti, della struttura (per la natura della cognizione che lo caratterizza) e della funzione non ha alcun punto di contatto con la cognizione cautelare;
che l’ultima argomentazione del rimettente - secondo cui la mancata previsione della statuizione sulle spese non scongiurerebbe la riproposizione di istanze cautelari – si limita a prospettare un inconveniente, rispetto al quale può soccorrere l’istituto di cui all’art. 96 cod. proc. civ.;
che, conclusivamente, la questione dev’essere dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 669-septies, secondo comma, del codice di procedura civile, sollevata dal Tribunale di Torino, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2002.
Cesare RUPERTO, Presidente
Franco BILE, Redattore
Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2002.