ORDINANZA N. 72
ANNO 2001
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare RUPERTO, Presidente
- Fernando SANTOSUOSSO
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 166 del codice penale, come modificato dall'art. 4 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti) e 2, comma 5, della legge 25 agosto 1991, n. 287 (Aggiornamento della normativa sull’insediamento e sull’attività dei pubblici servizi), promosso con ordinanza emessa il 7 gennaio 2000 dal Tribunale di Genova, nel procedimento civile vertente tra Calderone Carmelo e le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Genova ed altra, iscritta al n. 260 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 2000.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 24 gennaio 2001 il Giudice relatore Riccardo Chieppa.Ritenuto che nel corso di un procedimento civile, diretto ad ottenere il riconoscimento del diritto ad essere iscritto nel Registro degli esercenti il commercio di cui all’art. 2, comma 1, della legge 25 agosto 1991, n. 287 - iscrizione che era venuta meno a seguito di condanna penale (per reati di cui agli artt. 18 e 110 cod. pen. e art. 3, numero 3, della legge 20 febbraio 1958 n. 75) ancorché sospesa condizionalmente - il Tribunale di Genova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 35 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 166 cod. pen., come modificato dall’art. 4 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti) e 2, comma 5, della legge 25 agosto 1991, n. 287 (Aggiornamento della normativa sull’insediamento e sull’attività dei pubblici servizi), nella parte in cui prevedono che per gli esercenti un pubblico esercizio commerciale la sospensione condizionale della pena non vale ad escludere il diniego di concessione, di licenza o di autorizzazione necessarie per lo svolgimento dell’attività lavorativa;
che il giudice a quo osserva che, in relazione alle ipotesi di rilevanza della condanna penale ai fini del riscontro dei requisiti soggettivi per ottenere l'iscrizione in albi o elenchi, vale, in generale, il principio stabilito dall'art. 4, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, modificativo dell'art. 166 cod. pen., secondo cui la condanna a pena condizionalmente sospesa non può costituire di per sé sola impedimento all'accesso a posti di lavoro, né determinare il diniego di concessioni, licenze o autorizzazioni necessarie per svolgere l'attività lavorativa;
che, tuttavia, detta norma generale non opera in relazione allo specifico settore dei pubblici esercizi commerciali, in quanto derogata dall'art. 2, comma 5, della successiva legge 25 agosto 1991, n. 287, il quale prevede che il divieto di iscrizione nei relativi registri operi, in caso di sospensione condizionale della pena, dal giorno del passaggio in giudicato della sentenza; che tale disposizione determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento a danno degli esercenti di pubblici esercizi commerciali; né assumerebbe al riguardo rilievo la circostanza che la norma generale prevede espressamente delle deroghe al citato principio, non costituendo tale circostanza una giustificazione sufficiente, in riferimento al canone della ragionevolezza alla stregua del quale va valutata la conformità della legge al principio di uguaglianza, delle singole deroghe di volta in volta disposte dal legislatore;
che la normativa in questione - sempre secondo l’ordinanza di remissione - si porrebbe inoltre in contrasto con l'art. 35 della Costituzione, avuto riguardo ai riflessi negativi sul diritto al lavoro conseguenti alla denunciata disparità di trattamento;
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri con il patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza della questione, osservando che la previsione di cui all'art. 166 cod. pen. nel testo vigente non può considerarsi preclusiva della possibilità del legislatore di derogare con legge successiva alla disciplina fissata in via generale;
che, in particolare, nella memoria dell’Avvocatura dello Stato si richiama la giurisprudenza costituzionale che ha affermato che il principio di proporzione, il quale impone di commisurare la sanzione all'addebito, non trova applicazione per quei provvedimenti che conseguono di diritto al venire meno di un requisito soggettivo, come nella specie.
Considerato che la legge 25 agosto 1991, n. 287 (Aggiornamento della normativa sull’insediamento e sull’attività dei pubblici esercizi) prevede, nell’art. 2, per l’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, la necessità di iscrizione del titolare dell’impresa o del legale rappresentante della società o di un suo delegato in apposito registro, nel quale, salvo che abbiano ottenuto la riabilitazione, non possono essere iscritti per una durata quinquennale (e se iscritti debbono essere cancellati) coloro che abbiano riportato determinate condanne, tra cui condanne per reati contro la moralità pubblica e il buon costume o contro l’igiene e la sanità pubblica, compresi i delitti di cui al libro VI, Capo II, del codice penale (la fattispecie si riferisce a condanna ad un anno e nove mesi di reclusione e a Lire 500.000 di multa per reati di cui all’art. 3, numero 3, della legge n. 75 del 1958, relativi ad agevolazione della prostituzione commessa in relazione ad esercizio di locale soggetto all'anzidetta disciplina dei pubblici esercizi);
che con specifica disposizione (art. 2, comma 5, della legge n. 287 del 1991, denunciata in questa sede) si dispone per le ipotesi di condanna penale espressamente indicate (tra cui quella per cui si discute) che la durata della sospensione quinquennale decorra alternativamente dal giorno in cui la condanna è stata scontata o sia in qualsiasi altro modo estinta ovvero, qualora sia stata concessa la sospensione condizionale della pena, dal giorno del passaggio in giudicato della sentenza;
che le predette norme configurano la condanna penale per determinati reati - ritenuti dal legislatore rilevanti ai fini della esclusione dallo svolgimento di funzioni di responsabilità nella attività di pubblici esercizi con somministrazione di alimenti e bevande - ed il conseguenziale divieto quinquennale di iscrizione con automatica cancellazione dal registro, quale situazione che determina il venir meno dei requisiti soggettivi per l’iscrizione e lo svolgimento di funzioni di responsabilità (titolare dell'impresa, rappresentante di società o suo delegato) nella anzidetta attività;
che questa Corte ha affermato in casi analoghi (ordinanza n. 226 del 1997; sentenza n. 297 del 1993) che non si può invocare né una gradualità sanzionatoria, né un principio di proporzione per i provvedimenti espulsivi (al di fuori di un rapporto di impiego e di esercizio di poteri disciplinari) che conseguono di diritto al venire meno di un requisito soggettivo;
che deve escludersi sia una ingiustificata disparità di trattamento, sia una manifesta irragionevolezza nella scelta del legislatore che, per gli esercenti (con funzioni di responsabilità) di pubblici esercizi, abbia previsto un particolare regime di durata quinquennale dell’effetto impeditivo della condanna, con esclusione della rilevanza della sospensione condizionale della pena, dovendosi tenere conto della specificità del settore e del particolare legame tra la tipologia dell'attività svolta ed i reati in relazione ai quali detto effetto impeditivo è disposto (tra i quali il caso di specie, rientrante nel comma 4, lettera c), dell’art. 2 della legge n. 287 del 1991);
che deve ritenersi egualmente infondato il richiamo all’art. 35 della Costituzione "non potendosi evincere dalla tutela costituzionale del lavoro alcun vincolo specifico per quanto attiene alla disciplina" (ordinanza n. 226 del 1997) dei requisiti soggettivi previsti per una determinata attività che esige particolari garanzie anche per gli utenti del pubblico esercizio: in ciò deve essere sottolineato che il divieto riguarda esclusivamente il titolare dell’impresa e il rappresentante di società o il suo delegato e non coinvolge diversa attività lavorativa al di fuori delle anzidette funzioni di responsabilità o in settori diversi dai pubblici esercizi.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 166 del codice penale, come modificato dall’art. 4 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti) e 2, comma 5, della legge 25 agosto 1991, n. 287 (Aggiornamento della normativa sull’insediamento e sull’attività dei pubblici servizi), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 35 della Costituzione, dal Tribunale di Genova, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2001.
Cesare RUPERTO, Presidente
Riccardo CHIEPPA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 16 marzo 2001.