Ordinanza n.366 "

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ORDINANZA N.366

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Cesare

RUPERTO

Presidente

- Riccardo

CHIEPPA

 Giudice

- Gustavo

ZAGREBELSKY

"

- Valerio

ONIDA

"

- Carlo

MEZZANOTTE

"

- Fernanda

CONTRI     

"

- Guido

NEPPI MODONA

"

- Piero Alberto

CAPOTOSTI

"

- Annibale

MARINI

"

- Franco

BILE

"

- Giovanni Maria

FLICK

"

- Francesco

AMIRANTE

"

- Ugo

DE SIERVO

"

- Romano

VACCARELLA

"

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 4, del decreto legislativo 18 giugno 1998, n. 237 (Disciplina dell’introduzione in via sperimentale, in talune aree, dell’istituto del reddito minimo di inserimento, a norma dell’articolo 59, commi 47 e 48, della legge 27 dicembre 1997, n. 449) promosso con ordinanza emessa il 16 novembre 2001 dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Crotone nel procedimento penale a carico di G.F., iscritta al n. 72 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2002.

udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2002 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che, con ordinanza emessa il 16 novembre 2001, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Crotone ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 4, del decreto legislativo 18 giugno 1998, n. 237 (Disciplina dell’introduzione in via sperimentale, in talune aree, dell’istituto del reddito minimo di inserimento, a norma dell’articolo 59, commi 47 e 48, della legge 27 dicembre 1997, n. 449), nella parte in cui — prevedendo, ai fini dell’accesso al reddito minimo di inserimento, che l’istante, oltre a percepire un reddito inferiore ad una determinata soglia, sia privo di patrimonio, tanto mobiliare (sotto forma di titoli di Stato, azioni, obbligazioni, quote di fondi comuni di investimento e depositi bancari) che immobiliare (eccettuata, a certe condizioni, l’unità immobiliare adibita ad abitazione principale) — non considera «che dei redditi da tali beni ricavati si deve tener conto ai fini della quantificazione del reddito annualmente goduto e/o, in ogni caso, non prevede un congruo limite al valore economico di tali beni», al superamento del quale sia condizionata l’esclusione dal beneficio;

            che il giudice a quo premette di essere investito, quale giudice dell’udienza preliminare, della richiesta di rinvio a giudizio di persona imputata dei reati di cui agli artt. 483, 640 e 640-bis cod. pen., per aver percepito somme a titolo di integrazione del reddito minimo di inserimento, attestando falsamente, nella relativa domanda, di possedere i requisiti previsti dal d.lgs. n. 237 del 1998;

            che il rimettente ricorda come, ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. n. 237 del 1998, l’accesso al reddito minimo di inserimento — istituto introdotto in via sperimentale dal medesimo decreto legislativo in alcune aree del territorio nazionale, quale misura di sostegno a favore delle persone in situazione di difficoltà ed esposte al rischio della marginalità sociale — sia riservato ai soggetti privi di reddito, ovvero con reddito che, tenuto conto di qualsiasi emolumento percepito, non superi la «soglia di povertà», stabilita (per il 1998) in lire 500.000 mensili, quanto alle persone che vivano da sole, e in un importo maggiorato sulla base di una «scala di equivalenza», in presenza di nucleo familiare;

che l’ammissione al beneficio comporta, ai sensi dell’art. 8 del medesimo decreto legislativo, l’attribuzione di una «integrazione del reddito» pari alla differenza tra la «soglia di povertà» ed il reddito effettivamente goduto;

            che in forza dell’art. 6, comma 4, del d.lgs. n. 237 del 1998 non possono comunque fruire del reddito minimo di inserimento coloro che dispongono di un patrimonio, sia mobiliare, sotto forma di titoli di Stato, azioni, obbligazioni, quote di fondi comuni di investimento e depositi bancari; sia immobiliare, fatta eccezione per l’unità immobiliare adibita ad abitazione principale, se posseduta a titolo di proprietà, il cui valore non superi la soglia indicata dal comune;

            che ai fini dell’ottenimento della prestazione — ricorda ancora il giudice a quo — è richiesta la presentazione di una domanda al Comune, cui va allegata una dichiarazione, sottoscritta a norma della legge 4 gennaio 1968, n. 15, e successive modificazioni e integrazioni, con la quale il richiedente attesta di essere in possesso dei prescritti requisiti;

            che nel caso di specie era emerso che l’imputato — il quale aveva presentato nel 1998 domanda al Comune di Isola di Capo Rizzuto (incluso fra quelli individuati ai fini della sperimentazione), dichiarando in essa e nell’allegata «autocertificazione» di non aver goduto di alcun reddito negli anni 1997 e 1998 e di essere privo di patrimonio nei sensi indicati dall’art. 6, comma 4, del citato decreto legislativo — risultava in realtà intestatario, unitamente alla moglie, di un deposito bancario presso un locale istituto di credito con saldo di lire ventisettemila per gli anni 1997, 1998 e 1999;

            che ad avviso del rimettente, a fronte di tale risultanza, la richiesta di rinvio a giudizio — salva la riconducibilità del fatto alla nuova e più favorevole previsione punitiva di cui all’art. 316-ter cod. pen., in luogo di quella degli artt. 640 e 640-bis cod. pen. — dovrebbe essere accolta, poiché il comma 4 dell’art. 6 del d.lgs. n. 237 del 1998 richiede, come condicio sine qua non per l’accesso al beneficio, che l’istante ed i suoi familiari sino privi di patrimonio mobiliare, comprendendovi espressamente la titolarità di depositi bancari;

            che il giudice a quo ritiene, tuttavia, che «la rigida e letterale applicazione» della norma impugnata determini una irragionevole disparità di trattamento tra chi - non godendo di alcun reddito, ovvero godendo di un reddito di gran lunga inferiore alla «soglia di povertà» - resta escluso dall’accesso al reddito minimo di inserimento solo perché titolare di un deposito bancario (ovvero di altri beni mobili o immobili) anche di modestissima entità; e chi - pur godendo di un reddito di una certa consistenza, ma comunque rientrante nei limiti della «soglia» - è viceversa ammesso al beneficio, in quanto privo dei suddetti beni;

            che tale illogica sperequazione si determinerebbe sia perché, nel formulare la disposizione oggetto di censura, il legislatore non avrebbe considerato che i redditi prodotti dai beni in essa indicati vanno a costituire il reddito complessivo dell’interessato; sia perché, in ogni caso — ove pure si ritenga che la disponibilità dei beni stessi sia di per sé sola sintomatica del godimento di redditi (anche occulti) incompatibili con la finalità dell’istituto — una simile presunzione sarebbe ragionevole solo quando il valore dei beni posseduti superi un «congruo limite»;

            che il rimettente sottolinea, infine, in punto di rilevanza, che se la norma denunciata non escludesse «sic et simpliciter» dal reddito minimo di inserimento chi si trova nelle condizioni da essa indicate, ovvero subordinasse l’esclusione «al superamento di un certo limite» (di valore dei beni posseduti), l’imputato nel giudizio a quo — risultato, dalle indagini di polizia giudiziaria, privo di qualsiasi reddito e, dunque, in condizioni di assoluta indigenza, al pari dei suoi familiari — avrebbe chiesto e percepito legittimamente le provvidenza ed andrebbe pertanto esente da responsabilità penale.

            Considerato che il giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale della condizione negativa di accesso, di ordine patrimoniale, all’istituto del reddito minimo di inserimento, prevista dall’art. 6, comma 4, del decreto legislativo 18 giugno 1998, n. 237;

            che a fondamento del quesito di costituzionalità, formulato peraltro in maniera ambigua ed ancipite — la norma viene impugnata, infatti, da un lato, nella parte in cui non considera che dei redditi ricavati dai beni in essa indicati «si deve tener conto ai fini della quantificazione del reddito annualmente goduto» dall’interessato (censura di non chiaro significato, quanto al tipo di pronuncia invocata); dall’altro lato, e in via alternativa, nella parte in cui non prevede «un congruo limite» al valore economico dei beni la cui disponibilità è ostativa alla fruizione del beneficio — il giudice a quo adduce una irragionevole disparità di trattamento derivante non già dalla norma in sé, quanto piuttosto dalla sua «rigida e letterale applicazione»;

            che il rimettente non si dà carico, tuttavia, di verificare, ancor prima di sollevare la questione, se la disposizione si presti ad una interpretazione diversa da quella censurata:  una interpretazione, cioè, che — avuto riguardo alla fattispecie oggetto del giudizio a quo — escluda la preclusione dell’accesso al beneficio nel caso di disponibilità di beni di valore pari ad una esigua frazione del reddito mensile che segna la «soglia di povertà» rilevante in subiecta materia, e talmente prossima allo zero da rendere la condizione di possidenza puramente «nominale»;

            che una simile indagine appariva invero doverosa a fronte sia della lettera che della ratio dalla norma: quest’ultima nega infatti la prestazione ai soggetti che dispongano non già, puramente e semplicemente, di determinati beni mobili a carattere finanziario o di beni immobili, quanto piuttosto di un «patrimonio sotto forma» dei predetti beni; e ciò nella presunzione che siffatta disponibilità patrimoniale — secondo quanto lo stesso rimettente del resto adombra — sia indice di una capacità economica, ancorché «minimale», incompatibile con il carattere «estremo» della misura di sostegno in questione;

            che il rimettente ha lasciato pertanto incompiuto quel tentativo di sperimentare la praticabilità di un’interpretazione adeguatrice del testo di legge denunciato, al quale ciascun giudice è tenuto prima di sollevare l’incidente di costituzionalità (cfr., ex plurimis, ordinanze n. 322 del 2001, n. 177 e n. 592 del 2000).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 4, del decreto legislativo 18 giugno 1998, n. 237 (Disciplina dell’introduzione in via sperimentale, in talune aree, dell’istituto del reddito minimo di inserimento, a norma dell’articolo 59, commi 47 e 48, della legge 27 dicembre 1997, n. 449), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Crotone con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della  Consulta, il 10 luglio 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2002.