SENTENZA N.269
ANNO 2002
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare RUPERTO, Presidente
- Massimo VARI
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
- Francesco AMIRANTE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 5, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo – legge finanziaria 1999), promosso con ordinanza emessa il 31 luglio 2001 dal Tribunale di Ravenna nel procedimento civile Ragusa Carmela contro INPS, iscritta al n. 864 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2001.
Visto l’atto di costituzione dell’INPS nonchè l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 9 aprile 2002 il Giudice relatore Fernanda Contri;
udito l’avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un giudizio promosso da Carmela Ragusa contro l’INPS, il Tribunale di Ravenna, con ordinanza emessa il 31 luglio 2001, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, dell’art. 34, comma 5, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo – legge finanziaria 1999), nella parte in cui, nell’escludere il titolo all’indennità di disoccupazione in caso di dimissioni, non distingue tra dimissioni per giusta causa ed altre forme di recesso del prestatore.
Il giudice a quo premette in fatto che Carmela Ragusa ha agito contro l’INPS chiedendo la condanna dell’Istituto al pagamento, con gli accessori di legge, dell’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti ex art. 7 del decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 160 del 1988, in relazione all’anno 1999 in cui si era verificato uno stato di disoccupazione conseguente alle dimissioni per giusta causa, comunicate dalla lavoratrice al datore di lavoro, responsabile per non aver soddisfatto il pagamento delle retribuzioni maturate nel periodo da gennaio ad aprile 1999.
Il diniego della prestazione da parte dell’Istituto previdenziale, motivato in base alla previsione dell’art. 34, comma 5, della legge n. 448 del 1998, viene contestato dall’attrice nel giudizio a quo sul rilievo che il citato disposto normativo, nell’escludere il titolo all’indennità in caso di dimissioni, non può ragionevolmente riferirsi anche alle ipotesi di risoluzione per giusta causa.
2. - Il Tribunale di Ravenna, acquisita la documentazione sull’esistenza del credito retributivo, rimette la questione dinanzi a questa Corte, ritenendola rilevante in quanto il riferimento contenuto nella disposizione censurata alla "cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni" non consentirebbe di interpretare l’enunciato per giungere alla conclusione che nel suddetto fenomeno non sarebbero comprese le dimissioni dettate da giusta causa ai sensi dell’art. 2119 cod. civ.
Nel motivare sulla non manifesta infondatezza della questione, il giudice rimettente osserva che il secondo comma dell’art. 38 della Costituzione sancisce, tra l’altro, il diritto ad una protezione previdenziale dei lavoratori estesa ai casi di disoccupazione involontaria e che i requisiti posti dalla legislazione vigente alla base della provvidenza economica per la disoccupazione sono generalmente riferiti ad una condizione che ha le sue radici nella mancanza di lavoro involontaria (artt. 45 e 73 r.d.l. n. 1827 del 1935). La suddetta condizione sarebbe rinvenibile non solo nella perdita del lavoro conseguente alla cessazione involontaria del rapporto, ma anche in altre ipotesi, quali "le sospensioni giornaliere della relazione subordinata" e "i periodi di sosta afferenti alle lavorazioni stagionali" rispetto ai quali questa Corte ebbe a pronunziarsi con la sentenza n. 160 del 1974, dalla cui motivazione, a giudizio del rimettente, può ricavarsi che l’adesione del prestatore "ad un’attività essenzialmente qualificata da interruzioni rappresenta una circostanza che coincide con una carenza di lavoro realmente involontaria, poichè il più delle volte l’adesione ad una simile attività é imposta dalle condizioni del mercato del lavoro concretandosi, in tal modo, una vera e propria mancanza di scelta per il prestatore tra più alternative possibili".
Anche le dimissioni indotte da una causa insita in un difetto funzionale del rapporto di lavoro subordinato, così grave da impedire persino la provvisoria prosecuzione della relazione (art. 2119 cod. civ.), comporterebbero, secondo il giudice a quo, uno stato di disoccupazione involontaria, per cui la norma censurata, non distinguendo questa ipotesi da quella delle dimissioni riconducibili ad una libera scelta del lavoratore e integranti uno stato di disoccupazione volontaria, contrasterebbe con gli artt. 3 e 38 della Costituzione.
3 - Nel giudizio davanti a questa Corte si é costituito l'Istituto nazionale della previdenza sociale, per chiedere che la questione sollevata sia dichiarata infondata.
Ad avviso dell’INPS, l’esclusione del diritto all’indennità in caso di dimissioni trarrebbe fondamento e legittimazione dall’art. 38 della Costituzione che, al secondo comma, prevede l’intervento previdenziale a sostegno del lavoratore nell’ipotesi di disoccupazione involontaria, tale non potendosi considerare, a livello di garanzia costituzionale, la condizione del lavoratore il cui rapporto sia cessato per effetto di una sua libera determinazione. Nè potrebbero assumere rilevanza le ragioni della scelta operata che, se pur idonee a giustificare l’immediato recesso dal rapporto, non toglierebbero all’atto il carattere della volontarietà, essendo peraltro comunque possibile per il lavoratore scegliere tra l’uscita (con conseguente disoccupazione) o la permanenza in azienda, restando pur sempre nel secondo caso la possibilità di altri mezzi di tutela, compreso il ricorso all’azione giudiziaria, per la realizzazione del credito retributivo maturato.
Secondo l’INPS, non sarebbe peraltro nemmeno del tutto pacifico nella giurisprudenza di legittimità che il mancato pagamento di alcune retribuzioni costituisca inadempienza talmente grave da giustificare l’immediata risoluzione del rapporto di lavoro (Cass. Sez. lav., 22 dicembre 1987, n. 9589) e comunque la stessa giurisprudenza non mancherebbe di rilevare che nel caso di dimissioni l’effetto risolutorio del rapporto scaturirebbe pur sempre da un atto di volontà del lavoratore, anche nell’ipotesi di giusta causa (Cass. Sez. lav., 25 marzo 1996, n. 2632).
Rileva ancora l’INPS che il nostro ordinamento, anche prima della legge n. 448 del 1998, avrebbe considerato con sfavore la cessazione del rapporto per iniziativa del lavoratore, ritenuta non meritevole dello stesso trattamento riservato al lavoratore che "subisce" il licenziamento. Nella previgente normativa le dimissioni comportavano infatti la perdita del trattamento in questione per trenta giorni (art. 75 r.d.l. n. 1827 del 1935), nonchè l’esclusione del trattamento speciale di disoccupazione di cui all’art. 8 della legge n. 1115 del 1968, oggi sostituito dal trattamento di mobilità introdotto dalla legge n. 223 del 1991 (Cass. Sez. lav. 27 novembre 1990, n. 11374; 24 agosto 1995, n. 8970), e del trattamento speciale di disoccupazione ai sensi dell’art. 9 della legge n. 427 del 1975 riservato alle imprese edili ed affini. Inoltre, il riferimento all’involontarietà della disoccupazione come presupposto indispensabile per l’intervento solidaristico (art. 45, comma 3, r.d.l. n. 1827 del 1935), troverebbe conferma nella sentenza n. 160 del 1974 di questa Corte posto che la stessa, in relazione alle lavorazioni stagionali o soggette a sospensione periodica, valorizza pur sempre l’elemento della involontarietà della mancanza di lavoro, sottolineando, ai fini del trattamento di disoccupazione, l’esigenza che il lavoratore si adoperi, durante le sospensioni, attraverso l’iscrizione alle liste di collocamento, per la ricerca di altra occupazione.
4 - Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilità e comunque per la manifesta infondatezza della questione.
La difesa erariale ritiene che il legislatore, nel disciplinare il trattamento di disoccupazione in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, abbia inteso escludere i casi di dimissioni avvalendosi della sua ampia discrezionalità in materia di determinazione delle prestazioni assistenziali e previdenziali, adottando il criterio della volontarietà della cessazione dal servizio.
La norma censurata non avrebbe travalicato il limite della palese irrazionalità che la discrezionalità legislativa incontra, cercando, piuttosto, di razionalizzare il sistema con l’introduzione di un requisito inteso ad impedire distorte conseguenze applicative del trattamento di favore. L’estensione normativa prospettata dal rimettente non potrebbe pertanto ritenersi ammissibile, sotto l’aspetto costituzionale, in quanto rivolta ad ampliare la portata di una disposizione di legge speciale attraverso l’equiparazione del licenziamento alle dimissioni, nonostante le differenti ragioni che determinano l’uno e le altre.
La difesa erariale sottolinea altresì, nella memoria presentata in prossimità dell’udienza, che, ai sensi dell’art. 45 r.d.l. n. 1827 del 1935, "l’assicurazione per la disoccupazione involontaria ha per scopo l’assegnazione agli assicurati di indennità nei casi di disoccupazione involontaria per mancanza di lavoro". Dalla summenzionata disposizione si dovrebbe evincere che l’istituto de quo abbia la struttura e le funzioni tipiche della prestazione di natura assicurativa in quanto l’evento, per essere meritevole di tutela, deve essere futuro, incerto, possibile e non imputabile al potenziale avente diritto, non potendo in alcun modo essere riconducibile ad una condotta o ad una manifestazione di volontà del prestatore di lavoro. L’art. 34, comma 5, della legge n. 448 del 1998, ora sottoposto al giudizio di questa Corte, avrebbe, quindi, proprio il fine di chiarire che il diritto ad usufruire del beneficio de quo compete esclusivamente al prestatore che cessa dal rapporto di lavoro subordinato indipendentemente dalla sua volontà.
La difesa erariale contesta, infine, la possibilità di utilizzare come tertium comparationis la situazione dei lavoratori stagionali, trattandosi di fattispecie diversa e non omogenea. Si rileva, invece, che questa Corte, in altra occasione, con riferimento ai trattamenti pensionistici, ha messo in evidenza il disegno legislativo di penalizzare le cessazioni dal servizio volontarie, limitando i benefici previdenziali ai soli casi di cessazione dal servizio provocati da fatti indipendenti dalla volontà del dipendente (sentenza n. 372 del 1998).
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale di Ravenna dubita, con l’ordinanza in epigrafe, della legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 5, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo – legge finanziaria 1999), nella parte in cui, nell’escludere il titolo all’indennità di disoccupazione in caso di dimissioni, non distingue tra dimissioni per giusta causa ed altre forme di recesso del prestatore.
Il giudice a quo ravvisa, anzitutto, un contrasto della disposizione censurata con l’art. 3 della Costituzione, in quanto non contempla la diversità di situazioni sussistente tra le dimissioni per giusta causa, comportanti uno stato di disoccupazione involontaria, e le dimissioni riconducibili ad una libera scelta del lavoratore, integranti uno stato di disoccupazione volontaria.
Secondo l’ordinanza, sussiste, inoltre, lesione dell’art. 38 della Costituzione, in quanto la disposizione censurata non assicura la protezione dei lavoratori il cui stato di disoccupazione sarebbe involontario perchè conseguente a dimissioni per giusta causa non riconducibili ad una libera scelta circa la conservazione del lavoro.
2. - La questione non é fondata nei sensi di seguito specificati.
2.1 - La disposizione censurata prevede che la cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni intervenute con decorrenza successiva al 31 dicembre 1998 non dia titolo alla concessione dell’indennità di disoccupazione ordinaria.
Dalla suddetta disposizione il giudice a quo ricava la norma che esclude la concessione dell’indennità di disoccupazione ordinaria anche per l’ipotesi di dimissioni per giusta causa, dubitando di conseguenza della legittimità costituzionale di essa.
Ma l’enunciato contenuto nell’art. 34, comma 5, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, non contempla espressamente l’ipotesi di dimissioni per giusta causa e la scelta interpretativa del giudice rimettente può essere revocata in dubbio alla luce di altre norme presenti nel sistema e, soprattutto, in presenza di un’altra possibile interpretazione conforme a Costituzione.
Nel nostro ordinamento, l’ipotesi della giusta causa é presa in considerazione dall’art. 2119 cod. civ. che ai fini della suddetta qualificazione del recesso del contraente richiede che si verifichi "una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto". In presenza di una condizione di improseguibilità del rapporto, la cui ricorrenza deve essere valutata dal giudice, l’atto di dimissioni, ancorchè proveniente dal lavoratore, sarebbe comunque da ascrivere al comportamento di un altro soggetto ed il conseguente stato di disoccupazione non potrebbe che ritenersi, ai sensi dell’art. 38 della Costituzione, involontario.
Le dimissioni indotte da una causa insita in un difetto del rapporto di lavoro subordinato, così grave da impedirne persino la provvisoria prosecuzione (art. 2119 cod. civ.), comportano, dunque, come rilevato dallo stesso giudice a quo, uno stato di disoccupazione involontaria e devono ritenersi non comprese, in assenza di una espressa previsione in senso contrario, nell’ambito di operatività della disposizione censurata, potendosi pervenire a tale risultato attraverso una interpretazione conforme a Costituzione della stessa.
2.2 - La disposizione censurata risponde senz’altro ad esigenze di contenimento della spesa pubblica e di razionalizzazione del sistema, attraverso l’introduzione di un requisito inteso ad impedire distorte conseguenze applicative del trattamento di favore. Ma, come sopra rilevato, dalla formulazione di essa non discende l’esclusione della corresponsione dell’indennità ordinaria di disoccupazione per le ipotesi in cui le dimissioni non siano riconducibili alla libera scelta del lavoratore, in quanto indotte da comportamenti altrui idonei ad integrare la condizione della improseguibilità del rapporto.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 5, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo – legge finanziaria 1999), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, dal Tribunale di Ravenna, con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 giugno 2002.
Cesare RUPERTO, Presidente
Fernanda CONTRI, Redattore
Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2002.