SENTENZA N. 227
ANNO 2001
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai Signori Giudici:
- Cesare RUPERTO, Presidente
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
SENTENZAnel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge 11 agosto 1973, n. 533 (Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie), promosso con ordinanza emessa il 26 aprile 2000 dal Tribunale di Torino nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Moubarak Brahim e il Ministero delle finanze, iscritta al n. 473 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 2000.
Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 marzo 2001 il Giudice relatore Franco Bile;
Ritenuto in fatto1.- Il Tribunale di Torino (in composizione monocratica) - nel corso di tre giudizi civili riuniti, proposti da M. B. contro il Ministero delle finanze, in opposizione avverso atti di accertamento di violazioni e di irrogazione delle correlate sanzioni per l’omesso versamento di imposte di bollo in atti giudiziari - ha sollevato questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, dell’articolo 10 della legge 11 agosto 1973, n. 533 (Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie), che ha sostituito l’articolo unico della legge 2 aprile 1958, n. 319 (Esonero da ogni spesa e tassa per i giudizi di lavoro), nella parte in cui <<esclude, ovvero non contempla>> il regime di gratuità e di esenzione, senza limite di valore o di competenza, dall’imposta di bollo, di registro e da ogni spesa, tassa, o diritto di qualsiasi specie e natura, per i giudizi aventi ad oggetto azioni surrogatorie (art. 2900 del codice civile) o revocatorie (art. 2901 del codice civile), nonché per il procedimento di sequestro conservativo funzionale all’esercizio della revocatoria (art. 2905, secondo comma, del codice civile), qualora il loro esperimento avvenga per conservare la garanzia patrimoniale di un credito di lavoro.
Il rimettente dà atto che l’opponente, dopo avere ottenuto dal Pretore di Torino, in funzione di giudice del lavoro, sentenza di condanna del suo datore di lavoro al pagamento di lire 35.035.286, aveva provveduto ad instaurare nei confronti del medesimo e di altri due soggetti, azione revocatoria ex art. 2901 cod. civ., in relazione ad atti di disposizione patrimoniale compiuti in loro favore dal suo datore di lavoro. Rileva, quindi, che l’opponente non aveva assolto l’imposta di bollo nel relativo giudizio e che da ciò erano stati originati gli atti di accertamento e di irrogazione delle sanzioni oggetto dell’opposizione.
Il rimettente osserva che lo stesso opponente ha sollevato la questione di legittimità costituzionale e ne fa propri i motivi di non manifesta infondatezza, rilevando che l’esclusione dalle esenzioni e dalla gratuità previste dalla norma impugnata dei giudizi instaurati dal <<creditore di lavoro>> con le azioni di conservazione della garanzia patrimoniale, determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra il creditore costretto da atti di disposizione pregiudizievoli ad esercitare quelle azioni per ottenere la realizzazione del proprio credito ed il creditore che agisca esecutivamente, eventualmente procedendo ad espropriazione immobiliare. La disparità di trattamento sarebbe ingiustificata, data l’omogeneità delle situazioni <<sotto il profilo funzionale del ricorso alla tutela giurisdizionale del diritto nascente dal rapporto di lavoro>>.
Inoltre, la mancata estensione dell’esenzione alle azioni in esame violerebbe anche il diritto di azione e di difesa ex art. 24 Cost., <<risultando certamente più oneroso e difficile per il lavoratore instaurare un giudizio diretto a ricostituire la garanzia patrimoniale pregiudicata dal proprio debitore>>.
Quanto alla rilevanza, il rimettente assume che i giudizi non possono essere definiti indipendentemente dalla soluzione della questione <<avendo i medesimi ad oggetto l’accertamento della debenza dell’imposta di bollo in un giudizio di revocatoria introdotto per far valere un credito di lavoro>>.
2.- E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, tramite l’Avvocatura generale dello Stato, sostenendo l’infondatezza della questione.
Quanto all’art. 3, le azioni di cui agli artt. 2900, 2901 e 2905 cod. civ. non sarebbero assimilabili ai mezzi esperibili direttamente per l’accertamento e la realizzazione concreta del credito di lavoro. In particolare, sarebbe da escludere l’assimilabilità fra azione revocatoria e azione esecutiva, in quanto la prima dà luogo ad un giudizio trilatero, cui partecipa un terzo estraneo al rapporto di lavoro dal quale nasce il credito. Si giustificherebbe quindi la diversità di trattamento rispetto all’azione esecutiva, <<che interessa in via immediata, ed esclusiva, creditore e debitore della retribuzione o di altra prestazione pecuniaria originata dal rapporto di lavoro>>. Inoltre, mentre il giudizio di cognizione od esecutivo direttamente attinente al credito di lavoro meriterebbe <<particolare e distinta attenzione da parte del legislatore, siccome rappresentato da un bene di fondamentale rilievo individuale e sociale>>, viceversa i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, pur quando fatti valere strumentalmente ad un credito di lavoro, resterebbero rimedi di diritto comune, sottoposti cioè <<quanto a presupposti, condizioni, competenza giudiziaria ecc. alla stessa disciplina generale che lo governa senza riguardo alla natura del credito a tutela del quale sia esperito>>.
Infondata sarebbe anche la lesione dell’art. 24, in quanto il diritto di azione non sarebbe precluso o menomato dalla soggezione al normale regime fiscale degli atti processuali.
Considerato in diritto1.- L’ordinanza in epigrafe dubita della legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge 11 agosto 1973, n. 533, recante "Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie", (che ha sostituito l’articolo unico della legge 2 aprile
1958, n. 319, sull’esonero da ogni spesa e tassa per i giudizi di lavoro), nella parte in cui <<esclude ovvero non contempla>> l’applicabilità del regime di gratuità ed esenzione dall’imposta di bollo, di registro e da ogni spesa, tassa, o diritto di qualsiasi specie e natura, ai giudizi concernenti azioni surrogatorie o azioni revocatorie o sequestri conservativi a queste ultime funzionali (artt. 2900, 2901, 2905, secondo comma, cod. civ.), promossi per conservare la garanzia patrimoniale di crediti di lavoro.
Secondo l’ordinanza la norma lederebbe:
(a) l’art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento tra chi agisca in via esecutiva per realizzare un credito di lavoro e chi invece eserciti le azioni indicate per conservare la garanzia patrimoniale dello stesso credito, in quanto solo il primo e non anche il secondo fruirebbe dell’esenzione, pur essendo entrambe le azioni funzionali alla tutela del diritto nascente dal rapporto di lavoro;
(b) l’art. 24 Cost., sotto il profilo che la mancata esenzione dei giudizi volti a tutelare la garanzia patrimoniale renderebbe più oneroso l’esercizio del diritto di azione e di difesa in giudizio da parte del creditore di lavoro.
2. - La questione è rilevante solo per l’azione revocatoria, esercitata nel giudizio cui si riferisce l’imposta controversa.
3. - Essa non è fondata, perché la norma impugnata - della quale il rimettente, pur in assenza di <<diritto vivente>>, non ha ricercato un’interpretazione adeguatrice - deve essere interpretata in modo da escludere la prospettata incostituzionalità.
Il primo comma dell’art. 10 dichiara esenti dall'imposta di bollo, di registro e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura, tra gli altri, gli atti relativi alle <<controversie individuali di lavoro>> (da identificare in quelle di cui all’art. 409 del codice di procedura civile) ed <<ai provvedimenti di conciliazione dinanzi agli uffici del lavoro e della massima occupazione o previsti da contratti o accordi collettivi di lavoro>>.
Il secondo comma dispone che <<sono allo stesso modo esenti gli atti e i documenti relativi alla esecuzione sia immobiliare che mobiliare delle sentenze ed ordinanze emesse negli stessi giudizi, nonché quelli riferentisi a recupero dei crediti per prestazioni di lavoro nelle procedure di fallimento, di concordato preventivo e di liquidazione coatta amministrativa>>.
L’ultimo comma recita infine che <<le disposizioni di cui al primo comma si applicano alle procedure di cui agli artt. 618-bis, 825 e 826 cod. proc. civ.>>.
4. - L’art. 10 è suscettibile di interpretazione estensiva - in principio non vietata dal carattere eccezionale delle norme di esenzione, preclusivo solo di quella analogica (art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile) - nel senso di ritenere compresi nell’ambito dell’esenzione anche procedimenti non formalmente contemplati ma pur sempre finalizzati alla tutela del credito di lavoro.
Una diversa lettura dell'art. 10 rivelerebbe del resto una radicale incoerenza interna della norma, fonte di irragionevoli disparità di trattamento, e condurrebbe a negare l’esenzione a una serie di procedimenti non menzionati dal secondo comma, con evidente e irragionevole discriminazione rispetto a quelli esplicitamente esentati. Così non sarebbero esenti l’esecuzione promossa sulla base di verbali di conciliazione sottoscritti nel procedimento avanti al giudice del lavoro (art. 420 cod. proc. civ.), mentre lo è l’esecuzione in virtù di sentenze o ordinanze pronunciate da quel giudice in quel procedimento; l’esecuzione promossa in base a verbali di conciliazione formati avanti agli uffici del lavoro o previsti da contratti collettivi (artt. 410 ss. cod. proc. civ.), mentre lo sono gli atti dei procedimenti conclusi da quei verbali; e ancora l’esecuzione iniziata in base a titolo esecutivo stragiudiziale (art. 474, secondo comma, n. 3, cod. proc. civ.) che accerti crediti di lavoro, mentre lo è l’opposizione all’esecuzione promossa sulla base dello stesso titolo (e quella avverso i relativi atti esecutivi).
5. - In siffatto quadro si colloca il problema del riconoscimento o meno dell’esenzione all’azione revocatoria proposta dal creditore di lavoro, per assicurare la garanzia patrimoniale del proprio credito.
Tale azione - ma il problema interpretativo è comune alla surrogatoria ed al sequestro ex art. 2905, secondo comma, cod. civ. - mira evidentemente a tutelare, sia pure con modalità peculiari, lo stesso credito nascente dal rapporto di lavoro che la norma impugnata ritiene di esentare dal normale trattamento tributario, per agevolare il ricorso del creditore alla tutela giurisdizionale.
Il rilievo vale da solo ad escludere la ragionevolezza di eventuali disparità di trattamento.
Soccorre poi l’argomento che - dopo il positivo esperimento dell’azione revocatoria - la successiva espropriazione contro il terzo proprietario, acquirente in virtù dell’atto revocato, avviene pur sempre in base al titolo esecutivo ottenuto nella controversia di lavoro, e quindi sicuramente si avvale dell’esenzione. Ne risulta quindi confermata l’irrazionalità di un ipotetico sistema che - pur riconoscendo l’esenzione alla fase cognitiva che conduce al titolo esecutivo contro il debitore, ed alla fase esecutiva contro il terzo dopo l’esito vittorioso della revocatoria - la negasse invece all’eventuale fase intermedia, da questa rappresentata, volta ad assicurare l’esercizio del diritto riconosciuto in un giudizio esente da imposte, in vista di una successiva esecuzione parimenti esentata.
L’irragionevolezza è ulteriormente avvalorata dalla sicura spettanza dell’esenzione alla revocatoria che il creditore di lavoro proponga contestualmente all’azione per l’accertamento del credito. Il terzo comma dell’art. 40 cod. proc. civ. impone infatti la trattazione congiunta delle due cause (con il rito del lavoro), e l’unità del giudizio comporta l’esenzione per entrambe le azioni.
6. - Non rileva invece, ai fini dell’esenzione, che l’azione revocatoria a tutela di un credito di lavoro - se esercitata separatamente dall’azione relativa a quel credito - non rientri nella competenza del giudice del lavoro, né sia soggetta al rito speciale.
Invero l’esenzione si coordina alla situazione sostanziale dedotta in giudizio e non al rito. Ne è prova la sua applicazione a procedimenti di sicuro estranei al rito del lavoro, come le opposizioni in tema di ammissione dei crediti al passivo fallimentare e i giudizi di accertamento dell’obbligo del terzo ex art. 548 cod. proc. civ., certamente esentati dal secondo comma della norma impugnata, in quanto rispettivamente inquadrabili nel <<recupero dei crediti per prestazioni di lavoro nelle procedure di fallimento>> e nell’esecuzione in genere.
7. - Interpretata nel senso che l’esenzione si applica anche all’azione revocatoria esercitata per conservare la garanzia patrimoniale del credito di lavoro, la norma impugnata si sottrae alle prospettate censure di incostituzionalità, e la relativa questione - alla stregua della consolidata giurisprudenza di questa Corte - deve essere dichiarata non fondata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge 11 agosto 1973, n. 533 (Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie), sollevata dal Tribunale di Torino, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio 2001.
Cesare RUPERTO, Presidente
Franco BILE, Redattore
Depositata in Cancelleria il 6 luglio 2001.