Sentenza n. 381/2001

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SENTENZA N.381

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Fernando SANTOSUOSSO, Presidente     

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA  

- Gustavo ZAGREBELSKY  

- Valerio ONIDA        

- Carlo MEZZANOTTE         

- Fernanda CONTRI   

- Guido NEPPI MODONA    

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI    

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK        

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, del decreto-legge 7 gennaio 2000, n. 2 (Disposizioni urgenti per l’attuazione dell’articolo 2 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, in materia di giusto processo), convertito in legge 25 febbraio 2000, n. 35, promossi con ordinanze emesse il 4 maggio 2000 dalla Corte di appello di L’Aquila, l’8 maggio 2000 dal Tribunale di Firenze ed il 3 ottobre 2000 dalla Corte di appello di Catania, rispettivamente iscritte ai nn. 514 e 511 del registro ordinanze 2000 ed al n. 130 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2000 e n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2001.

Visti l’atto di costituzione di A. M., nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 25 settembre 2001 e nella camera di consiglio del 26 settembre 2001 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick;

uditi gli avvocati Jacopo Bartolomei e Mauro Mellini per A. M.

Ritenuto in fatto

1.-La Corte di appello di L’Aquila ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 (verosimilmente: art. 1, comma 2) del decreto-legge 7 gennaio 2000, n. 2 (Disposizioni urgenti per l’attuazione dell’articolo 2 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, in materia di giusto processo), come modificato dalla legge di conversione 25 febbraio 2000, n. 35, "limitatamente alla parte in cui consente, sia pure in via transitoria, la valutazione, come elementi probatori, delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da chi per libera scelta si é sempre volontariamente sottratto all’esame dell’imputato o del suo difensore, nella ipotesi in cui le dichiarazioni siano già acquisite al fascicolo per il dibattimento alla data di entrata in vigore della legge attuativa dell’art. 111 della Costituzione". Osserva al riguardo la Corte rimettente che la legge di conversione non avrebbe introdotto modifiche di sostanza alle previsioni dettate dal decreto-legge, giacchè sarebbe rimasta ferma la differenza di regime probatorio tra processi, a seconda della fase in cui questi si trovavano al momento di entrata in vigore della legge attuativa del "nuovo" art. 111 Cost. Si sottolinea, in proposito, che, mentre la regola generale é l’applicazione ai processi in corso del principio enunciato dall’art. 111 Cost., secondo il quale non hanno valore probatorio le dichiarazioni accusatorie di chi si é poi sottratto per libera scelta alla escussione dibattimentale, si introduce una deroga per l’ipotesi in cui tali dichiarazioni, rese durante le indagini, siano state già acquisite al fascicolo per il dibattimento alla data di entrata in vigore della legge attuativa, giacchè in tal caso quelle dichiarazioni assumono valore probatorio "se la loro attendibilità é confermata da altri elementi di prova, assunti o formati con diverse modalità".

La norma transitoria sarebbe pertanto - a parere del rimettente - in contrasto con il principio fondamentale introdotto dall’art. 111 Cost. Quest’ultimo, infatti, esclude tassativamente che abbiano valore probatorio le dichiarazioni rese da chi si sia poi sottratto liberamente e volontariamente al contraddittorio, mentre la norma transitoria conferisce, sia pure temporaneamente, valore ed efficacia di prova ad elementi che ormai tale valore avrebbero perso per effetto della introduzione del nuovo principio costituzionale. D’altra parte - osserva ancora il rimettente - il fatto che la legge costituzionale n. 2 del 1999, introduttiva del "nuovo" art. 111 Cost., abbia previsto la emanazione di norme transitorie nella forma della legge ordinaria non implica che tale legge possa derogare a principi costituzionali già in vigore, ovvero procrastinarne od impedirne l’applicazione. Così - sottolinea il giudice a quo - mentre la disposizione dettata dal comma 3, dell’art. 1 del d.l. n. 2 del 2000, come modificato dalla legge di conversione, costituisce specificazione del principio costituzionale, giacchè la sottrazione del dichiarante all’interrogatorio, dipendente da violenza, minaccia od offerta di utilità, non può ritenersi frutto di libera scelta, altrettanto non può dirsi per la regola sancita dal comma 2 dell’art. 1 del medesimo decreto, ponendosi la stessa in termini di "effettivo contrasto con il nuovo principio costituzionale". La sostanziale differenza di regime probatorio, fatta dipendere dal mero dato cronologico, spesso fortuito, che quelle dichiarazioni siano state o meno già acquisite al fascicolo dibattimentale, evidenzierebbe anche una disparità di trattamento tra imputati, essendo questi sottoposti "a diverso regime ed a regole diverse in tema di valutazione della prova, e quindi di colpevolezza, per circostanze indipendenti dal loro comportamento, e sostanzialmente casuali". Il che - conclude il rimettente - porrebbe la norma impugnata in contrasto anche con l’art. 3 Cost.

2.-Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. A parere della Avvocatura, il legislatore costituzionale, nel definire i principi fondamentali del giusto processo, ha inteso consentire alla legge ordinaria di derogare a quei principi per le esigenze transitorie dei procedimenti penali in corso alla data della sua entrata in vigore. Una deroga - puntualizza l’Avvocatura - "contenuta nei ristretti limiti necessitati dal coordinamento fra il vecchio ed il nuovo sistema e giustificati, sul piano della ragionevolezza, dalla legittimità delle acquisizioni dibattimentali avvenute prima della entrata in vigore della nuova legge ordinaria".

3.-Ha infine spiegato intervento una delle parti private, chiedendo dichiararsi la illegittimità costituzionale della disposizione impugnata. Osserva in particolare l’interventore che la funzione della legge ordinaria, secondo il disposto dell’art. 2 della legge costituzionale n. 2 del 1999, deve essere quella di stabilire particolari modalità del processo in funzione dell’innesto del nuovo principio costituzionale; mai, invece, può considerarsi consentito alla stessa legge ordinaria di limitare in generale l’applicazione di quel principio ai processi in corso. Tanto meno la legge ordinaria - si assume ancora - può trasformare per talune categorie di processi la portata del disposto del quarto comma dell’art. 111 Cost., il quale ha connotazioni squisitamente interdittive. Pertanto, far dipendere l’applicabilità di un principio costituzionale in ordine al valore delle prove penali, non dal momento della decisione o della verifica in contraddittorio, ma da un dato meramente estrinseco, per di più dipendente dalla richiesta di parte, quale é quello dell’inserimento nel fascicolo per il dibattimento di verbali delle indagini preliminari, rappresenterebbe - a dire dell’interventore - un "criterio chiaramente irrazionale ed arbitrario che in linea generale e ancor più con riferimento alla specifica finalità della legge, concreta un vero eccesso di potere legislativo".

4.-Anche la Corte di appello di Catania ha sollevato, in riferimento agli artt. 111 e 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1 e 2, della legge 25 febbraio 2000, n. 35 (recte: del d.l. 7 gennaio 2000, n. 2, convertito, con modificazioni, nella legge n. 35 del 2000), nella parte in cui consente l’utilizzazione delle dichiarazioni rese da chi per libera scelta si é sottratto all’esame dell’imputato o del suo difensore, se già acquisite al fascicolo per il dibattimento. Il giudice a quo - chiamato a celebrare il giudizio di rinvio a seguito di annullamento pronunciato dalla Corte di cassazione - ha in particolare sottolineato come, nel caso di specie, si sia realizzato un singolare parallelismo tra l’evolversi del procedimento e le modifiche normative via via succedutesi nel tempo: evenienza, questa, che, a dire dello stesso rimettente, avrebbe generato "problemi interpretativi di notevole portata circa la disciplina attualmente applicabile e la sua eventuale aderenza ai nuovi principi costituzionali posti dall’art. 111 Cost.". Il giudizio di legittimità, infatti, a differenza di quelli di merito, era stato celebrato in costanza dei principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 361 del 1998, e la stessa Corte di cassazione - ha soggiunto il giudice rimettente - "con l’annullamento ed il rinvio, ha disposto l’acquisizione e la valutazione delle dichiarazioni dei coimputati e degli imputati di reato connesso astenutisi dal deporre, mediante contestazione a termini dell’art. 500, comma 4, c.p.p.". Dopo la sentenza di legittimità sono infine sopravvenuti i principi del giusto processo e la legge "di provvisoria attuazione" n. 35 del 2000. Il primo dubbio che il rimettente si pone é dunque quello di stabilire se il principio di diritto affermato nella sentenza di annullamento con rinvio sia rimasto superato dallo jus superveniens e se, quindi, rimanga spazio per l'acquisizione e la valutazione delle dichiarazioni di che trattasi: v’é da chiedersi, in altri termini, se l’espressione "acquisite al fascicolo per il dibattimento", che compare nella disposizione impugnata, coincida con il termine "acquisite" usato dalla Cassazione. Dubbio, questo, che si rivela - a dire del giudice a quo - di notevole portata, giacchè se le dichiarazioni in questione devono ritenersi non acquisite, non si potrà procedere a nuova contestazione, così sostanzialmente vanificandosi il relativo valore probatorio. Se, invece, tali dichiarazioni possono considerarsi acquisite, esse sarebbero valutabili nei limiti previsti dall’art. 1, comma 2, del d.l. n. 2 del 2000, dando luogo, peraltro, ad "immediati profili di costituzionalità della legge stessa in rapporto al principio di cui all’art. 111 Cost.". E’ ben vero - soggiunge il rimettente - che l’art. 2 della legge costituzionale n. 2 del 1999 ha previsto una disciplina transitoria da realizzare con legge ordinaria, ma tale possibilità non può che riguardare l’adeguamento ed il coordinamento del quadro normativo al principio costituzionale, senza che questo possa subire compressioni. Sarebbe violato anche l’art. 3 Cost., in quanto l’applicabilità della norma costituzionale e del relativo regime probatorio verrebbe fatta dipendere da un dato temporale aleatorio, quale é quello della acquisizione delle dichiarazioni al fascicolo per il dibattimento, così determinando l’irragionevole conseguenza di introdurre una diversa disciplina probatoria nell’ambito dello stesso procedimento o anche in più procedimenti pendenti nella stessa fase.

5.-Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, la quale ha svolto considerazioni identiche a quelle formulate in relazione alla questione sollevata dalla Corte di appello di L’Aquila.

6.-Anche il Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1 e 2, della "legge 25 febbraio 2000, n. 35", nella parte in cui "permette l’utilizzazione e la valutazione dei verbali delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da chi, per libera scelta, si é sempre volontariamente sottratto all’esame dell’imputato o del suo difensore acquisiti al fascicolo per il dibattimento prima dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 2 del 23/11/1999". A parere del giudice a quo sarebbe violato l’art. 3 della Costituzione, in quanto la acquisizione e la valutazione del materiale probatorio verrebbero fatte dipendere da un criterio estrinseco, aleatorio, legato a dinamiche organizzative e ad un mero dato temporale, che prescinde dalla volontà delle parti; cosicchè, posizioni processualmente omologhe, nell’ambito della stessa vicenda processuale, sarebbero "suscettibili di differente valutazione sulla base dell’avvenuta o meno acquisizione di dichiarazioni della fase delle indagini di contenuto accusatorio".

7.-Anche in tale giudizio ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, la quale si é limitata a richiamare le considerazioni già svolte a proposito della questione sollevata dalla Corte di appello di L’Aquila.

Considerato in diritto

1.-Le ordinanze di rimessione sollevano questioni del tutto analoghe. I relativi giudizi devono pertanto essere riuniti per essere definiti con un’unica decisione.

2.-La questione sollevata dalla Corte di appello di L’Aquila é infondata.

Il giudice rimettente muove dalla premessa secondo la quale la disposizione dettata dall’art. 1, comma 2, del d.l. n. 2 del 2000, convertito con modificazioni, dalla legge n. 35 del 2000, ancorchè destinata ad introdurre una specifica disciplina transitoria volta a presidiare l’applicazione nei processi in corso dei principi contenuti nel novellato art. 111 della Costituzione, risulterebbe in concreto elusiva proprio della regola "fondamentale" sancita da quello stesso articolo della Carta costituzionale. Ciò in quanto la norma oggetto di impugnativa, attribuendo valore probatorio "anche alle dichiarazioni di chi si sia poi sottratto liberamente e volontariamente all’interrogatorio dibattimentale", assegnerebbe efficacia di prova ad elementi che tale valenza non potrebbero più avere per effetto della nuova previsione costituzionale. Nè – secondo il rimettente - simili risultati possono ritenersi legittimati dall’art. 2 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, ove é stabilito che la legge ordinaria avrebbe regolato l’applicazione dei nuovi principi ai processi in corso alla data di entrata in vigore della stessa legge costituzionale, in quanto la disposizione censurata, lungi dal rappresentare - come il comma 3 dello stesso articolo - una semplice specificazione applicativa di quei principi, si pone, rispetto ad essi, in posizione di "effettivo contrasto".

Una simile argomentazione si rivela, però, priva di consistenza, in quanto radicata su di una premessa che finisce per risultare totalmente elusiva delle specifiche connotazioni che possono - ed anzi debbono - caratterizzare tale regime transitorio: specie ove lo stesso - come nel caso in esame - sia correlato all’inserimento in una fonte costituzionale non soltanto di principi, ma anche di specifiche regole, destinate a disciplinare aspetti essenziali della giurisdizione e del processo penale.

E’ di tutta evidenza, infatti, che l’intera sequenza degli enunciati che caratterizzano il nuovo testo dell’art. 111 Cost., in parte introduttivo di regole destinate a calarsi in un corpo normativo complesso, quale é quello dedicato alla disciplina del procedimento penale, non può ricevere una lettura gerarchicamente orientata - come pretenderebbe il giudice a quo - in virtù della quale sarebbe dato rinvenire, all’interno della stessa disposizione costituzionale, precetti "fondamentali" a fronte di altri, in ipotesi privi di tale connotazione. Al tempo stesso, e proprio con riferimento alle regole di carattere più squisitamente processuale, il legislatore costituzionale si é fatto puntualmente carico di assegnare alla legge ordinaria non soltanto il compito di adeguare il tessuto codicistico alle nuove previsioni costituzionali; ma anche quello di stabilire una specifica disciplina intertemporale, atta a modulare l’applicazione di quei principi nei processi in corso di celebrazione, secondo una linea chiaramente tesa a tracciare un "ponte" normativo destinato a mitigare una drastica applicazione della regola tempus regit actum.

Come lo stesso giudice a quo rammenta, infatti, la legge costituzionale n.2 del 1999, dopo aver modificato l’art. 111 della Costituzione ha, nell’art. 2, espressamente demandato alla "legge" il compito di regolare "l’applicazione dei principi", contenuti nella stessa novella costituzionale, "ai procedimenti penali in corso" alla data della relativa entrata in vigore: così da congegnare un sistema di "passaggio" che, per un verso, non si limitasse a sancire la conservazione, sia pure medio tempore, del pregresso sistema, nella parte in cui questo fosse incompatibile con i nuovi principi e le nuove regole; e che, per un altro verso, sul piano logicamente reciproco, non vanificasse totalmente l’attività probatoria già espletata, rendendo meccanicisticamente operante un diverso modello processuale, con effetti di dispersione delle risultanze processuali, pur ritualmente acquisite secondo la legge del tempo. D’altra parte, ove così non fosse, l’art. 2 della legge costituzionale finirebbe con l’apparire come semplice dichiarazione di principio insuscettibile di dar vita ad un vero regime transitorio, giacchè esso limiterebbe la funzione del legislatore ordinario a quella di pedissequa "trascrizione" del dettato costituzionale e non invece, come pure emerge dal testo dello stesso articolo, di un suo adattamento applicativo ai procedimenti in corso. Applicare quei principi, dunque, non può voler significare altro che operare una ragionevole ponderazione tra le contrapposte esigenze tipiche di una disciplina intertemporale.

Alla luce di tali rilievi emerge con chiarezza che la norma oggetto di impugnativa, lungi dal porsi in contrasto con il parametro evocato dal giudice rimettente, ha puntualmente soddisfatto proprio quella funzione di adeguamento ad essa assegnata dallo stesso art. 2 della già richiamata fonte costituzionale, tracciando un equilibrato passaggio di sistema all’interno dei confini propri del regime transitorio. La disposizione censurata, infatti, non si é limitata a recuperare dichiarazioni assunte al di fuori del contraddittorio, assegnando ad esse - come pure prospetta il giudice rimettente - "valore ed efficacia di prova", secondo un modulo teso in via esclusiva alla conservazione del materiale raccolto. Al contrario, il comma 2 dell’art. 1 del d.l. n. 2 del 2000, nel testo sostituito dalla legge di conversione n. 35 del 2000, introduce un qualificante elemento di novità che vale senz’altro ad escludere il semplice "mantenimento" in vita del previgente regime di acquisizione e utilizzazione delle prove dichiarative, sia pure con riferimento ai soli procedimenti in corso di celebrazione. Infatti, la norma stabilisce che le dichiarazioni rese nel corso delle indagini da chi, per libera scelta, si sia sempre sottratto all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore, sono valutate solo ove concorrano due specifiche condizioni: la prima, rappresentata dalla circostanza che tali dichiarazioni siano state già acquisite al fascicolo per il dibattimento; la seconda, costituita dal fatto che la relativa attendibilità risulti confermata "da altri elementi di prova", sempre che, però, si tratti di elementi confermativi "assunti o formati con altre modalità". Ciò sta quindi a significare che la compressione della dialettica nel momento di assunzione della prova dichiarativa é contemperata - nel momento della valutazione - dal concorrere di emergenze probatorie "esterne", che a loro volta si qualificano non solo sul piano dei relativi risultati ma - anche e soprattutto - per le modalità diverse di assunzione o di formazione. Un composito meccanismo, dunque, tutt’altro che elusivo delle garanzie e dei principi ora espressamente recepiti dalla novella costituzionale.

3.-Il dispositivo della ordinanza di rimessione pronunciata dalla Corte di appello di L’Aquila indica la violazione anche dell’art. 25 della Costituzione, ma di tale profilo non v’é traccia alcuna nella motivazione del provvedimento: talchè la Corte non ha ragione di occuparsi di esso.

4.-Comune, invece, a tutte le ordinanze di rimessione é la dedotta violazione dell’art. 3 della Carta fondamentale in cui sarebbe incorso l’art. 1, comma 2, del d.l. n. 2 del 2000, nella parte in cui ha consentito di utilizzare le dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si é sottratto all’esame dell’imputato o del suo difensore, "se già acquisite al fascicolo per il dibattimento". A parere del Tribunale di Firenze e della Corte di appello di Catania, infatti, la disciplina transitoria dettata dalla norma oggetto di impugnativa determinerebbe una irragionevole diversità di regime probatorio nell’ambito della stessa fase processuale: con conseguente rischio di diverso giudizio di responsabilità e di diverso trattamento sanzionatorio per soggetti imputati, in ipotesi, degli stessi reati; e ciò in dipendenza di un mero dato temporale, del tutto aleatorio, legato a dinamiche organizzative che prescindono dalla volontà delle parti. Analoghe sono le osservazioni svolte nell’ordinanza pronunciata dalla Corte di appello di L’Aquila, ove parimenti si denunzia la irragionevole disparità di trattamento tra imputati, sottoposti a regole diverse in tema di valutazione della prova e, quindi, della colpevolezza, per circostanze indipendenti dal loro comportamento e sostanzialmente casuali.

La censura é palesemente destituita di fondamento. Le possibili diversità di regime processuale, che i rimettenti prospettano a sostegno di essa, rappresentano infatti delle disparità di mero fatto che scaturiscono dalla natura stessa del regime transitorio; quest’ultimo, per definizione, é chiamato ad introdurre una disciplina "di passaggio" tra sistemi normativi e necessariamente si salda ad un determinato momento o fatto processuale, da individuare quale linea di demarcazione a partire dalla quale il regime stesso é chiamato ad operare. La circostanza che si tratti di un fatto "aleatorio", che prescinde dalla volontà delle parti, é un dato del tutto inconferente agli effetti della pretesa censura di irragionevolezza, giacchè ciò che conta é che quel "fatto processuale" sia coerente rispetto alle esigenze del regime transitorio e non si presti ad arbitri. Condizioni, queste ultime, che l’intervenuta acquisizione delle dichiarazioni al fascicolo per il dibattimento soddisfa appieno.

5.-La questione sollevata dalla Corte di appello di Catania deve invece essere dichiarata manifestamente inammissibile, giacchè il giudice rimettente si é limitato ad esprimere una nutrita gamma di perplessità e dubbi interpretativi che non ha provveduto a dirimere in modo univoco: con la conseguente formulazione di un dubbio di costituzionalità in termini meramente ipotetici, formulato in base all’ipotesi in cui la ricostruzione del quadro ermeneutico coinvolto, da parte del giudice, induca alla applicabilità, nella specie, della disciplina censurata.

Considerato, infatti, che - come emerge dalla ordinanza di rimessione - nel procedimento a quo la Corte di cassazione "con l’annullamento ed il rinvio, ha disposto l’acquisizione e la valutazione delle dichiarazioni dei coimputati di reato connesso astenutisi dal deporre, mediante contestazione a termini dell’art. 500, comma 4, c.p.p."; e posto che il giudice rimettente si domanda se l’espressione "acquisite al fascicolo per il dibattimento", utilizzata dalla norma impugnata, coincida con il termine "acquisite" che compare nella pronuncia della Cassazione: é evidente che tale "dubbio", non risolto dallo stesso rimettente, si riverbera sulla ammissibilità del quesito di costituzionalità, giacchè quest’ultimo finisce per essere prospettato solo per l’ipotesi in cui si ritenga che la "acquisizione" delle dichiarazioni sia già intervenuta, rendendo così applicabile (e dunque rilevante) la disciplina di utilizzazione processuale oggetto di impugnativa.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, del decreto-legge 7 gennaio 2000, n. 2 (Disposizioni urgenti per l’attuazione dell’articolo 2 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, in materia di giusto processo), convertito, con modificazioni, nella legge 25 febbraio 2000, n. 35, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 25 e 111 della Costituzione, dalla Corte di appello di L’Aquila con l’ordinanza in epigrafe;

2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1 e 2, del menzionato decreto-legge n. 2 del 2000, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dalla Corte di appello di Catania con l’ordinanza in epigrafe;

3) dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1 e 2, del menzionato decreto-legge n. 2 del 2000, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Firenze con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 novembre 2001.

Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2001.